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Ultime notizie dal mondo

di redazionale - 21/01/2008

 

a)   Palestina / Israele. I palestinesi ad un bivio, secondo il primo ministro israeliano Ehud Olmert (4). Il suo collega di governo Barak, ministro della difesa, blocca la pubblicazione di un rapporto sugli ulteriori furti di terra palestinese (8). Bush perora l'istanza confessionale per soli ebrei dello Stato d'Israele (10) e detta le condizioni per la nascita dello statarello bantustan di Palestina, in stile apartheid del Sudafrica che fu (11). Nell'anniversario della "nakba" ("catastrofe") palestinese alcune illuminanti dichiarazioni di dirigenti israeliani (14). C'è chi ritiene legittimo parlare di genocidio in Palestina (14). Critiche di analisti israeliani a Bush (14). Il bilancio di sangue palestinese negli ultimi due anni secondo lo Shin Bet (15).

 

b)     Iran / USA. Sull'incidente di Hormuz e più in generale sullo stato dell'arte dei rapporti tra Teheran e Washington, il parere di Lucio Caracciolo (9). I toni bellicisti di Bush da Abu Dhabi (14). Il punto di vista di Teheran sul recente viaggio di Bush (15).

 

c)      Unione Europea / USA / Serbia / Kosovo. Come l'asse USA / Unione Europea prova a risolvere la questione del Kosovo in tre mosse (12), mentre il nuovo premier kosovaro albanese Thaqi torna a dar fuoco alle polveri (con il sostegno USA), cfr. Serbia / Kosovo (10 gennaio). Si apre una potenziale guerra del gas tra Unione Europea e Russia proprio con epicentro la Serbia (12).

 

 

 

Sparse ma significative:

 

·         Pakistan. Dopo l'omicidio Bhutto: un'analisi da “Limes” (5) ed una del potente ex capo dei servizi di intelligence di Islamabad, Hamid Gul (11).

 

·         Afghanistan. Nasce "Guantanamo II", a Bagram, all'interno della grande base militare USA nel paese centrasiatico occupato (11). Bush incrementa il numero delle truppe (15).

 

·         Libano. L'opposizione si prepara alla disobbedienza civile contro un governo sfiduciato nel paese e non costituzionale (4). Un'intervista a “il Manifesto” di Adelhalim Fadlallah, vicepresidente del Consultative Center For Studies and Documentation (Ccsd), il Centro di studi strategici di Hezbollah (13). Il punto dopo il 12° rinvio delle elezioni presidenziali (13). Da collegare Siria / Francia (3).

 

·         USA / Medio Oriente. Un bilancio del recente viaggio di Bush, secondo Mouin Rabbani, analista dell'ufficio di Amman dell'International crisis group.

 

 

 

Tra l’altro:

 

Corsica (13 gennaio).

Euskal Herria (14 gennaio).

Gran Bretagna (11 gennaio).

Polonia (9 gennaio).

Sahara Occidentale (6 gennaio).

Turchia / Kurdistan (9, 15 gennaio).

Iraq (2 gennaio).

USA / Iraq (11 gennaio).

Russia (11 gennaio).

Ucraina (15 gennaio).

Sri Lanka (3 gennaio).

Taiwan (13 gennaio).

Messico (1 gennaio).

Venezuela / Colombia (12 gennaio).

Colombia (4, 11 gennaio).

Cile (13 gennaio).

Australia (7 gennaio).

 

 

  • Messico. 1 gennaio. Il ruolo delle donne nelle lotte per ricordare il 14° anniversario dell'insorgenza zapatista in Chiapas. L'EZLN (Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale) ha così celebrato, a La Garrucha (Stato messicano del Chiapas), la Ley Revolucionaria de Mujeres promulgata nel 1994. Questa legge è stata il filo conduttore dell'incontro internazionale delle zapatiste con le donne del mondo: vi hanno partecipato oltre duemila delegate provenienti da una trentina di paesi.

 

  • Iraq. 2 gennaio. Più di 24mila i civili iracheni che hanno perso la vita, nel 2007, per l'azione delle truppe della coalizione multinazionale a guida USA o delle forze paramilitari a esse collegate. Il dato, fornito da Ibc (Iraq Body Count), organismo non governativo fondato da volontari statunitensi e britannici, scaturisce dalle notizie diffuse dai mass media, dalle denunce di enti umanitari e dalle registrazioni ospedaliere. Stando all'Ibc, l'anno scorso le morti violente di connazionali sono state comprese tra 22.586 e 24.159, portando a un totale oscillante da 81.174 a 88.585 unità dal marzo 2003, quando scattò l'invasione dell'Iraq.

 

  • Siria / Francia. 3 gennaio. Damasco cessa di cooperare con Parigi in Libano dopo che il presidente della Repubblica francese, Nicolas Sarkozy, in Egitto, ha accusato la Siria di essere colpevole della crisi politica che soffre il Libano. L'annuncio è arrivato ieri da parte del ministro siriano degli Esteri, Walid Mouallem, in conferenza stampa a Damasco. «Abbiamo accolto con sorpresa le parole del presidente francese, con le quali considera la Siria e l'opposizione libanese responsabile del fallimento nonostante gli sforzi compiuti dalla Siria, che la Francia conosce molto bene, e la flessibilità della quale ha dato dimostrazione l'opposizione [libanese, ndr] per arrivare ad una regolazione consensuale», ha detto Mouallem.

 

  • Sri Lanka. 3 gennaio. Il governo cingalese ha ufficializzato ieri il suo ritiro formale dall'accordo di tregua firmato, nel 2002, sotto la mediazione della Norvegia. Lo ha annunciato il portavoce della presidenza, Chandrapala Liyanage. Se il 2 dicembre scorso Colombo aveva deciso unilateralmente la fine del cessate-il-fuoco, questo era in realtà già saltato con l'arrivo al potere, alla fine del 2005, del presidente cingalese Mahinda Rajapaksa, un feroce unionista favorevole alla mano dura contro quelli che presenta come «terroristi». Da allora l'esercito dello Sri Lanka si è reso protagonista di una vasta campagna di offensiva aerea e repressione senza precedenti contro i tamil. Iqbal Athas, un analista di Colombo del magazine Jane's Defence Weekly, ha bollato senza perifrasi la decisione del 2 dicembre come una scelta di «guerra a tutto campo... il governo ha affossato l'opzione di pace optando per una offensiva militare più dura contro i ribelli. Una cosa è certa, ci saranno più scontri e più violenza. Il governo pensa che i giochi siano chiusi... ci sarà invece il più intenso periodo di guerra che lo Sri Lanka abbia conosciuto». Il conflitto è iniziato negli anni Ottanta. Da sottolineare che la dirigenza delle Tigri ha registrato tra le sue fila, negli ultimi tempi, perdite importanti al vertice della sua dirigenza. Nel dicembre 2005 il parlamentare filo ribelli Joseph Pararajasingham, ucciso in una chiesa di Batticaloa. Nel novembre 2006 veniva assassinato un altro politico filo-guerriglia, Nadarajah Raviraj. Anton Stanislaus Balasingham, ideologo e portavoce delle Tigri, viene invece ucciso nel dicembre del 2006. Nel novembre 2007 un raid aereo ammazza SP Thamilselvan, capo del braccio politico delle Tigri, mentre qualche giorno fa, è stato ucciso un membro tamil del parlamento, T Maheswaran. Con la recente uccisione, sempre a gennaio, del capo dell'intelligence delle Tigri, il «colonnello» Charles, ma soprattutto l'eliminazione di Balasingham e Thamilselvan -i due personaggi politicamente più rilevanti e i negoziatori dell'ormai fallito processo di pace- le Tigri sono in difficoltà. Colombo sta pensando forse che sia il momento giusto per l'attacco finale. Ma non sono pochi coloro, anche tra gli analisti, che ritengono che Colombo stia facendo male i suoi calcoli.

  • Libano. 4 gennaio. L'opposizione libanese guidata da Hezbollah, e con all'interno la significativa componente cristiana del generale Aoun, è pronta a dichiare la disobbedienza civile. Bloccherà anche le maggiori arterie stradali del Paese, se non otterrà un potere di veto nel prossimo «governo di unità nazionale». Lo afferma un quotidiano dell'opposizione, ad-Diyar, secondo cui a partire dal 12 o 15 gennaio l'opposizione chiederà ai suoi sostenitori nella pubblica amministrazione di astenersi dal lavoro.

 

  • Israele / Palestina. 4 gennaio. I palestinesi sono davanti a due scelte. «Dovranno decidere tra il "diritto al ritorno" dei profughi palestinesi e la possibilità di creare uno Stato palestinese». Lo ha detto il primo ministro israeliano Ehud Olmert. Per gli israeliani, ha aggiunto, «la scelta è tra il nostro diritto naturale di vivere in tutta la [biblica, ndr] Terra di Israele e la necessità di fare compromessi per assicurare l'esistenza di Israele come Stato ebraico».

 

  • Colombia. 4 gennaio. Marulanda chiama ad un'«offensiva generale» delle FARC nel 2008. L'esponente delle FARC (Forza Armate Rivoluzionarie di Colombia), Manuel Marulanda, lo ha detto in un messaggio datato 24 dicembre e che ieri ha diffuso l'Agenzia Bolivariana di Stampa. Il comandante guerrigliero, 77 anni, ha chiesto che «si comincino a preparare le condizioni per un'offensiva generale» contro il governo di Álvaro Uribe. «È necessario approfittare della crisi generale che attraversa il governo e la stanchezza di alcune unità militari», si dice nel comunicato. Marulanda ha quindi sottolineato la necessità di incrementare l'attività di guerriglia sulle montagne e nei centri urbani «senza dar tregua al nemico».

 

  • Pakistan. 5 gennaio. Due gli effetti collaterali dell'omicidio Bhutto: «l'ulteriore indebolimento» (fuori e dentro il paese) del regime del presidente Musharraf e, soprattutto, il discredito (per taluni ulteriore) dell’Inter-Service Intelligence (ISI, i servizi segreti pakistani), nonché la «copertura di una serie di questioni ben più allarmanti». Lo sostiene Francesca Marino nell'edizione elettronica di Limes. Secondo l'autrice dello scritto, l’omicidio di Benazir Bhutto, in Pakistan, ha trasformato quest'ultima da politico inetto e corrotto in una martire della democrazia. Le quotazioni di Musharraf in caduta verticale perfino a Washington mostrano che per il presidente la morte della Bhutto è stata praticamente disastrosa. Sull'effetto-copertura la Marino scrive: «Nel solo mese di novembre, in Pakistan sono morte 728 persone: 341 militanti, 293 civili e 94 soldati. Si tratta del numero di vittime più alto registrato nel paese fin dal 2001. Dall’inizio di dicembre a oggi, inoltre, ci sono stati sette attacchi suicidi che hanno provocato più di cento vittime. Numeri approssimativi, ovviamente, perché registrano soltanto le morti sul campo e non quelle avvenute in ospedale in seguito alle ferite riportate. Stranamente, gli scontri con i militanti e, soprattutto, gli attacchi suicidi hanno registrato un picco proprio durante il periodo in cui in Pakistan vigeva lo stato di emergenza. Stato di emergenza dichiarato il 3 novembre dal presidente Musharraf proprio perché il paese era minacciato dai terroristi, e revocato lo scorso 15 dicembre perché il governo aveva finalmente “spezzato la schiena” ai militanti. Che, per inciso, avevano fatto esplodere una bomba proprio qualche ora prima che il presidente facesse la sua dichiarazione. Proprio il giorno in cui Musharraf revocava lo stato di emergenza, più a ovest, in una località imprecisata del South Waziristan, si riunivano quaranta capi di varie organizzazioni militanti provenienti dalle regioni di frontiera della Federally Administrated Tribal Areas (Fata), della North-West Frontier Province (Nwfp) e dello stesso Waziristan, per formare una nuova organizzazione chiamata Tehrik Taliban-i-Pakistan. L’organizzazione si propone lo scopo di combattere contro le forze Nato in Afganistan e, “a scopo difensivo”, contro l’esercito pakistano. A capo della neonata organizzazione veniva eletto Baitullah Mehsud, l’ultimo (in ordine temporale) degli eroi Taliban. Lo stesso Mehsud che è stato accusato dal governo di essere colpevole dell’omicidio della Bhutto. Mehsud ha immediatamente declinato ogni responsabilità».

 

  • Sahara Occidentale. 6 gennaio. Abdelaziz chiede all'ONU che fermi «la repressione marocchina contro le popolazioni saharawi». La richiesta del presidente della Repubblica Araba Saharawi Democratica, Mohamed Abdelaziz, arriva alla vigilia dell'incontro, per il futuro del Sahara, tra autorità governative di Rabat e Fronte Polisario. La lettera dell'esponente indipendentista indirizzata al segretario generale dell'ONU, Ban Ki-moon, fa riferimento alle pesanti repressioni di manifestazioni pacifiche tenutesi a Smara, El Aaiún e Bojador. Una quarantina in tutto i feriti e saccheggiate diverse case. I fatti sono avvenuti il 26 dicembre scorso, nel corso di iniziative per la liberazione di un saharawi, difensore dei diritti umani, arrestato ed incarcerato a Rabat. il giorno prima, ad El Aaiún, altre 30 persone, la maggior parte donne, madri di una quindicina di giovani "scomparsi" dal 2005, sono state ferite dalla polizia marocchina mentre manifestavano per chiedere informazioni sulla sorte dei propri figli.

 

  • Australia. 7 gennaio. Scuse formali agli aborigeni. Il primo ministro australiano Kevin Rudd, laburista, le ha presentate ai genitori di quelle migliaia di bambini sottrattti con la forza alle famiglie per assimilarle alla cultura anglo-sassone. Queste pratiche sarebbero durate almeno fino agli anni Settanta. Rudd ha però escluso qualunque tipo di indennizzo finanziario. Alcune comunità chiedevano da tempo scuse e indennizzi. L'ex premier conservatore John Howard aveva rifiutato finora anche le scuse.

 

  • Israele. 8 gennaio. Barak blocca la pubblicazione di un documento che fotografa il furto delle terre palestinesi ad opera degli insediamenti ebraici. Per il ministro della difesa censurare il rapporto sulle colonie è necessario per non mettere «a rischio le relazioni con gli USA» che in questa fase hanno chiesto un congelamento della costruzione di colonie nelle terre palestinesi occupate. Il rapporto in questione sugli insediamenti è ufficiale, essendo stato redatto nel 2006 da un consigliere speciale del ministero della difesa, il generale Baruch Spiegel. A rivelarlo è stato Peace Now, che controlla l'espansione delle colonie in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Ma le autorità non vogliono che sia reso pubblico. Potrebbe attentare alla «sicurezza dello Stato», ha detto il ministero della difesa la settimana scorsa chiedendo al tribunale di Tel Aviv d'impedirne la pubblicazione. Haaretz pubblica dichiarazioni del generale Spiegel che parla dell'edificazione massiccia di costruzioni senza permesso in Cisgiordania, che si tratti di insediamenti illegali o autorizzati dalle autorità (ma pur sempre illegali per la legge internazionale). Israele si è impegnato con gli Stati Uniti a smantellare almeno gli avamposti colonici, ma la promessa non è mai stata mantenuta. Nel 2004, un primo rapporto ufficiale redatto dalla giurista Talai Sasson aveva rivelato che il ministero della difesa fornisce appoggio diretto agli avamposti, nonostante siano illegali anche per la legge israeliana. Negli ultimi tempi, grazie all'atteggiamento compiacente di Barak, la colonizzazione si è intensificata e Israele si prepara a costruire altre centinaia di appartamenti sulla collina palestinese di Abu Ghanem, per espandere la colonia di Har Homa, tra Gerusalemme e Betlemme.

 

  • Polonia. 9 gennaio. «Non ci sentiamo minacciati dall'Iran». Così, intervistato questo fine settimana dal quotidiano Gazeta Wyborcza, il ministro degli esteri Radoslaw Sikorski, a nome del nuovo governo (liberale), ha preso le distanze dal progetto anti missile che Washington vuole imporre in Europa. A monte della dichiarazione, ci sarebbe la volontà di prendere tempo, sia per non interrompere il riavvicinamento verso Mosca, sia per vedere quale sarà il nuovo inquilino della Casa Bianca. Lo stesso Sikorski è stato chiarissimo in tal senso: «lo scenario peggiore sarebbe che la Polonia accettasse lo scudo, assumendo il suo costo politico, e che poi il progetto non venisse realizzato perché cambia il governo statunitense». Ed ha aggiunto: «Non abbiamo ancora preso una decisione; questo [lo scudo, ndr] è un progetto statunitense e non polacco». Se le parole delle autorità polacche avranno un concreto seguito, la decisione potrebbe condizionare anche la partecipazione di Praga. Il governo ceco già deve fronteggiare un'opinione pubblica contraria al progetto e rischierebbe di trovarsi da sola a sostenere uno scudo che appare già tanto inutile quanto costoso in termini economici ed anche strategici. Secondo altri analisti, però, Varsavia starebbe negoziando con Washington degli aiuti per la formazione e l'equipaggiamento del suo esercito e il tira e molla sullo scudo può nascondere anche la volontà di trattare da una posizione più forte. Sikorski non ne fa mistero: «Ci attendiamo un'offerta tale da mettere in condizioni il governo di convincere la maggioranza del parlamento, che dovrà ratificare un eventuale accordo». Varsavia, insomma, in un modo o nell'altro, aspetta di sentire Washington.

 

  • Turchia / Kurdistan. 9 gennaio. Il presidente turco respinge qualunque dialogo con il PKK. Il presidente della Turchia, Abdullah Gül, ha respinto ieri qualunque negoziazione con la guerriglia kurda del PKK, con basi in Kurdistan Sud. Dopo essersi incontrato con il suo omologo statunitense, George W. Bush, ha detto che una soluzione politica con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) è impossibile giacché si tratta di «terroristi» che «attaccano la Turchia da un altro paese». Gül ha quindi equiparato il PKK con al-Qaeda, assicurato che non ha mai trattato con Bush la possibilità di cercare una soluzione politica al conflitto kurdo e indicato che Washington ha garantito che continuerà ad aiutare militarmente Ankara contro il PKK.

 

  • Israele / Palestina. 9 gennaio. È saltato un incontro fra il premier dell'Autorità Nazionale Palestinese (ANP), Salam Fayad, e il ministro della difesa israeliano Ehud Barak. I due avrebbero dovuto discutere il piano elaborato dal governatore di Nablus, Jamal Muheisen, che prevede addirittura pattugliamenti congiunti Israele-ANP in città, in cambio soltanto della rimozione di qualche posto di blocco israeliano. Un piano in linea con l'idea enunciata qualche giorno fa da Olmert sulla «necessità» per Israele di mantenere una presenza militare concreta in Cisgiordania anche dopo un eventuale ritiro nel quadro di un accordo con l'ANP, per evitare un «vuoto di sicurezza». Nelle ultime ore Israele e le forze di sicurezza dell'ANP hanno continuato ad agire in parallelo in Cisgiordania effettuando rastrellamenti e fermi di attivisti di Hamas e di organizzazioni impegnate nella lotta all'occupazione, in particolare nella zona di Nablus.

 

  • Iran / USA. 9 gennaio. Secondo la televisione di Stato iraniana sarebbe falso il filmato del Pentagono sul presunto incidente nello stretto di Hormuz, il tratto di mare che separa l'Iran dalla Penisola arabica. Nel filmato si vedono alcune imbarcazioni dei Pasdaran (Guardiani della rivoluzione) che si avvicinano a navi statunitensi e si sente un supposto iraniano che lancia minacce. Scrive l'emittente sul suo sito Internet che il filmato è stato realizzato usando immagini d'archivio e che l'audio è inventato. Fermo restando lo scontro sul programma nucleare iraniano (per Teheran a fini civili, per Washington e Tel Aviv in testa a fini militari), l'incidente, vero o falso che sia, s'inscrive in un contesto che, dalla cattura dei 15 britannici, è mutato profondamente. Il mese scorso l'ultimo aggiornamento del "National intelligence estimate" (Nie), un documento frutto delle valutazioni di intelligence raccolte dalle 16 agenzie di spionaggio statunitensi, ha ridimensionato le capacità nucleari di Teheran, mettendo oggettivamente in difficoltà il desiderio di una nuova guerra dei falchi dell'amministrazione statunitense. L'Iran, è scritto,  avrebbe sospeso alla fine del 2003 la realizzazione di armamenti nucleari. Ieri lo Yedioth Ahronoth ha rivelato l'esito di un incontro tra i massimi vertici dell'establishment politico-militare svoltosi nell'ufficio del primo ministro, Ehud Olmert, domenica pomeriggio a Gerusalemme. Secondo il quotidiano israeliano, l'appuntamento era stato convocato «per esaminare se Israele aveva prove diverse da quelle degli americani» sul dossier nucleare iraniano. «Durante la discussione», prosegue lo Yedioth, «è stato chiarito che oltre il 90% delle informazioni d'intelligence in possesso degli israeliani sono identiche a quelle presentate [dal Nie, ndr] al presidente americano». E le poche notizie supplementari in mano a Tel Aviv non sarebbero in grado di confermare la ripresa di un'attività nucleare segreta da parte di Teheran. Anche la ricerca in Iraq della «pistola fumante» contro Teheran non ha dato frutti migliori. Ora il confronto sembra essersi spostato nel Golfo Persico.

 

  • Iran / USA. 9 gennaio. «È possibile un grande compromesso fra Stati Uniti e Iran? Oppure, prima o poi, i due arcinemici sono condannati a combattersi?». Questi gli interrogativi essenziali che pone Lucio Caracciolo su Limes. Chiave di volta di questa fase è la divulgazione, lo scorso 3 dicembre,
    di un documento congiunto dei servizi segreti USA per i quali Teheran avrebbe sospeso il proprio programma militare nucleare nel 2003. «Quel rapporto», dice Caracciolo, «non è una comunicazione d’intelligence. È un verdetto politico. Per quello che sostiene, e soprattutto per come è stato presentato dai media, è la sanzione della sconfitta di Cheney e dei residui esponenti "neocon" dell’amministrazione Bush, per mano del dipartimento di Stato, del Pentagono e della Cia. I primi hanno sempre sostenuto (e continuano a farlo) che presto sarà necessario attaccare l’Iran per impedirgli di consolidarsi come potenza egemone in Medio Oriente e nel Golfo. La bomba atomica sarebbe il suggello di tale primato, la prova regina delle velleità neo-imperiali di Teheran. Ma anche se il regime dei pasdaran rinunciasse a dotarsene, la sostanza non cambierebbe. La colpa di Ahmadinejad non è tanto di volersi dotare di un arsenale nucleare, quanto di rifiutare l’influenza americana nella regione. Con quel regime, dunque, nessun compromesso è possibile. Se la pressione politico-diplomatica e le sanzioni non bastassero (e per Cheney e soci non basteranno), la parola deve passare alle armi».
  • Iran / USA. 9 gennaio. «Il secondo partito, ad oggi vincente», prosegue Caracciolo «condivide il giudizio di Cheney sulla natura perfida del regime persiano. Ma teme che la guerra all’Iran non produrrebbe affatto un cambio di regime –come giurano molti "neocon"– anzi, metterebbe a rischio l’intero schieramento americano e alleato nella regione, dal Libano all’Afghanistan. Di qui la necessità di insistere nella strategia delle sanzioni, tenendo unito il fronte occidentale, fino a che conservatori pragmatici e riformisti iraniani non riusciranno a prevalere sul radicalismo di Ahmadinejad. Dunque, sostengono al dipartimento di Stato, rinunciamo al "regime change", perché al di fuori della nostra portata. Cerchiamo invece di costringere i mullah ad un grande compromesso: la reintegrazione dell’Iran nei circuiti economici, energetici e politici internazionali, in cambio della verificabile rinuncia alla bomba atomica e al riconoscimento del diritto di Israele ad esistere. Un accordo che inevitabilmente coinvolgerebbe i paesi arabo-sunniti della regione e lo Stato ebraico, ripercorrendo la strada già sperimentata con Gheddafi. Disegno ambizioso, che punta sul pragmatismo e sull’istinto di sopravvivenza delle élite persiane, storicamente sensibili all’approccio mercantile più che alle sirene dell’apocalisse».
  • Iran / USA. 9 gennaio. «È evidente che in questo scenario», conclude Caracciolo, «la questione palestinese da centrale scade a subordinata. Malgrado l’effusione di retorica attorno alla conferenza di Annapolis, è infatti evidente che per Bush essa non doveva tanto dedicarsi alla pace israelo-palestinese, quanto esibire un vasto schieramento arabo-sunnita (con l’inclusione a sorpresa della stessa Siria), per accentuare l’isolamento dell’Iran. Per Cheney e i "neocon", doveva trattarsi anche e soprattutto della prova generale della tenuta del fronte anti-persiano, come premessa dell’attacco al regime dei pasdaran. Progetto per ora stroncato dal rapporto dell’intelligence. Ma che può tornare di stretta attualità in qualsiasi momento, persino durante l’ultimo anno della presidenza Bush, se la crisi mediorientale dovesse piegare al peggio. D’altronde, l’élite politico-militare di Gerusalemme non nasconde lo scetticismo sul documento dei servizi USA. Israele, a differenza degli Stati Uniti, è minacciato di distruzione se davvero Ahmadinejad desse sbocco pratico alla sua retorica anti-sionista e anti-semita. L’intelligence israeliana fa notare che l’arricchimento mai interrotto dell’uranio e lo sviluppo di nuovi missili, forse imprecisi ma di lunga gittata, significano che l’Iran vuole e presto potrà annientare lo Stato ebraico. L’efficacia di un attacco preventivo dei caccia israeliani contro le installazioni atomiche iraniane sarebbe comunque modesta. Da solo, Israele può colpire tre o quattro siti strategici, non certo annichilire il nemico né rovesciare il regime. Ma uno "strike" limitato costringerebbe Bush a correre in soccorso dell’alleato, minacciato dalla rappresaglia missilistica e terroristica di Ahmadinejad. A quel punto, lo scenario bellico cui da anni lavorano i falchi di Washington verrebbe automaticamente a materializzarsi. Con conseguenze che forse è meglio non immaginare».

 

  • Serbia / Kosovo. 10 gennaio. Il Kosovo proclamerà l'indipendenza «tra qualche settimana». Lo ha detto il nuovo premier kosovaro albanese Thaqi, a Pristina, in occasione dell'approvazione in parlamento del suo governo. Attesa per le presidenziali del 20 gennaio in Serbia.

 

  • Israele. 10 gennaio. Bush comincia il suo tour in Medio Oriente blindando il carattere escludente di Israele. Il presidente statunitense, George W. Bush, atterrando all'aeroporto Ben Gurion, vicino Tel Aviv, ha detto chiaramente che la sua priorità politica è garantire «la sicurezza di Israele come Stato ebraico». L'espressione confessionale «Stato ebraico» è respinta dai palestinesi che la vedono come la base giuridica dell'esclusione che patiscono e che si battono per il rimpatrio dei profughi. Lo scenario, poi, in termini più generali, porterebbe all'esclusiva condizione di essere ebreo la possibilità di vivere in Israele. L'amministrazione Bush, insomma, dà il suo avallo alle leggi sioniste che prevedono la marginalizzazione di milioni di palestinesi, escludono la possibilità del ritorno dei rifugiati del 1948 e difendono una Gerusalemme solo per ebrei. Se l'obiettivo di Bush era dare impulso alle «conversazioni di pace» tra Israele e l'Autorità Nazionale Palestinese dopo la Conferenza di Annapolis, non poteva cominciare peggio. Il carattere ebraico dello Stato sta nella legislazione sionista che ha designato Gerusalemme come «capitale indivisibile» di Israele -a fronte delle richieste palestinesi che considerano questa città come loro capitale storica- e che rende impossibile il diritto al ritorno dei rifugiati che nel 1948 furono costretti ad abbandonare i loro luoghi. Il carattere ebraico dello Stato sta anche nella discriminazione dei cittadini che hanno passaporto isareliano ma non professano questa religione -musulmani, cristiani e drusi sono il 20% della popolazione «israeliana»- e consente che qualunque ebreo di qualunque parte del mondo possa avere la "nazionalità" israeliana. Immediata la reazione di Hamas alle parole di Bush: «Avalla l'occupazione (...) Queste dichiarazioni costituiscono un riconoscimento americano del carattere ebraico dello Stato d'occupazione, la messa in essere di un regime di apartheid nella nostra regione a detrimento dei diritti del popolo palestinese», ha detto il portavoce del movimiento islamista, Sami Abu Zahri.

 

  • Israele. 10 gennaio. Il sindaco di Gerusalemme, l'ultraortodosso ebreo Uri Lupolianski, incontrandosi con Bush all'hotel King David, si è fatto latore dell'istanza che la città «deve permanere riunificata sotto sovranità israeliana» ed espresso il suo timore che, nelle negoziazioni, si possa cedere ai palestinesi Gerusalemme Est (occupata militarmente da Israele dal 1967) e concedere il libero accesso ai luoghi santi della Città Vecchia.

 

  • Gran Bretagna. 11 gennaio. Londra dà il via al piano per la costruzione di ben 22 nuove centrali nucleari. Il governo laburista di Gordon Brown lo ha ufficializzato ieri. Un durissimo colpo per la salute della popolazione e per le associazioni ambientaliste. La scelta dell'atomo è stata giustificata dal governo con motivazioni paradossali, tra le quali la stessa salvaguardia dell'atmosfera. L'opposizione ai progetti nucleari del governo non sta venendo dalle forze parlamentari ma dalle associazioni ambientaliste e dalla stessa popolazione.

 

  • Russia. 11 gennaio. Dmitri Rogozine è il nuovo ambasciatore russo presso la NATO. La nomina per decreto è venuta dal presidente russo, Vladimir Putin. Rogozine, 44 anni, è conosciuto per i suoi postulati panrussi e per non rispettare i diritti delle minoranze. Giornalista di professione, è stato deputato per il partito Rodima, capo della commissione Esteri e vicecapo della commissione della Sicurezza della Duma. Nel 2005, il Tribunale Supremo russo invalidò la candidatura del suo partito alle elezioni per la Duma per considerare xenofobo uno dei suoi annunci pubblicitari nei confronti degli immigrati caucasici. C'è chi legge la sua nomina anche come misura per tenerlo lontano dalla prossima campagna elettorale in cui avrebbe goduto di un certo seguito e chi vi vede una forma di pressione nei confronti della NATO, dell’Europa e degli USA sugli argomenti più scottanti di politica di Estera (questione Kosovo) e di Difesa (scudo anti-missile) in agenda nei prossimi mesi.

 

  • Palestina. 11 gennaio. Nablus come simbolo dell'occupazione israeliana. Emerge da una statistica pubblicata dalla Società per i Prigionieri palestinesi, con riferimento ai detenuti e agli arresti di cittadini palestinesi nel 2007. Almeno 700 i palestinesi sequestrati: 200 sono minorenni, 100 quelli malati e feriti con impellenti necessità di cure mediche. Dall'inizio dell'Intifada di al-Aqsa, nel settembre del 2000, sono 2.000 i cittadini imprigionati.

 

  • Palestina / USA / Israele. 11 gennaio. Bush detta le condizioni per la creazione dello Stato di Palestina. Ieri, da Gerusalemme, il presidente statunitense ha detto che la dirigenza palestinese deve rinunciare al diritto al ritorno dei profughi della guerra del 1948 ai villaggi e centri abitati di origine (ora in territorio israeliano), sancito dalla risoluzione 194 dell'ONU, e che per 60 anni è stato uno dei princìpi che ha unito i palestinesi sparsi nel mondo. I profughi, ha detto Bush, potranno «tornare» solo nel futuro Stato di Palestina e un «meccanismo internazionale» provvederà a risarcirli economicamente. Bush, che è arrivato ad usare l'espressione «occupazione israeliana» in Cisgiordania, ha poi detto, riguardo le frontiere del futuro Stato di Palestina, che «qualsiasi accordo richiederà aggiustamenti» alle linee tracciate per Israele alla fine degli anni Quaranta. Si tratta di un rilancio di quella lettera di assicurazioni consegnata dallo stesso Bush nel 2004 all'ex premier israeliano Ariel Sharon, in cui il presidente statunitense autorizzava Israele ad annettersi ulteriori, ampie porzioni della Cisgiordania occupata, in particolare le aree con le più ampie concentrazioni di colonie ebraiche che pure sono state costruite in violazione della legge internazionale. La Cisgiordania è già spaccata in quattro zone a causa della incessante espansione delle colonie ebraiche: Nablus e Jenin (nel nord), Ramallah (a ovest), Gerico (a est), Betlemme ed Hebron (a sud). Uno schiaffo violento ai palestinesi che rivendicano oltre all'intera Cisgiordania, anche Gaza e Gerusalemme est; quest'ultima, che per i palestinesi è la loro capitale, è tagliata fuori dal resto del territorio del futuro Stato, essendo circondata da insediamenti israeliani.. Bush ha concesso «una Palestina patria della popolazione palestinese» come statarello bantustan, a macchia di leopardo, in una logica di apartheid neanche troppo mascherata. Ha poi perorato il riconoscimento immediato da parte di Abu Mazen di Israele quale Stato ebraico in cambio della nascita dello Stato di Palestina. Un richiesta posta sul tavolo ad ogni sessione delle trattative riprese dopo l'incontro di Annapolis, organizzato da Bush lo scorso novembre, e che i negoziatori palestinesi sino ad oggi hanno respinto, perché non solo pregiudica la trattativa sul futuro dei profughi, ma mette a rischio anche la minoranza palestinese in Israele (1,5 milioni, il 20% della popolazione totale). Bush non ha avanzato proposte sul destino di Gerusalemme facendo intendere che Washington gradisce lo status attuale, ovvero il controllo israeliano su tutta la città, compresa la zona araba (Est) che i palestinesi considerano capitale del loro futuro stato.

 

  • Afghanistan. 11 gennaio. Nasce "Guantanamo II", a Bagram, all'interno della grande base militare USA nel paese centrasiatico occupato. Attualmente sono 630, due volte quelli nella base USA a Cuba. Nome in codice «Bagram theater internment facility», è qui che finiscono i prigionieri catturati dagli statunitensi in Afghanistan, in Africa, in Pakistan e tutti quelli che a Guantanamo, troppo esposta ai riflettori mediatici, non potranno più essere spediti. Di Bagram allo stato non esiste nemmeno una fotografia. Il Comitato internazionale della Croce Rossa (Icrc), che dovrebbe controllare i parametri della Convenzione di Ginevra e che è l'unico ad avere accesso alle carceri, ha le sue difficoltà ad entrarvi. Il regime carcerario prevede settimane, mesi, senza difensori. Il trattamento dei reclusi è top secret, ma le notizie che filtrano parlano di interrogatori durissimi e di pestaggi. Condizioni così dure da indurre Karzai a non firmare l'accordo con gli statunitensi che doveva guidare la gestione della nuova prigione che gli Stati Uniti hanno progettato vicino a Kabul e che sarebbe già costata 30 milioni di dollari.

 

  • Pakistan. 11 gennaio. In Pakistan aleggia il rischio di una rivoluzione khomeinista se gli Stati Uniti e la «lobby ebraica» continueranno a sostenere l'impopolare presidente, Pervez Musharraf. Questo lo scenario che alla Aki-Adnkronos International paventa e disturba il potente ex capo dei servizi di intelligence di Islamabad Hamid Gul. «La scintilla della rivoluzione islamica fu il continuo sostegno da parte degli Stati Uniti a un sovrano largamente impopolare», spiega Gul. «E che cos'è Musharraf, se non un sovrano impopolare?». La situazione in Pakistan, secondo Gul, «è ormai fuori controllo, Musharraf dovrebbe fare un passo indietro, ma gli Stati Uniti e la lobby ebraica continuano a sostenerlo». Sulle elezioni del prossimo 18 febbraio l'ex capo dell'Isi (Inter-Service Intelligence) è scettico: «Dubito che arriveremo mai a una data certa, potrebbero essere rinviate in eterno, ma se anche si terrano, saranno elezioni truccate, in Pakistan c'è una lunga tradizione di frodi elettorali». Ancora una volta il dito è puntato contro Musharraf, al quale Gul imputa la sudditanza nei confronti degli USA, una sudditanza che, a suo parere, avrebbe fatto perdere al Pakistan il controllo del satellite Afghanistan e avrebbe esposto il Paese alla minaccia militare indiana. Un braccio di ferro che a Gul, vicino al blocco dei partiti religiosi Mma e sostenitore del movimento neotalebano, è costato anche gli arresti domiciliari durante lo stato di emergenza proclamato da Musharraf.

  • Pakistan. 11 gennaio. Per Gul, i nemici del Pakistan sono il «Mossad e servizi indiani» molto presenti, a suo dire, proprio in Afghanistan. Sarebbero loro -dice- a fomentare l'instabilità nelle aree tribali, fornendo anche supporto logistico ed esplosivi agli attentatori kamikaze che da settimane stanno insanguinando le strade delle città pachistane con attentati disastrosi, «atti individuali, spesso di pashtun che vogliono vendicare gli attacchi contro le aree tribali o l'assalto alla Moschea Rossa di Islamabad, ma chi ha fornito ai kamikaze le cinture esplosive?». Per l'ex capo dell'intelligence: «i nemici del Pakistan, il Mossad israeliano e gli indiani, che vogliono dare di noi l'immagine di un paese instabile e ingovernabile al quale bisogna sottrarre l'arsenale nucleare». E i «nemici», secondo Gul, starebbero raggiungendo il loro scopo poiché «il Pakistan è diventato uno dei temi principali delle primarie americane».

 

  • Pakistan. 11 gennaio. L'ex direttore dell'Isi, Hamid Gul, è considerato l'«inventore dei talebani», è stato direttore dell'intelligence ai tempi in cui Benazir Bhutto era primo ministro, e prima ancora è stato protagonista della sconfitta dell'Armata Rossa in Afghanistan, eroe della Guerra Fredda, un uomo che nel salotto della sua casa di Rawalpindi espone con orgoglio un frammento del muro di Berlino con dedica di Helmut Kohl («All'uomo che contribuì a dare la prima picconata»). Ma è anche un personaggio che negli ultimi anni -scrive l'Aki-Adnkronos International- ha poi virato su posizioni tenacemente anti-USA: religioso ma non fanatico, analitico nei suoi ragionamenti da militare di alto rango, spesso sorprendente nella sua capacità di ribaltare completamente la lettura della storia e della cronaca. Singolare ad esempio la sua interpretazione dell'assassinio di Benazir Bhutto, attribuito dai più a chi, Al Qaeda e taliban in testa, voleva impedire che la leader del Partito Popolare, il cui ritorno in Pakistan era stato favorito dagli USA, attuasse più efficacemente di Musharraf una politica apertamente filo-statunitense. «Le sue dichiarazioni pro America erano un trucco. Una volta diventata primo ministro Benazir non avrebbe fatto nulla di quanto promesso, sarebbe stata una leader indipendente, per questo era scomoda». Chi l'ha uccisa allora? «È una domanda da un milione di dollari, ma in tutti i crimini bisogna sempre analizzare tre cose: il movente, la capacità di esecuzione e il beneficiario, e Musharraf non ha certo beneficiato dalla morte di Benazir», dice Gul, allontanando i sospetti dal presidente. «Forse», aggiunge, «dietro all'assassinio di Benazir Bhutto potrebbe esserci anche Al Qaeda, ma non credo molto a questa ipotesi, piuttosto, possono esserci personaggi vicini a Musharraf, ma a sua insaputa».

 

  • USA / Iraq. 11 gennaio. Gli Stati Uniti potrebbero «facilmente» mantenere una presenza militare in Iraq per i prossimi 10 anni. Lo ha detto George W. Bush nel corso di un'intervista alla Nbc news, da Gerusalemme, rispondendo ad una domanda su cosa pensasse della dichiarazione del senatore candidato alla Casa Bianca, John McCain, al quale starebbe bene una presenza militare statunitense in Iraq per cento anni. «100 anni non è la cifra giusta», ha detto. Alla domanda se 10 anni fosse una previsione più accurata, ha risposto: «potrebbe facilmente accadere».

  • Colombia. 11 gennaio. È una vittoria mediatica della guerriglia sul governo e sulla sua politica di "mano dura" la liberazione senza contropartita di Clara Rojas, amica ed assistente di Ingrid Betancourt, e dell'ex senatrice Consuelo Gonzalez. Ieri le FARC (Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia), in un comunicato, dicono: «Questa liberazione umanitaria e unilaterale ha luogo nonostante gli ostacoli posti dallo stesso presidente Uribe, che seguendo le direttive di Washington è un nemico giurato dello scambio di prigionieri e della pace con giustizia sociale (...) Ora gli sforzi devono essere indirizzati a ottenere la smilitarizzazione di Pradera e Florida quale scenario per un dialogo governo-Farc volto all'accordo e alla concretizzazione dello scambio, che renda possibile la liberazione di tutti i prigionieri in potere delle forze contendenti, sia di quelli detenuti sulle montagne sia dei guerriglieri incarcerati nelle prigioni del regime, compresi Sonia e Simón. La nostra volontà è indiscutibile. Senza dimenticare che nel passato recente abbiamo unilateralmente liberato 304 militari e poliziotti, catturati in combattimento, la consegna di Clara e Consuelo che oggi realizziamo riafferma la nostra disponibilità». Le FARC, insomma, hanno voluto rimarcare che la consegna di Clara e Consuelo non significa affatto un accordo con «il governo illegittimo, pro-yankee e narco-paramilitare del signor Uribe, che fa l'impossibile per ostacolare sia l'accordo umanitario che una soluzione civile al prolungato conflitto colombiano».

 

  • Unione Europea / USA / Serbia / Kosovo. 12 gennaio. La UE prova a risolvere la questione del Kosovo in tre mosse. La Casa Bianca osserva, pronta all'azione. Il piano di Bruxelles prevederebbe il 28 gennaio la firma dell'Asa (l'Accordo di stabilizzazione e associazione UE-Serbia), il 18 febbraio l'invio della missione militare europea in Kosovo, il 10 marzo il riconoscimento dell'indipendenza della provincia a maggioranza albanese. Già la firma dell'Asa non è sicura. «Ci stiamo lavorando, ma non è detto che ce la faremo» entro la fine del mese, assicura il commissario europeo all'allargamento Olli Rehn. Per chiudere l'Accordo è richiesta alla Serbia la piena collaborazione con il Tribunale penale internazionale sui crimini nell'ex Yugoslavia, una condizione che fino ad ora voleva dire: arresto di Radko Mladic. C'è poi il premier serbo Vojislav Kostunica che sta ora tenendo un comportamento considerato da Bruxelles poco europeista. Kostunica ha infatti affermato che non intende firmare l'Asa se contestualmente non viene cancellata la missione UE in Kosovo. Discorso complesso anche per l'invio della missione UE. La risoluzione 1.244 (che dal 1999 ha posto il Kosovo sotto amministrazione ONU) non basterebbe per giustificare l'invio di uomini targati UE e quindi anche questo passaggio potrebbe trasformarsi in un rompicapo legale. Infine il riconoscimento. Se gran parte dei 27 pensano di fare outing sul Kosovo a marzo, gli USA starebbero premendo per fare il grande passo a febbraio. Lo assicura il New York Times, secondo il quale George Bush e Angela Merkel si sarebbero messi d'accordo in questo senso durante una conversazione telefonica. «Se gli USA riconoscono il Kosovo e le nazioni europee non li seguono, allora sarà un disastro», afferma un diplomatico europeo al quotidiano. Il rischio è che il disastro ci sia comunque, tanto che la NATO sta studiando l'invio di truppe di riserva utili per dare manforte ai 16mila uomini della Kfor.

 

  • Unione Europea / USA / Serbia. 12 gennaio. Bruxelles avverte Belgrado: se vendete l'azienda del gas ai russi, salteranno i negoziati con noi. Una minaccia che nemmeno si prende la briga di offrire qualcosa in cambio. Se l'affare andrà in porto, Mosca avrà più controllo sull'energia europea. La compagnia statale serba per il gas, Naftna Industrija Srbije (Nis), da tempo è in via di privatizzazione. Il governo di Belgrado sta trattando quasi esclusivamente con il gigante russo Gazprom, che in dicembre (subito dopo il definitivo fallimento dei negoziati sul Kosovo) ha formalizzato con Belgrado un pre-accordo, destinato a concretizzarsi il prossimo 18 gennaio (due giorni prima delle elezioni presidenziali serbe). In base all'accordo, Gazprom pagherebbe 4-500 milioni di euro (cifra piuttosto bassa) per acquisire il 51% di Nis impegnandosi, in cambio, a investire in Serbia per nuovi impianti di stoccaggio del gas e garantendo forniture regolari di gas a Belgrado con una diramazione del costruendo gasdotto South Stream (previsto il trasporto di 30 miliardi di metri cubi di gas all'anno dalla Russia all'Europa meridionale attraverso il Mar Nero e poi Bulgaria e Grecia con un ramo, Romania e Croazia con un altro ramo). Il tutto in concorrenza con il progettato gasdotto «Nabucco», di ispirazione USA-UE, destinato a portare nelle stesse zone il gas dell'Azerbaigian attraverso la Turchia. da qui la minaccia dell'Unione Europea. Secondo fonti non ufficiali Ue, la vendita di Nis a Gazprom non sarebbe dettata da una logica di mercato ma solo dalla necessità di «ricompensare» Mosca per la sua difesa del punto di vista serbo sulla questione kosovara. Restano malumori come quelli di Mladjan Dinkic, ministro dell'economia, per il quale la cifra offerta da Gazprom è «umiliante» da tanto è bassa e inferiore al valore (presunto) dell'azienda serba. Intanto i funzionari e politici europei si stupiscono e indignano nel vedere che Belgrado cerca un'alternativa -nel caso specifico, il sostegno di Mosca e l'integrazione economica con la Russia di Putin. Per Bruxelles questa dinamica sconcerta in quanto favorisce un ulteriore rafforzamento del controllo russo sul mercato europeo del gas e più in generale dell'energia.

 

  • USA. 12 gennaio. Manifestavano a Washington, alla Corte Suprema, contro il lager USA di Guantanamo: 81 gli arresti. È accaduto ieri. I manifestanti, vestiti con le tute arancioni dei detenuti di Guantanamo, chiedevano l'immediata chiusura del lager di Guantanamo Bay. L'arresto è scattato per la violazione del divieto assoluto di manifestazioni di qualunque tipo all'esterno di edifici giudiziari USA. È considerato un crimine, inoltre, arringare o intervenire a voce alta all'interno dell'edificio che ospita la Corte Suprema.

 

  • Venezuela / Colombia. 12 gennaio. Chávez insiste: FARC ed ELN siano tolti «dalla lista delle organizzazioni terroristiche, imposta per pressione degli Stati Uniti». Il presidente del Venezuela, Hugo Chávez, è tornato ieri sulla questione rivolgendosi ai paesi dell'America Latina e specificamente all'Europa. Sostiene che le FARC (Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia) e l'ELN (Esercito di Liberazione Nazionale) siano considerate forze combattenti, «perché questa lista obbedisce solo a pressioni degli Stati Uniti» e ricordato che entrambe le guerriglie colombiane «sono veri eserciti che occupano uno spazio in Colombia (...) Bisogna darle un riconoscimento, sono forze insorgenti con un progetto politico vero e serio che qui è rispettato».

 

  • Corsica. 13 gennaio. Occupato il Parlamento còrso dopo una manifestazione contro la repressione. Indipendentisti còrsi sono penetrati a centinaia, ieri, nell'emiciclo dell'Assemblea autonomica ad Ajacciu, occupandola per diverse ore in segni di protesta per l'occupazione francese. L'iniziativa era stata convocata da 18 collettivi politici, sociali e sindacali. Tolta la bandiera francese, è stata sostituita da un'altra con le parole «Resistenza» e «Libertà».

 

  • Libano. 13 gennaio. «Hezbollah sarà a favore di ogni forma di Stato che abbia prima di tutto il consenso della maggioranza del popolo, e poi quello delle componenti comunitarie etniche e regionali del Libano. Uno stato giusto e forte, che garantisca uguali diritti innanzitutto sul piano economico-sociale: la ricchezza nazionale dev'essere ripartita, non abbiamo bisogno di porci obiettivi confessionali, ma nazionali». Così, a il Manifesto, Adelhalim Fadlallah, vicepresidente del Consultative Center For Studies and Documentation (Ccsd), il Centro di studi strategici di Hezbollah. Nel corso del convegno Medlink, organizzato a Roma da Arci, Fiom-Cgil, Un ponte per..., Fadlallah ha ribadito che sull'«unità del paese contro aggressioni esterne, Hezbollah non cambia linea». Riguardo all'opposizione (di cui Hezbollah è parte molto significativa) al governo filo-USA di Siniora, «c'è prima di tutto la volontà di lavorare a un'intesa comune, che abbiamo raggiunto sulla proposta del presidente. Più che mettere in campo teorie, oggi si tratta di cercare il quadro per un'intesa di base minima e di convivenza giusta. Ci sono 18 comunità diverse, piccoli equilibri che è complicato e importante raggiungere». Quindi sull'ipotesi di Hezbollah guidata da una donna («Nelle leggi interne al partito non c'è niente che lo impedisca. A livello teorico e teologico Hezbollah parte dal principio che esista uguaglianza di diritti e il fondamento teologico viene dal Corano. Le donne hanno un ruolo attivo, una militanza attiva nel partito, che per loro impulso sta evolvendo verso un concetto di uguaglianza da cui non tornerà indietro») e sulle accuse, mosse da analisti, di elementi di fascismo nei partiti islamici («Ogni situazione storica è diversa, ogni paese ha le sue peculiarità e il suo contesto, ma se proprio si vuole fare un paragone con la storia dei partiti politici in Europa, penso che Hezbollah assomigli di più alle esperienze dei partiti di massa del XIX secolo. Gli orientamenti del partito, l'elaborazione politica, vengono decisi a partire dal basso. Anche sul piano militare siamo molto distanti da una visione gerarchica. E questo non mi sembra affatto simile al fascismo»).

  • Libano. 13 gennaio. Per la 12^ volta non si trova l'accordo, sul nuovo presidente, tra maggioranza filo-USA ed opposizione. Il Libano continua ad essere senza presidente dallo scorso 23 novembre. Il piano arabo, approvato all'unanimità il 5 gennaio al Cairo, sembrava destinato al successo, anche perché frutto di un'intesa tra Arabia Saudita (sostenitrice di Siniora e della maggioranza) e Siria (che appoggia l'opposizione). Oltre all'elezione a capo dello stato del comandante delle forze armate Michel Suleiman, il piano prevede anche un sistema elettorale più equilibrato, soprattutto nella ripartizione dei seggi parlamentari in ogni singola circoscrizione elettorale, e la creazione di un governo di unità nazionale in sostituzione di quello in carica guidato da Fouad Siniora, considerato da Hezbollah e dagli altri partiti dell'opposizione apertamente schierato con gli interessi USA nella regione. Una fonte di Hezbollah ha denunciato che la missione del Segretario generale della Lega Araba Amr Musa, auspice del piano, è fallita per il rifiuto della maggioranza, soggetta alle pressioni USA, di accettare un incontro bilaterale tra il suo leader, Saad Hariri, e il generale a riposo Michel Aoun, capo del movimento cristiano dei Liberi Patrioti e alleato proprio di Hezbollah. Il quotidiano progressista a-Safir ha raccontato i retroscena del mancato incontro Hariri-Aoun. Il generale cristiano era stato incaricato da tutte le forze dell'opposizione di rappresentarle al faccia a faccia con Hariri e nelle trattative future. Tutto lasciava pensare che le due parti sarebbero state in grado di trovare un'intesa sul piano della Lega Araba. In particolare sulla richiesta che i futuri ministri scelti dall'opposizione possano godere di un diritto di veto sulle decisioni del nuovo governo su questioni rilevanti, specie in politica estera. Aoun, ha scritto a-Safir, avrebbe mostrato una disponibilità al dialogo con Hariri mai evidenziata di recente. Alla fine però la maggioranza si è opposta all'incontro tra il leader dei Liberi Patrioti e Hariri, a quanto pare per impedire che Aoun diventi di fatto «il leader rappresentativo di tutti i cristiani del paese». Secondo la versione di a-Safir si è fatto avanti Samir Geagea, leader del partito cristiano di estrema destra Forze Libanesi, chiedendo di poter partecipare al faccia a faccia. Un incontro allargato non concordato in precedenza che Aoun e l'opposizione hanno respinto. A questo punto è fallita l'iniziativa araba. Tutto rinviato al 21 gennaio, ma c'è chi pensa che ci sarà il 13° rinvio.

 

  • Taiwan. 13 gennaio. Il Kuomintang (all'opposizione) si è aggiudicato le legislative a Taiwan, con una vittoria schiacciante: 81 deputati su 113. I rivali del Pdp del presidente Chen Shui-Bian si sono fermati a 27. Le presidenziali si svolgeranno invece il prossimo 22 marzo. A differenza del Pdp, il Kuomintang vuole legami più stretti con Pechino, che non ha mai accettato l'indipendenza dell'Isola.

 

  • Cile. 13 gennaio. La resistenza mapuche non si piega. Dopo l'assassinio del giovane studente Matias Katrileo Quezada, 22 anni, ucciso da un carabinero, la vita di Patricia Troncoso, da 90 giorni in sciopero della fame e ricoverata all'Hospital Angol di Temuco, è in condizioni disperate. I mapuche rivendicano i loro diritti sociali e territoriali ancestrali. Vogliono inoltre che sia abolita una volta per tutte la Legge antiterrorista. L'abolizione della Legge antiterrorismo, insieme alla liberazione dei prigionieri politici