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Il fallimento della sinistra e della destra

di Eduardo Zarelli - 23/01/2008

Il fallimento della sinistra e della destra pongono la partecipazione e il bene comune come ulteriori al proceduralismo democratico.

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È passato più di un anno e mezzo dall’incarico al governo Prodi e la fragilità politica del mandato è tale che ogni considerazione in merito alla sua durata potrebbe essere smentita da una banale seduta parlamentare. Il primo ministro e il leader dell’opposizione Berlusconi si reggono a vicenda: senza l’ombra incombente del secondo, il primo sarebbe senza maggioranza e ruolo politico. Andando più in profondità, le sorti della compagine governativa sono in realtà iscritte negli equilibri oligarchici dei gruppi organizzati d’interesse, e pongono quindi una questione di sostanza in merito alla legittimità di una democrazia rappresentativa. Sono lustri che da queste pagine si denuncia lo scacco ideale dell’apparente contrapposizione tra la destra e la sinistra e si pone il paradigma critico, partendo dal presupposto – minoritario, ma intellettualmente indipendente - che l’occidentalizzazione del mondo è culturalmente progressista, economicamente conservatrice e politicamente moderata, centrista; in ultima analisi, neutralizzante. Affermiamo questo sulla scia di una riflessione, volta a coinvolgere quelle forze culturali che sostengono l’attuale maggioranza, rivendicando contemporaneamente la propria identità critica della società liberal-capitalistica. È un tema rilevante, che non può essere costretto in un articolo, ma che ci vede indirettamente partecipi. Lungi da noi l’idea di abusare di questa pubblicazione con richiami o polemiche personali: è estraneo alla nostra forma mentis individualizzare temi e argomenti di dibattito ideale e ancor più usare la contumelia, arma invece consueta a chi ideologicamente si sottrae ai fatti e ai contenuti; è però importante, per la nostra riflessione, ricordare che, durante la scorsa interminabile campagna elettorale, questa rivista fu coinvolta – suo malgrado - in uno stucchevole dibattito tutto interno alla sinistra “radicale” sul tema della “decrescita” (1), considerato particolarmente “scabroso” e “inopportuno” in termini di consenso.  La disponibilità e il credito che tale argomento riscuoteva saltuariamente sulle pagine de Il Manifesto, piuttosto che – con maggior coerenza - sulla sua costola movimentista Carta, diretta da Pierluigi Sullo, erano stigmatizzati nell’ambito di un dibattito su “produzione e consumi”, dalle pagine del quotidiano di Rifondazione Comunista Liberazione in un articolo emblematicamente intitolato “L’ambiguo Latouche” (2) scritto da Andrea Ricci, responsabile economico del partito nonché parlamentare, eletto proprio in questa legislatura. In sintesi, era considerato un tradimento nei confronti della emancipazione democratica delle “masse” proletarie e lavoratrici dare spazio ad autori come Serge Latouche o, più in generale, a quelle tesi che, in nome delle contraddizioni ecologiche e sociali del modo di produzione capitalista, proponessero la necessità di ridiscutere essenza e contenuti dello “sviluppo”. Il socialismo, nella interpretazione canonica rivendicata da Ricci, è vocato alla ridistribuzione dei frutti della crescita economica: confuta le modalità dell’accumulo, non il fine consumistico di massa. L’eresia “reazionaria”, di cui si macchiano tutti coloro che dialogano con queste tesi non conformiste, è - agli occhi dello zelante guardiano dell’ortodossia positivistica – un teorema dimostrato, tanto da sconfinare nella collusione col “nemico di classe”. Regressive correnti irrazionaliste e antimaterialiste allignerebbero in una miscellanea di pensatori eterogenei come Alain de Benoist, Marco Tarchi, Franco Cardini, Massimo Fini (e il sottoscritto), volti a mutuare in Italia un’improbabile “pozione sulfurea” costituita dallo stesso Latouche, giustapposto a Cristopher Lasch, ad Arne Naess, a Ivan Illich, a Jacques Ellul, a Martin Heidegger, a Ortega y Gasset e addirittura a Julius Evola e così via, liberamente citando in una commistione, che - senza voler consigliare a un docente universitario maggior cautela ermeneutica - anche solo sul piano filologico, ha una certa implausibilità agli occhi dei più. Naturalmente, tutto questo “eclettismo reazionario” caratterizzerebbe il mimetismo di chi vuol far regredire l’uomo nei meandri dell’oppressivo “pre-moderno”, che può essere indistintamente il coacervo di “razzistiche” identità culturali “sacralizzanti” così come della reificazione capitalista in merce e denaro dei rapporti sociali. Non vogliamo certo qui mettere in discussione la competenza di chi adopera il pensiero marxista per giudicare l’universo-mondo; certo è che a noi, umili lettori, sembra che la ancora attualissima descrizione dell’incedere del modo di produzione capitalista descritta nel “Manifesto del Partito comunista” supponga la distruzione del modo di produzione feudale (cioè il “pre-moderno”) e che confondere il “feticismo delle merci” con la funzione antropologica del “sacro” sia un limite epistemologico non marginale nella bontà delle tesi presunte. Chissà se agli occhi di Ricci era “fascista” anche Pier Paolo Pasolini quando notava che la sinistra, che cerca il progresso, lo fa attraverso lo sviluppo innescando una lacerante contraddizione: la sua coscienza politica la porta a desiderare il progresso sociale e politico, che però inevitabilmente le fa vivere quotidianamente la realtà dello sviluppo con la sua ideologia consumistica (3). E chissà a quale chouannerie appartiene Bruno Arpaia, che addirittura intitola l’ultima sua opera Per una sinistra reazionaria (Guanda, 2007), in cui infierisce sull’ideologia del progresso come su un “cadavere” ideologico, piuttosto che Pietro Barcellona, che nel suo ultimo libro L’epoca del postumano (Città Aperta, 2007), non lascia dubbi sulle implicazioni annichilenti della ragione strumentale tecno-scientifica; eppure qui non si tratta – purtroppo - di un confronto di merito, poiché ne mancano i presupposti, vale a dire la “buona fede”.

La brutale logica, secondo la quale “l’amico del mio nemico è mio nemico”, tralasciando la coscienza individuale e l’onestà intellettuale, ha una sua consolidata pratica ed efficacia, nel "gioco di simulazione" delle identità di schieramento, tanto più durante i ludi elettorali. Lo schieramento progressista, infatti - come ricordavamo, per chi non se ne fosse accorto in questi mesi di traccheggio compromissorio - oggi governa. Noi scrivemmo, dalla posizione  non conformista che ci siamo scelti – in totale disinteresse verso ogni lusinga e prebenda politicante - che avremmo sostenuto un ruolo culturale e sociale di opposizione, indipendentemente dallo schieramento vincente; infatti quello che è accaduto in quest’anno e mezzo ha dimostrato, in modo inoppugnabile, come le dinamiche del proceduralismo democratico e della rappresentazione d’interessi della società liberal-capitalista siano un riferimento di potere tanto per le forze che apparentemente vi si oppongono, quanto per quelle che vi si identificano. Ci chiediamo, allora - oltre che alla lusinga del potere, argomentata senza pudore come senso di “responsabilità politica” istituzionale – a quale principio morale e di coerenza rispondano i proclamati “pacifisti” arcobaleno, che consentono - nei fatti, non a parole - l’esportazione della “democrazia” occidentale con brutali occupazioni, che coinvolgono le popolazioni civili con sistematica criminale ferocia quotidiana, immune a qualsivoglia “diritto universale”, il quale ovviamente vale solo per i “cattivi” di turno, agli occhi del perbenismo umanitario. Questa coalizione di “lotta e di governo” ha forse mutato di una sola virgola la subalternità italiana alla NATO e all’unilateralismo statunitense? E sul piano socio-economico – ponendoci, per esercizio intellettuale, nel monopolio della rappresentanza del mondo del lavoro subordinato, rivendicata dalla sinistra massimalista - dobbiamo forse pensare che la concertazione dei sindacati confederali con un governo tecnocratico dell’economia non abbia prodotto altro che l’usuale compromesso possibile tra interessi non conflittuali nelle relazioni industriali? La “concertazione” rispecchia la reale articolazione della società e coincide con le aspettative delle categorie più deboli? Ci sono forse segni qualificanti di attenzione all’economia produttiva rispetto alla finanziarizzazione, alla delocalizzazione e alla precarietà? Si intravede forse una qualsivoglia assunzione di responsabilità per il corruttivo sistema di clientelismo partitico o per il degrado assistenzialistico del welfare state? Quali sono le politiche intraprese in nome di una fattiva giustizia sociale per insidiare privilegi e interessi acquisiti, e aprire una prospettiva di vera uguaglianza e di merito, nell’accesso alla ricchezza collettiva e alla gratificazione personale? Forse che un gratuito rivendicazionismo a vantaggio di alcuni non finisce per danneggiare tutti?

In ultima analisi, questo contesto politico, sociale e culturale risponde forse a forze che agiscano nella prospettiva di una società diversa dall’attuale? Siamo alla fine della età delle masse, alla fine del mito dello sviluppo scientifico lineare, di fronte a contraddizioni ambientali senza paragoni e alla crisi dello Stato nazionale con l’inutilizzabilità del keynesismo, cioè del deficit programmatico in funzione sociale. E allora, di fronte allo “spettro” che si aggira per il mondo, la “crisi di civilizzazione”, qual è la risposta credibile? Quale discontinuità corre tra il “pensiero unico” liberale e il “pensiero critico” progressista? Non è, infatti, casuale che le debolezze e i compromessi sistemici di questo governo coincidano con un’irrisolvibile crisi di identità ideologica e di ragione sociale delle sue componenti radicali. Accettando la logica della “politica per il potere”, si sono persi per strada il “potere” della politica, la credibilità ideale, la passione e il coraggio non conformista. Possiamo quindi tornare sulla tematica della “decrescita” che, anche se probabilmente sopravvalutata per eccentricità, assume però un ruolo paradigmatico riguardo ai limiti degli oppositori alla globalizzazione e al conclamato esaurimento della rappresentazione dicotomica sinistra-destra e delle ideologie ad essa referenti.

La “decrescita” non è un’ideologia, non è un “programma politico”, non è una semplificazione ingenua delle contraddizioni della società industriale, ma un tema che ha il pregio di sintetizzare le contraddizioni del concetto di sviluppo “illimitato” proprio del liberismo occidentale; è uno stimolo in controtendenza, che ci estrania dai condizionamenti della società dei consumi e ci fa considerare la scienza, la tecnica e la società in un’ottica culturalmente aderente alla natura, che è fatta di ciclicità virtuose piuttosto che di linearità illimitate, come gli economisti Nicholas Georgescu-Roegen (4), Herman Daly e John Cobb (5), hanno pacatamente argomentato già nel Novecento. La civilizzazione industriale è resa possibile dall’artificio utilitaristico di una crescita dissipatoria e entropica, che trova come alleati inconsci tanto l’escatologia monoteistica quanto il prometeismo positivista secolarizzato. La civiltà dell’essere si esprime nel senso del limite, nella messa in forma del divenire, nell’evoluzione culturale - al contrario dell’evoluzionismo materialistico - nel senso tragico dell’eterna provvisorietà della condizione umana come parte di un respiro cosmico, ove il vivente si svela.   

Il riduzionismo economicista della modernità ha costruito – innanzi tutto nell’immaginario - un potentissimo artificio culturale, spacciandolo per “naturale”, identificando il concetto di progresso, di evoluzione e di sviluppo con la crescita materiale dei beni, che un sistema produttivo mette a disposizione dell’individuo per sopperire alla presunta scarsità naturale. Le cose non stanno così: la crescita non misura i beni, ma le merci, cioè quegli oggetti e quei servizi che vengono scambiati per denaro; mentre gli oggetti e i servizi non sono monetizzabili, non fanno crescere il Prodotto Interno Lordo, quindi vengono negati e rimossi, a partire dalla natura reificata in “risorsa” energetica sfruttabile illimitatamente. Sinistra e destra si equivalgono, in questa insensibilità: sono due varianti dello stesso modello razionalistico; la differenza sta nell’uso dei frutti di questa crescita, non nelle sue caratteristiche e implicazioni. Sia il capitalismo che il socialismo, in qualsiasi loro forma e sfumatura, vogliono ampliare il PIL. Gli schieramenti politici confliggono oligarchicamente solo sul metodo di ripartizione dei dividendi. L’ideologia liberale privilegia i detentori dei “mezzi di produzione”, perché in questo modo le risorse saranno a disposizione di chi reinvestirà in produzione e in indotti consumi di massa. L’ideologia socialista ridistribuisce i dividendi in modo più equo, così che i medesimi consumi di massa favoriscano la produzione e, quindi, gli investimenti pubblici. La storia moderna ha dimostrato come l’economia, che perseguiva, almeno formalmente, ideali di maggiore eguaglianza sia stata sconfitta dall’economia liberale capitalista, perché questa ha avuto la capacità di accumulare maggior capitale per far crescere la produzione. L’occidentalizzazione con il liberalismo di massa, ha realizzato una società, in cui anche le minime parti di reddito sono più grandi di quelle più eque del modello socialista, e ciò indipendentemente dai suoi risvolti sociali, politici, ecologici. Le forze politiche e culturali eredi di queste posizioni hanno definitivamente metabolizzato tale stato di fatto e - consciamente o inconsciamente - pongono rivendicazioni sociali ed economiche consone al sistema liberal-capitalista. Una lucida disanima in merito ci è offerta da Marino Badiale e Massimo Bontempelli nel saggio Il mistero della sinistra (Graphos, 2007). Questo è un punto discriminante, per intendere il ruolo della “decrescita”, nel dibattito attuale. Nel momento in cui entrambi i modelli ritengono che la crescita sia l’obiettivo in sé, affermare invece che lo scopo non è la crescita significa porre un ideale altro, non subire il determinismo della megamacchina tecno-scientifica e dell’autoreferenzialità procedurale e corruttiva della democrazia rappresentativa. Pensare un modello economico e sociale diverso, anche rispetto alle riedizioni ideologiche del passato, implicitamente totalitarie. Per intenderci, si pensi alla Cina: una crescita capitalistica esponenziale, in un regime politico autoritario e liberticida socialista o comunque “sviluppista”, tanto che nell’ultimo decennio, in maniera direttamente proporzionale all’aumento dei punti di PIL, viene distrutto l’ambiente e vengono aumentate le tasse, per coprire quei servizi sociali e infrastrutturali, prima assolti “vernacolarmente” nella società, secondo la millenaria tradizione confuciana di moralità comunitaria e di economia “stazionaria”, che fustigava l’egoismo individuale con la vergogna sociale, non con i “campi di rieducazione”, che hanno preceduto senza soluzione di continuità la coercizione eterodiretta e subliminale degli ipermercati consumistici.

Proprio in queste strettoie epocali possiamo cogliere il disorientamento ideologico progressista, che rivendica moralisticamente la socialità, ma produce più una “socievolezza” egoistica che una responsabilità comune. Per dirla con Zygmunt Bauman, la modernità è transitata dall’epoca industriale delle fonderie, in cui si lavorava per liquefare i “solidi della tradizione”, alla “solidità fluida” della razionalità illuministica delle attuali economie anonime e smaterializzate (6). Nella società fluida, polverizzata e priva di appartenenze - quindi anche di quelle di classe - l’emancipazione individualistica corrode ogni responsabilità collettiva; non è un caso, quindi, se per chiudere il periplo di citazioni iniziato in questo articolo, si torna al quotidiano di Rifondazione Comunista, Liberazione, ove il sociologo Massimo Ilardi - in un articolo dal titolo che farebbe invidia a Il giornale della libertà di Michela Brambilla, “Il consumismo è libertà, la politica deve ripartire da qui” (7) - si dilunga in un argomentato elogio del consumismo. Coerentemente con i presupposti sopra illustrati, Ilardi critica il mercato e le sue leggi, perché, non potendo tutti “consumare” secondo i loro bisogni, l’impossibilità di soddisfare questa “necessità” produce il risentimento adatto a innescare quel dialettico “movimento, che abolisce lo stato di cose presenti”. Insomma: il destino del comunismo, tramite il consumismo, è la subalternità al liberismo. È tutto qui, “l’altro mondo possibile”?

Non c’è quindi bisogno di costruire artificiosamente il “nemico di classe”, per denigrare la “decrescita”; basta rilevare il dettato dialettico della modernità consumista, per sottolineare la differenza filosofica ed etica, ancor prima che politica, tra il “sensismo” e le “visioni del mondo” eudemonistiche, della sobrietà e della reciprocità comunitaria. Il mutamento di paradigma non consiste nel ritornare al “passato”, ma nell’oltrepassare la “modernità” e nel declinarla culturalmente al di fuori della mercificazione del vivente.

Vivere secondo le leggi di natura, significa porsi il problema di come non ferire la sensibile trama della vita che ci circonda, di come ridurre al minimo possibile l’impatto dovuto ai nostri consumi e ai nostri bisogni. Il compito primo di una cultura della decrescita consiste nello sposare la sobrietà dello stile di vita a una felicità cercata nella virtù, nella misura, nell’appropriatezza e nella consapevolezza, in controtendenza alla dissoluzione della cultura nell’egoismo narcisistico, che fa della felicità un diritto, a discapito dei doveri dell’uomo nei confronti della natura e della comunità di cui è parte. Una società ispirata a una felicità-virtù ridurrà i bisogni materiali, la complessità organizzativa e, di conseguenza, la tensione psicologica e decisionale del singolo; all’opposto, una società edonistica, sposando una felicità-piacere, proietterà i bisogni nell’artificio e nell’illimitatezza, fino a “patologizzare” l’indecisione individuale nell’ansia abulimica o anoressica dell’eccesso o del suo rifiuto. L’esplosione libidico-pulsionale, indotta dall’industria del “divertimento”, alimenta parossisticamente l’infelicità. Un uomo è invece libero quando ha in sé i principi del proprio agire, nella creatività e nella compiutezza interiore: autodominio, forma, verità, semplicità, bellezza. Il ruolo della politica dimora nella sua indipendenza dagli interessi organizzati; essa è legittimata dalla partecipazione e finalizzata alla giustizia sociale nel bene comune.

Di fronte a tale domanda di senso e di significato, la dicotomia sinistra-destra risulta obsoleta. Questo non significa negarla storicamente - o negare i riferimenti psicologici e culturali individuali - ma affermare che oggi, politicamente, è inutilizzabile. I programmi dei partiti o delle coalizioni elettorali sono indistinguibili. Il crollo dei modelli alternativi e, parallelamente, del pensiero critico ha fatto sì che il ceto politico confligga esclusivamente sui mezzi, invece che sui fini. La globalizzazione spinge inesorabilmente in direzione di questo adattamento tecnocratico-amministrativo delle politiche e della scomparsa di qualsiasi dibattito sui principi e sulle conseguenti finalità. In queste condizioni, i concetti di “sinistra” e di “destra” non hanno più alcun valore indicativo o descrittivo. Nell’indistinto culturale del “pensiero unico”, l’assuefazione dell’opinione pubblica ai meccanismi autoreferenziali e consociativi del ceto politico estremizza la disaffezione civica, il clientelismo e la rassegnazione sociale; da ciò discende una crisi della rappresentanza: alla diversità delle aspirazioni popolari non corrisponde più una parallela diversità delle opzioni storico-sociali proposte dalla “sinistra” e dalla “destra”.

La partecipazione politica è quindi alla ricerca di nuovi significati fondanti e di nuove aggregazioni in grado di cogliere in profondità la crisi di autoconsunzione oligarchica del proceduralismo democratico. Chi è libero e disinteressato nel pensare e nell’agire, si muova verso “nuove terre” e “nuovi cieli”, al di là della “sinistra” e della “destra”, per giungere a nuove sintesi al servizio del bene comune. Tutto il resto è noia, e non si salverà.

 

 

 

Note

1. sul tema della “decrescita”: M. Pallante, La decrescita felice, Editori Riuniti, 2005; Alain de Benoist, Comunità e decrescita. Critica della ragione mercantile, Arianna Editrice, 2006; Serge Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, 2007

2. Liberazione, 26 luglio 2005

3. P. P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, 2001, pp. 175 segg. (“Sviluppo e progresso”).

4. Nicholas Georgescu-Roegen, Energia e miti economici, Bollati Boringhieri, 1982

5. Herman E. Daly, Lo stato stazionario : economia dell'equilibrio biofisico e della crescita morale, Sansoni, 1981; H. E. Daly e J. B. Cobb, Un' economia per il bene comune, Red, 1994

6. Zygmunt Bauman, Modernita liquida, Laterza, 2002

7. Liberazione, 28 luglio 2007