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Definire sé stessi in opposizione all'altro: l'eterna tentazione che parte da Aristotele

di Francesco Lamendola - 22/01/2008

 

Sarebbe inesatto affermare che l'eterna tentazione di definire sé stessi mediante la contrapposizione nei confronti dell'altro, del "diverso" è un tipico prodotto della cultura occidentale. È certo che il pensiero dell'Occidente si caratterizza, storicamente, per una tendenza all'etnocentrismo e al senso di superiorità nei confronti degli altri popoli e delle altre civiltà, e questo già dagli esordi della filosofia greca o, almeno, da Platone e Aristotele. Però è altrettanto vero che una simile tendenza non è affatto tipicamente occidentale. Per fare solo un esempio, per più di un millennio la cultura cinese ha visto nel Celeste Impero il centro del mondo e negli altri popoli, indipendentemente dal loro livello di civiltà, dei "barbari". Barbari erano, per essa, sia i vicini Giapponesi, considerati materialmente e spiritualmente più arretrati, sia i "diavoli bianchi" venuti dall'Europa; e, in questo secondo caso, al concetto di barbarico si univa anche quello di diabolico, unendo alla riprovazione culturale anche quella etica e religiosa.

Si tratta, probabilmente, di una tendenza costitutiva delle società umane, sia che esse si caratterizzino per l'elaborazione della forma politica statale, sia che permangano allo stato tribale della caccia e raccolta, oppure a quello della pastorizia nomade o dell'agricoltura di sussistenza. In quasi tutte le lingue umane - dai Khoisan del Kalahari agli Inuit dell'Artide -, il termine "uomini" corrisponde alla definizione della propria etnia e della propria cultura: il che non implica, originariamente, un senso di superiorità nei confronti delle altre etnie e delle altre culture (questo è un passo storicamente successivo), quanto piuttosto un atteggiamento "ingenuo" nei confronti del mondo. Il concetto di Eschimese, o quello di Boscimano, presso i rispettivi popoli, si esprime, semplicemente, con la parola "uomo".

I membri delle società tradizionali, quindi, si considerano "uomini" in quanto distinti sia dai membri delle altre società, sia dal mondo non umano: animali, piante, cose, ma anche potenze, spiriti, divinità. Invece, i membri delle società agricole che danno vita alla forma politica statale, confrontandosi con i popoli nomadi o cacciatori-raccoglitori percepiscono se stessi come depositari di un valore superiore, ossia la "civiltà", e guardano agli altri gruppi umani come a dei "barbari", ossia come costituiti da esseri inferiori, sia materialmente, spiritualmente e moralmente (per cui, oltre che "selvaggi", i primitivi sono visti anche come sleali, pigri, disonesti, ecc.).

Scrive Mario Lentano  nel testo Sulle spalle dei giganti (di M.Bettini, M. Lentano e D. Puliga; Milano, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, 2005, vol. 1):

 

"UN'OPPOSIZIONE NON ORIGINARIA.

"Tutto inizia con Omero? Questa volta no. Nel mondo degli eroi omerici i barbari non esistono ancora e i troiani sono un'immagine speculare dei greci. Se una nozione di alterità esiste, essa si trova fuori dal mondo umano, tra i Ciclopi cannibali che non praticano l'agricoltura e la navigazione e non conoscono assemblee, o all'inverso tra i feaci che ospitano gli dèi ai loro banchetti.

"Perché nasca una riflessione sull'altro nella cultura greca occorre il grande shock delle guerre persiane, e lo scandalo rappresentato dal piccolo e rissoso mondo delle città che ha la meglio sulla colossale macchina da guerra messa in moto da Dario e Serse: è questo il primum movens di un'elaborazione culturale che per la prima volta nella storia d'Europa inventa le nozioni di Occidente e Oriente, destinate a straordinaria fortuna e tuttora ben lontane dall'aver perso la loro produttività.

"GRECI E BARBARI, ORIENTE E OCCIDENTE.

"Nel V sec. a. C. la riflessione sull'identità greca si alimenta dell'alterità persiana, rimbalzando dal teatro alla storiografia, dalla scienza alla produzione artistica. Nei Persiani di Eschilo, dramma politico quant'altri mai, la regina madre Atosa non sa convincersi che esista un popolo privo di un 'despota': che «nessuno comanda sui greci» è per lei nozione incredibile, ancor prima che sconcertante. E in Erodoto l'sule spartano alla corte di Serse, Demarato, profetizza al nuovo signore la sconfitta dei persiani da parte dei greci, liberi da padroni umani ma sottoposti all'imperio della legge. Negli stessi anni, intanto, i fregi del Partenone - la vittoria degli dèi sui giganti o quella di Teseo sulle amazzoni - propongono altrettante, trasparenti metafore dell'ordine civile che prevale sul caos, nel monumento costruito sulle rovine dell'acropoli rasa al suolo da Serse.

"Intanto, dell'opposizione geci-barbari si appropria la scienza: alla differenza di istituzioni politiche (i greci liberi contro gli asiatici schiavi di un padrone) si affiancano ora altre spiegazioni, che chiamano in causa la natura del terreno (i greci figli di una terra avara, che li tempra nella lotta per la sopravvivenza, i persiani nati su un suolo affluente e proprio per questo indolenti) o il clima (pieno di contrasti e variazioni e dunque stimolante in Grecia, sempre uguale a se stesso e dunque ottundente in Oriente). Nasce un altro paradigma, quello del determinismo ambientale, con il quale dopo oltre due millenni la geografia occidentale non ha smesso di fare i conti.

"SPOSTAMENTO DEL CENTRO DEL MONDO

"Nel IV sec. a. C., Platone e Aristotele trasformano l'opposizione binaria in ternaria: ora p il centro, ovviamente greco, a opporsi a un nord-ovest e a un sud-est ugualmente viziosi: si percepisce l'allargarsi degli orizzonti, nell'età in cui Alessandro Magno sta dilatando a dismisura i confini del mondo ellenizzato. Così, per lo stagirita i greci potrebbero dominare il mondo, perché non solo praticano la migliore forma politica pensabile (ulteriore eredità lasciata alla cultura occidentale l'idea di una superiorità fondata sull'esercizio esclusivo della migliore costituzione), ma possiedono in un mix ottimale coraggio e intelligenza.

"La storia, si sa, prese vie diverse, ma i nuovi padroni del Mediterraneo, i romani, si affrettarono a far proprio il paradigma: con la differenza che ora sono l'Italia e la sua capitale a occupare il centro del mondo, mentre la Grecia scivola in quell'Oriente di cui farà parte fino all'Ottocento.

"Il crollo del mondo antico avvenne proprio per opera di quei germani stupidi e feroci disprezzati dalla geografia imperialista greco-romana; i quali però, come già avevano fatto i romani con i greci, adottarono ben presto la cultura dei vinti: il 'germanico' Teodorico si sentiva molto più vicino a Traiano che ad Arminio, come del resto, due secoli dopo di lui, Carlo Magno.

"Accade così un fatto singolare: per i bizantini (che però chiamano se stessi 'romani') l'Occidente è in mano ai barbari, cui ostinatamente viene negato il diritto di definirsi imperatori (titolo che spetta solo al monarca 'romeo'), mentre proprio questi' barbari' si sentono i veri tutori dell'eredità di Roma e magari tacciano di 'eresia' i signori di Costantinopoli.

"IL CONFINE MEDITERRANEO.

"Già, perché intanto è la religione il nuovo marcatore di identità e alterità, in una misura che il mondo antico non aveva mai conosciuto. A partire dal VII secolo, la cristianità sperimenta l'aggressione dell'espansionismo musulmano e il Mediterraneo diventa, da mare interno, luogo di confine tra identità contrapposte e armate.

"La cultura prende atto e si adegua. All'indomani di Poitiers, un anonimo cronista della battaglia oppone agli arabi sconfitti gli "europei" vincitori: è l'embrione di un'idea d'Europa come entità culturale unitaria. Dall'altra parte della cortina di ferro, un grande geografo arabo dell'XI secolo definirà rozzi e incivili gli europei, come tutti gli 'uomini del nord': per uno dei paradossi della storia, le dottrine greche del determinismo ambientale, dimenticate in Occidente ma ben note alla scienza araba, venivano ora ritorte contro la cultura che le aveva elaborate."

 

Veramente, ci sarebbe da discutere se davvero l'opposizione fra il sé e l'altro abbia origine, nella civiltà greca, solo con lo "shock" culturale delle guerre persiane. È vero che sia i Ciclopi, sia i Lestrigoni, sia, per altri aspetti, i Lotofagi, sono presentati come modelli di umanità mostruosa e degenerata o, comunque, incomparabilmente diversa, e ovviamente inferiore, all'umanità greca, la sola veramente e pienamente "umana". Ed è anche vero che i Troiani sono rappresentati esattamente come i Greci, con uno stile di vita, degli ideali e dei valori in tutto e per tutto paragonabili a quelli degli stessi Achei.

Tuttavia, anche se i Lestrigoni o i Ciclopi appaiono come i rappresentanti di un'umanità deviata e deformata, contraddistinta principalmente dalla pratica bestiale del cannibalismo, è pur vero che essi rappresentano l'altro, proprio perché i Troiani (e, a maggior ragione, i Feaci) non sono che una variante del tipo di umanità "normale", quella greca appunto. Il fatto che Lestrigoni e Ciclopi siano gruppi umani fantastici non modifica il ragionamento, perché i Greci, popolo di navigatori, conoscevano comunque numerose regioni lontane dalla loro penisola (e non è questa la sede per decidere se i Lestrigoni, ad esempio, vadano collocati nell'antica Sardegna, come per il Bérard e quasi tutti gli studiosi di letteratura greca, o non piuttosto lungo i fiordi della Norvegia, come sostengono alcuni studiosi contemporanei). Pertanto, se scelsero di rappresentare i lontani e i diversi in quel determinato modo, ciò avvenne perché la loro idea del lontano e del diverso riposava su quel presupposto: che non fosse, cioè, "umano" nel pieno senso della parola. Ed è un meccanismo culturale che vedremo riapparire nei geografi e nei cartografi del Medioevo, specialmente dopo i viaggi di Marco Polo in Asia centrale, e negli studiosi del Rinascimento, dopo le scoperte di Colombo e Vespucci: i quali, tutti, non esiteranno a rappresentare esseri umani monocoli, o forniti di una sola gamba, o con il visto posto all'interno della cassa toracica, nelle esotiche regioni che erano state appena scoperte, tanto all'estremo oriente quanto all'estremo occidente - per non parlare dell'interno dell'Africa.

Pertanto non vediamo rottura, ma continuità culturale nel fatto che i Greci, a partire dalle guerre persiane, vedessero l'altro come un essere umano fisicamente simile a loro, ma spiritualmente inferiore quanto a coraggio, intelligenza e saggezza politica. I presupposti di questo pregiudizio etnocentrico esistevano già nell'epica omerica, e attendevano solo di essere ulteriormente svolti e perfezionati: ciò che accadde non solo e non tanto con le guerre persiane del V secolo avanti Cristo, ma assai prima, con il grandioso fenomeno della colonizzazione oltremare, che portò i Greci a contatto con popolazioni apparentemente più arretrate, dall'Africa all'Italia meridionale, alla Gallia, alla  Spagna; e più ancora, spingendosi verso est e nord-est, in Asia Minore, nella Colchide, sulle coste meridionali della Pianura Sarmatica (delta del Danubio, Crimea, Mar d'Azov, pendici del Caucaso).

È interessante notare, facendo un rapido balzo fino ai giorni nostri, come uno dei principali fattori di supposta superiorità dei Greci verso i Persiani - e verso i barbari in genere -, ossia l'istituto della democrazia, sia tornato a far parte dell'armamentario ideologico di una parte dell'Occidente nei confronti del mondo altro e, in particolare, del mondo islamico. La crociata dell'amministrazione Bush junior e, in genere, dei neoconservatori americani,  intenzionati a stabilire ovunque, nel mondo, il libero mercato e il suo necessario strumento politico, la democrazia parlamentare, ricorda da vicino le tesi di Aristotele circa l'intrinseca superiorità del sistema democratico, fucina di uomini liberi e coraggiosi, rispetto alle monarchie assolute dell'Asia, ove gli uomini sono ridotti al rango di schiavi imbelli.

La differenza, non piccola, è che mentre i Greci erano orgogliosi avere, per così dire, l'esclusiva del sistema politico democratico, vedendo in ciò la testimonianza della loro superiorità sugli altri popoli (almeno fino alla spedizione asiatica di Alessandro Magno: il quale, però, non era greco, ma macedone), i "falchi" di Washington sembrano convinti che la pax americana sarà veramente sicura solo quando l'ultimo stato al mondo avrà adottato la democrazia parlamentare e aperto le proprie frontiere alla penetrazione dei capitali e delle merci statunitensi. La tesi storica che ha prodotto un tale convincimento, tuttavia, ricorda da vicino l'interpretazione erodotea delle guerre persiane: l'incendio di Atene da parte dei Persiani ricorda l'incendio di Washington da parte dei Britannici durante la guerra del 1812, quando un ufficiale inglese - secondo la Vulgata americana -, brandendo una torcia nel Parlamento di Washington, avrebbe gridato ai suoi soldati: «Dobbiamo noi distruggere questo covo della democrazia yankee?»; al che ricevette, ovviamente, una risposta unanime e affermativa.

Dunque, la democrazia deve espandersi per non perire: deve attaccare, ma per difendersi; e per difendere, al tempo stesso, la causa della libertà politica, e anche (il che non guasta) di quella economica. Il fatto che quest'ultima sia concepita essenzialmente a senso unico, ossia come libertà per le merci e i capitali americani di penetrare nel resto del mondo, ma non viceversa, è - naturalmente - un dettaglio del tutto trascurabile; così come lo è il fatto che l'Iraq, scelto per creare il primo, vero  modello di democrazia nel Medio Oriente (con l'aiuto delle monarchie assolute e integraliste dell'Arabia Saudita, del Kuwait e degli Emirati Arabi Uniti) sia anche uno dei maggiori produttori al mondo di petrolio greggio.

Si postula, quindi, che il sistema politico e quello economico occidentali siano non solo i migliori esistenti al mondo, ma gli unici degni di esistere e di sopravvivere; e che tutti gli altri sistemi politici ed economici, con le buone o con le cattive, dovranno scomparire per dar luogo una società mondiale dai tratti messianici, basata sulla libertà e sul benessere generalizzato. Al tempo stesso, con la caratteristica ipocrisia di chi ha una cattiva coscienza, si presenta questa crociata mondiale non come uno scontro di civiltà, ma come una operazione di polizia internazionale, destinata a dare sicurezza all'Occidente contro il terrorismo e  a promuovere, in ultima analisi, pace e prosperità per tutti, anche per gli altri.

Sarà appena il caso di osservare come le radici ideologiche di siffatto atteggiamento affondano sia nella Rivoluzione americana del 1775, sia in quella francese del 1789 e, in particolare, nella sua fase giacobina. Dal 1792 la Francia fu in guerra praticamente con tutto il resto d'Europa: prima per difendere, indi (a partire da Valmy e da Fleurus) per esportare i sacri principi della libertè, fraternité, egalité e per creare ovunque, sulla scia delle sue armate vittoriose, delle repubbliche giacobine. Le quali ebbero vita effimera (quella Partenopea del 1799 non visse che sei mesi), in larga misura perché sorrette dalle baionette francesi e sottoposte ai prelievi fiscali, estremamente esosi, dei generali francesi: sicché le popolazioni locali le videro sempre come creature-fantoccio nelle mani dello straniero invasore.

Si pensi, ora, al regime di Kharzai in Afghanistan, nell'Afghanistan "liberato" e "democratizzato" a suon di bombe e di armi chimiche dall'esercito americano; nell'Afghanistan che, dopo la cacciata dei talebani da Kabul, è tornato ad essere il paradiso dei narcotrafficanti, e dove le donne portano il burkha quasi ovunque, esattamente come prima. Quanto durerebbe il regime di Kharzai, avido e corrotto, se gli Americani facessero fagotto dall'oggi al domani? Neanche i sei mesi della Repubblica Partenopea. Altro che democrazia! Del resto, la democrazia è solo lo specchietto per le allodole dell'odierno imperialismo americano. Come per Cuba di Batista, per il Cile di Pinochet o per le Filippine di Marcos, ciò che conta non è affatto la democrazia, ma la salvaguardia degli interessi imperiali dell'economia americana e delle multinazionali.

E l'Iraq del post-Saddam Hussein? Quanto durerebbe quel regime collaborazionista, dopo che i marines fossero partiti? Ora, è certo che gli Americani dovranno andarsene, e fra non molto, sia dall'Iraq che dall'Afghanistan. Che cosa succederà allora? È evidente che dobbiamo aspettarci un periodo di turbolenze quale non si vedeva da moltissimo tempo e le cui conseguenze, sia a livello regionale che su scala mondiale, saranno assolutamente imprevedibili.

Ma la cosa più triste è che, se si scatena uno scontro di civiltà a livello mondiale, bisognerebbe almeno essere certi di interpretare degli ideali, dei valori, qualche cosa per cui valga la pena di vivere e di morire. Ma nell'Occidente odierno, tranne il meschino tornaconto economico, non vi è ombra di ideali e di valori. Già lo si era visto in Vietnam: per trovare la forza di combattere, i soldati americani dovevano stordirsi di droga fino a non capire più niente. E queste sono le risorse morali con le quali il governo statunitense pensa di poter vincere uno scontro di civiltà? Sarebbe follia solo pensarlo. Vinceranno i talebani e i guerriglieri iracheni, così come ieri vinsero i vietcong di Ho Chi Min.

L'Europa dovrebbe capirlo, una buona volta, e dissociarsi dai pazzi vanagloriosi di Washington e dai pazzi machiavellici di Gerusalemme. Prima che sia troppo tardi.