Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Highway 443: la strada proibita di Israele

Highway 443: la strada proibita di Israele

di redazionale - 23/01/2008





È passato da poco il crepuscolo sulla Route 443, dove il pesante traffico da Gerusalemme in direzione nord rallenta avvicinandosi al checkpoint di Maccabim. I pendolari israeliani, impazienti di arrivare a casa a Tel Aviv o nella città-dormitorio di Modiin, non hanno idea che nell’oscurità alla sinistra dell’autostrada a quattro corsie, le scene quotidiane raccontano un’altra storia di questa terra e del conflitto che l’ha segnata per 40 anni.

Siamo in una strada secondaria, quella che gli automobilisti erano soliti prendere quando si dirigevano a Beit Sira e oltre, verso gli altri villaggi della Cisgiordania, prima che l’esercito israeliano chiudesse l’accesso alle autovetture con due file di blocchi di cemento. Al di là di esse, si possono distinguere una trentina di autovetture parcheggiate con le caratteristiche targhe palestinesi verdi e bianche. Appartengono alla piccolissima minoranza di palestinesi in possesso dell’ambito permesso per lavorare in Israele. I lavoratori tornano a casa dopo una giornata iniziata anche alle 3.30 di mattina, per consentirgli di fare la fila al checkpoint in tempo per iniziare il lavoro, pagato circa 12 sterline (16 euro, ndt) al netto delle spese di viaggio e del costo del permesso.

Non appena i lavoratori dotati di permesso cominciano ad arrivare alla barriera, una donna ebrea sta contrattando con una giovane sarta araba, proveniente dal villaggio, sui tempi necessari per ricamare un abito per la sua attività di abbigliamento nella comunità israeliana ortodossa di Bnei Brak. “Vengo qui perché mi costa il 200 per cento in meno”, spiega la donna, che si presenta solo come Naomi. Non appena comincia a parlare, un cellulare della polizia israeliana si ferma bruscamente, le luci blu lampeggiano, all’interno due fratelli arrestati il pomeriggio stesso a Tel Aviv perché lavoravano in Israele senza permesso.

Il fratello più anziano, Walid, 53 anni, è un lavoratore illegale di vecchia data, tanto bravo nella sua occupazione di elettricista, quanto nell’affrontare i 10 chilometri o quasi di percorso in salita che gli permette di evitare checkpoint e pattugliamenti dell’esercito israeliano, fino a prendere un bus della Egged (compagnia di trasporti pubblici israeliana, ndt) che conduce in città. Dice che no, non sono stati picchiati o maltrattati dai poliziotti in questa occasione, sebbene fossero legati, e che no, questo non lo dissuaderà dal rischiare di nuovo. “Tornerò a Tel Aviv domani,” dice in modo provocatorio.

Ma è l’autostrada stessa che sottolinea qui la separazione tra israeliani e palestinesi. Per Naomi è una strada comoda e straordinariamente veloce per incontrare i suoi lavoratori. I palestinesi, come Walid, affrontano una multa solo per camminarci sopra o attraversarla, figuriamoci per guidarci. Sebbene questo spazio attraversi proprio la West Bank, in realtà solo gli israeliani sono autorizzati a usarlo. Decine di migliaia di persone lo fanno ogni giorno. E la prossima settimana il traffico potrebbe essere addirittura peggiore. Mentre le autorità israeliane sono comprensibilmente reticenti riguardo le misure di sicurezza adottate per la visita del Presidente George Bush, l’ipotesi è che la principale Route 1 che attraversa Israele da Tel Aviv, sarà chiusa per consentire al presidente di lasciare in tutta sicurezza l’aeroporto Ben Gurion, mentre il traffico normale sarà deviato sulla 443.

C’è una sottile ironia nella prospettiva che la visita di un presidente Usa, il cui obiettivo dichiarato è accelerare la nascita di uno stato palestinese, finisca per obbligare molte migliaia di israeliani a guidare proprio attraverso i territori occupati su cui i palestinesi sperano che il loro stato nasca. Per gli automobilisti israeliani che la percorrono abitualmente, è una innocua e comoda strada per risparmiare sul tempo di viaggio. Per l’Associazione dei Diritti Civili in Israele, invece, il divieto di far usare ai palestinesi la strada è “un grave ed estremo esempio” di quello che definisce “la linea politica israeliana, pubblicamente dichiarata, di separazione e discriminazione [illegale] su basi etniche nei territori sotto il suo controllo.”

Sino al 2002, la 443 era la principale arteria che collegava i sette villaggi lungo la strada con la gran parte delle loro fattorie e con Ramallah, la città dove i 37 mila abitanti dei villaggi sono soliti recarsi per lavorare, per fare acquisti, per l’assistenza medica, in particolare ospedaliera, e per far visita a parenti ed amici. Prima dell’Intifada, le autorità israeliane, in cerca di un percorso alternativo per la città-dormitorio di Modiin, in rapida espansione, e per decongestionare la Route 1, la principale autostrada Tel Aviv-Gerusalemme, cominciarono ad allargare la strada, inglobando parte dei terreni di proprietà palestinese. La Suprema Corte israeliana aveva approvato l’esproprio delle terre più di dieci anni prima, basandosi sul presupposto che dell’allargamento avrebbero beneficiato i palestinesi che vivevano lì, così come gli israeliani. Cinque anni fa comunque, dopo una serie di attentati, tra cui, durante i primi anni dell’Intifada, attacchi con armi da fuoco contro gli automobilisti israeliani, le forze armate hanno chiuso tutte le strade d’accesso alla 443 dai villaggi palestinesi circostanti.

Israele sostiene che il divieto è necessario per garantire agli utenti israeliani la sicurezza della strada. Ma un’altra organizzazione umanitaria israeliana, B’Tselem, sebbene riconosca il dovere di Israele di proteggere i propri cittadini, dice che l’assoluto divieto di passaggio “sembra essere basato su ragioni estranee, la più importante delle quali è il desiderio di Israele di annettere, de facto, l’area lungo cui corre la strada.” E aggiunge: “Se Israele fosse realmente interessato solo a proteggere le vite degli israeliani che usano la strada, senza annettere l’area, allora potrebbe limitarne o addirittura proibirne il transito, e magari costruire altre strade e fornire altri mezzi di trasporto per connettere Gerusalemme a Tel Aviv.”

Le forze armate hanno costruito tre strade per i Palestinesi, chiamate “Fabric of Life”, confiscando ancora una volta territori palestinesi, che collegano i villaggi con una strada ad una corsia, tortuosa e malandata, che conduce a Ramallah. I militari dicono sia in manutenzione, ma che anche così “risponde in maniera perfettamente adeguata alle necessità del traffico dei palestinesi nell’area.” Il sindaco di Beit Sira, Ali Abu Safa, dice che in questo modo hanno creato un percorso per la città che dura tra i 60 e i 90 minuti, rispetto ai 12 che ci volevano usando la 443.

Abu Safa, 51 anni, fa presente che questo è più di uno stressante inconveniente. “Non ha senso chiamare un’ambulanza se qualcuno ne ha bisogno, perché ci impiegherebbe più di un’ora per arrivare,” dice. Il sindaco lamenta che molti degli abitanti dei villaggi sono morti durante il lungo tragitto per l’ospedale con un’automobile privata; l’ultimo, quattro mesi fa, è stato un bambino di dieci anni che si chiamava Ahmed Yusef Ali, rimasto gravemente ferito in un incidente stradale.

I pazienti del villaggio che hanno bisogno della dialisi, dice, pagano 150 shekel – poco meno di 19 sterline (25 euro, ndt) – tre volte alla settimana per un taxi per la città. Gli studenti delle superiori o universitari devono pagare 20 shekel al giorno per il “servizio” di minibus per Ramallah e ritorno. “Se un uomo ha cinque figli, questo significa 100 shekel al giorno o 3,000 al mese,” dice il Abu Safa, il quale afferma che “l’80 per cento degli studenti non va all’università perché non ci sono abbastanza soldi”.

L’impatto economico è stato di sicuro pesante. Abu Safa, un imprenditore edile, afferma che il costo di un carico di aggregato è salito da 350 shekel al giorno a 1,200 a causa “dell’itinerario che deve percorrere”. E poi c’è l’impatto sulle attività economiche che dipendevano dai clienti israeliani i quali – ironia della sorte – non possono più raggiungerle a causa dei blocchi di cemento e dei cancelli di metallo che chiudono le strade secondarie della 443. L’organizzazione per i diritti umani B’Tselem ha calcolato che, lungo la strada, più di 100 piccoli negozi hanno chiuso da quando ci sono i blocchi, “tra  questi stabilimenti di piastrelle, fiorai, mobilifici e ristoranti”. In un’area famosa per le piastrelle, la fabbrica e il magazzino da 4 milioni di dollari (2 milioni di sterline) del sessantasettenne Ali Al Ori, distante solo tre minuti dalla strada principale, occupavano 40 lavoratori con un giro d’affari di più di un milione di shekel, considerando solo i clienti israeliani.

“Ora quella cifra è pari a zero,” dice il Ori, 67 anni, che dà lavoro ad appena sei dipendenti per soddisfare la scarsa domanda del mercato locale. Il sig. Ori sottolinea come questo sia solo un esempio del profondo declino dell’economia della West Bank causato dalle restrizioni fisiche agli spostamenti e avverte che il fondo d’emergenza di 7.4 miliardi di dollari che si è assicurato lo scorso mese il Primo Ministro Salam Fayyad alla conferenza dei donatori di Parigi “è inutile, a meno che i checkpoint e i blocchi stradali non vengano rimossi.”

Abu Safa una volta intratteneva ottime relazioni con gli israeliani; quando la 443 era aperta a entrambe le nazionalità “io andavo con gli amici ebrei a Ramallah”, dice. Yusef Mohammed Yusef, 61 anni, uno dei vecchi mukhtar di Beit Sira, come suo padre prima di lui, afferma che il Mandato britannico adoperò manodopera locale palestinese “senza stipendio” per costruire la vecchia strada che ora è la 443. E aggiunge: “Mio padre diede una mano a costruire questa strada. Ora noi non possiamo usarla e impieghiamo un’ora e mezza per raggiungere Ramallah. E’ incredibile.”

Un piano del governo d’emergenza dell’Autorità Palestinese a Ramallah prevede un ospedale – finanziato da donatori internazionali – di cui i villaggi non avrebbero mai avuto bisogno quando la Route 443 era aperta. Ma Abu Safa dice: “Noi abbiamo detto sì, ma in realtà pensiamo che sia l’idea sbagliata. Questo significa che stiamo legittimando l’idea che la strada resti chiusa per sempre”. Allo stesso modo, l’amministrazione civile dell’esercito ha proposto lo scorso anno che i sette villaggi possano avere in tutto 80 automobili autorizzate ad utilizzare – solo durante il giorno – parte della 443. Ma il leader della campagna contro la chiusura, Abu Safa, ha rifiutato perché questo avrebbe creato divisioni e “perché la strada dovrebbe essere aperta a tutti”.

Abu Safa è profondamente scettico sulle ragioni di sicurezza che sono alla base del divieto, su una strada monitorata da quattro torrette di guardia dell’esercito e che comunque corre così vicina ai villaggi da mettere gli automobilisti israeliani sulla loro linea di tiro. In ogni caso, l’esercito dice che, sebbene la strada fosse stata progettata per servire sia gli israeliani che i palestinesi, “è dovere del comando militare, secondo il diritto internazionale, adottare le misure necessarie per garantire la sicurezza di coloro che vivono nell’area,” inclusi gli utenti israeliani della strada. L’esercito ha quindi adottato “una disposizione di separazione del traffico, finalizzata a evitare che terroristi raggiungano la strada”. L’ultimo attacco armato – che uccise tre Israeliani – risale all’agosto del 2001. Da allora, comunque, si sono verificati lanci sporadici di pietre e bottiglie molotov, con tre israeliani feriti e 13 automobili danneggiate dall’agosto del 2007.

Dal momento che la strada passa proprio attraverso i territori occupati della Cisgiordania, l’Associazione dei Diritti Civili in Israele spiega che è “il principale dovere” dell’esercito è permettere alla popolazione locale di usare la strada. “Solo una volta compiuto questo dovere, l’esercito potrà autorizzare gli israeliani a usare la strada, dopo aver risolto il problema di fornire loro una adeguata protezione.”

Nel villaggio di At Tira, Madi Bassem, 29 anni, si accingeva ad intraprendere il lungo viaggio per tornare a Ramallah da suo marito, dopo aver fatto visita ai suoi genitori per la festività dell’Eid, camminando oltre i blocchi di cemento che impediscono il passaggio agli autoveicoli, per attendere uno dei pochi taxi in servizio autorizzati ad avvicinarsi al villaggio. (Un piccolo numero di permessi sono stati rilasciati ad At Tira esclusivamente perché non ci sono strade secondarie alternative alla 443 per raggiungere i villaggi palestinesi limitrofi). Dall’altra parte della strada c’è l’insediamento ebraico di Beit Horon, che ha inghiottito cinque acri di terreni di proprietà di suo padre e che, a differenza dei villaggi palestinesi, gode di un accesso ininterrotto alla Route 443. Prima della chiusura, Bassem avrebbe potuto fare il viaggio da Ramallah e ritorno in pochi minuti. Ora, dice, è “più facile andare in Giordania che a Ramallah”.

Di ritorno a Beit Sira, Abu Safa dice che in attesa di un esito positivo delle cause in atto contro il divieto, gli abitanti dei villaggi continueranno le loro abituali manifestazioni contro la chiusura, proteste in cui si evita volutamente di coinvolgere le principali fazioni politiche palestinesi. Dice di essere sicuro che la Corte Suprema israeliana alla fine ordinerà la riapertura della 443 perché “la strada è nostra.
Questo è del tutto evidente.” Se non dovesse farlo, aggiunge, gli organizzatori della protesta non sarebbero più in grado di frenare la partecipazione alle manifestazioni, fino ad oggi pianificate con attenzione e limitate a circa 100 persone. “Ce ne sarebbero 37,000 di persone là fuori, a bloccare la strada”, dice.

(Traduzione di Palmiro Notizia)
The Independent
L’articolo in lingua originale