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L'autenticità ci spaventa perchè distrugge i nostri comodi schemi mentali

di Francesco Lamendola - 24/01/2008

 

  

Abbiamo ripetutamente sostenuto, in tutta una serie di saggi e articoli, che la mente umana ha il potere di ri-creare il mondo esterno, e non solo quella di conferirgli la particolare "coloritura" emozionale mediante la quale noi ce lo rappresentiamo in un determinato modo. Non lo crea ex nihilo; non ha certo questo potere; ma lo ri-crea sulla base di una realtà che già esiste sul piano dell'assoluto, sul piano dell'Essere. La mente umana, immersa nel divenire e nella contingenza, è sospesa, per così dire, fra i due mondi; intuisce, come dietro un velo, l'esistenza di una realtà esterna, che da lei non dipende e da lei non si origina; ma, in effetti, tutto quello che percepisce, sperimenta e conosce, è un suo prodotto, nel senso letterale dell'espressione. Quello che vede, ascolta, annusa, gusta e tocca è ciò che il suo cervello ri-crea, organizzando a suo modo le informazioni che le giungono dagli organi sensoriali: nulla di più e nulla di meno. Perciò, se la mente vede un tavolo, quello che vede non è il tavolo esterno, non è il tavolo in sé, uguale per lei e per ogni altra mente; ma solo e unicamente il tavolo interno, soggettivo, da lei sperimentato e ri-prodotto.

Ripetiamo: non l'ha tratto dal nulla; la mente non è creativa nel senso pieno e completo della parola. Però il mondo in cui si muove, non è un mondo oggettivo e indipendente da essa; è, al contrario, il mondo della sua percezione e della sua immaginazione. Ella, dunque, è più grande del mondo, perché lo contiene; mentre il mondo  non contiene la mente. Quando la mente si spegne, il mondo cessa di esistere. I realisti obietteranno che esso, invece, continuerà ad esistere per conto suo: ma si tratta di un'affermazione assolutamente indimostrabile. Al contrario, possiamo dimostrare che nessuna mente ha mai potuto testimoniare la persistenza del "mondo" al di là della percezione di una determinata mente. Il mondo "che continua ad esistere", per usare l'espressione - invero grossolana - dei realisti, non è certamente quello della mente che ha cessato di percepirlo; è un altro: è quello delle menti che continuano a percepirlo, ognuna per suo conto, ognuna a suo modo. Nessuna mente potrà mai affermare qualche cosa più di questo.

 

Quel che ora ci resta da fare, adesso, è trarre le logiche e necessarie conseguenze, sul piano pratico e affettivo, di tale principio, dal punto di vista della nostra vita di ogni giorno, in modo da vedere quali effetti esso ha nelle relazioni interpersonali.

 

La prima conseguenza è che noi viviamo all'interno di un universo solipsistico, che non sostituisce, ma che si sovrappone all'universo "oggettivo" e, diciamo così, esterno. Esso esiste realmente, ma non nelle nostre singole menti; bensì, come pensava anche Berkeley, nell'unica Mente che ha un potere creativo assoluto, e mediante la quale le cose esistono in sé e per sé: Per le menti finite, invece, le cose esistono solo relativamente: possono andare anche oltre il qui e ora, ad esempio nello spazio del ricordo e nell'immaginazione dell'aspettativa; ma traggono la loro esistenza da noi e solo da noi. Nel mondo del finito e del relativo, infatti, esse est percipi, essere è l'essere percepito; e quando una singola mente cessa di percepire qualche cosa, quel qualche cosa cessa, semplicemente, di esistere - almeno, lo ripetiamo, sul piano del contingente e del relativo. Insomma, per dirla con Leibniz, noi siamo delle monadi senza porte e senza finestre; e non possiamo comunicare veramente con le altre monadi.

La seconda conseguenza è che noi non sappiamo nulla dell'altro così come è in se stesso, del suo "noumeno" (per usare un linguaggio kantiano): conosciamo solo il "fenomeno", la parte di esso che, creandola, possiamo percepire. Di conseguenza ci muoviamo nel mondo come tanti ciechi che, continuamente, vanno a sbattere gli uni contro gli altri e che, imperterriti, dopo ogni urto riprendono a muoversi a casaccio, senza nulla imparare mai all'esperienza. Infatti, che cosa potremmo imparare? L'unica cosa che potremmo imparare sarebbe un salutare grado di prudenza, di cautela: perché una cosa è aver consapevolezza di essere ciechi, un'altra e ben diversa è muoversi in tutta libertà e disinvoltura, perché privi di una tale consapevolezza. In questo secondo caso, si andrà ugualmente a sbattere, prima o dopo; ma, almeno, si potrà evitare di farsi male (e di far male agli altri) e si comprenderà che il nostro giudizio sul mondo è tremendamente inadeguato. Non è molto, ma sarebbe già qualcosa.

 

La terza conseguenza è che non solo ci muoviamo, incoscientemente, come dei ciechi (o dei dormienti, se si preferisce quest'altra immagine), urtando di continuo l'altro e venendo, più o meno duramente, urtati a nostra volta; ma che finiamo per affezionarci, per così dire, al nostro stesso solipsismo, il quale, se non altro, ci risparmia non poca fatica, dandoci un'immagine preconfezionata delle cose. Ciascuno di noi, cioè, si aggrappa ai propri schemi mentali e li appiccica all'altro, ben deciso a non scostarsene mai più: per noi, infatti, una cosa è bianca o nera per sempre; non ci piace l'idea che possa essere bianca oggi e nera domani, o che possa essere, al tempo stesso, bianca e nera, guardata da due diversi punti di vista. Il nostro punto di vista è unico e tale vogliamo che rimanga. Altrimenti saremmo costretti a una spossante ginnastica mentale e affettiva, a una elasticità che mal si accorda con le nostre membra irrigidite, con i nostri muscoli anchilosati. Meglio, molto meglio stabilire una volta per tutte chi sia l'altro, e conservare ab aeterno i nostro comodi schemi mentali su di lui.

 

La quarta conseguenza è che, se "per mostro o miracolo" (parafrasando Leopardi) qualcuno decide di togliersi di dosso i nostri vischiosi pregiudizi e di mostrarsi qual egli veramente è, la cosa ci irrita e ci offende nel profondo. Ci sentiamo traditi, né più né meno. Beninteso: le maschere che gli altri ci affibbiano non sono soltanto, come per Pirandello, il frutto di una pressione sociale dovuta a un meccanismo di semplificazione psicologica della realtà. Noi creiamo veramente l'altro, però sulla base di un noumeno effettivo, che irrimediabilmente ci sfugge quanto più cerchiamo di definirlo. Tuttavia, dovremmo lasciare almeno socchiusa la porta sul mondo oggettivo che sta dietro, o al di sotto, del mondo da noi creato, invece di sbatterla con rabbia e risentirci quando l'inquilino che abita al di là di essa tenta di fare un passo verso di noi. Dovremmo, cioè, apprezzare il suo sforzo di autenticità, il suo richiamo alla verità dell'essere. Anche se questo distrugge il rassicurante castello di pseudo-certezze con le quali avevamo cercato di mettere un po' di ordine nella nostra rappresentazione del mondo: perché il mondo - non quello del fenomeno, contingente e soggettivo, ma quello oggettivo che, pur non essendo direttamente percepibile, ne costituisce tuttavia il fondamento logico e ontologico - è infinitamente vario e imprevedibile.

Vogliamo adesso soffermarci su questo particolare aspetto del problema e svolgere alcune riflessioni sulla quarta conseguenza del principio solipsistico.

È chiaro che tutti gli equivoci, i malintesi e i fraintendimenti che caratterizzano i rapporti con l'altro sono il frutto dell'ignoranza di questa semplice verità: che l'altro con cui ci confrontiamo non è l'altro in se stesso, ma è l'altro ri-creato dalla nostra mente. Noi lo abbiamo plasmato secondo i nostri desideri e le nostre paure, secondo le nostre aspettative o le nostre delusioni. Dovremmo però fare un passo ulteriore e riconoscere che, se tutto questo è vero, non ne consegue però che questa nostra ri-creazione dell'altro esaurisca la realtà viva e pulsante dell'altro in se stesso: così come le ossa sgretolate di un milodonte, trovate in qualche grotta dimenticata della Patagonia, non esauriscono certamente la realtà di un animale che fu grande, vivo e meravigliosamente inserito nel suo ambiente - ben diverso, a sua volta,  dall'aspro deserto ventoso che è oggi.

Che cosa potremmo fare, dunque, per limitare i danni e gli inconvenienti originati dal fatto che l'altro, accanto al quale si svolge la nostra esistenza; l'altro che amiamo o che odiamo, non è tale se non nella nostra mente, all'interno della nostra mente, e dunque non è, propriamente parlando, un altro, ma un prolungamento di noi stessi; e che il vero altro si nasconde, in un certo senso, al di sotto di esso?

Non molto, in verità; e tuttavia qualcosa: che è sempre meglio di niente.

Potremmo, ad esempio, elaborare una matura consapevolezza dell'equivoco fondamentale nel quale ci troviamo avviluppati; e, proprio come fa il paleontologo con le antiche ossa del milodonte, cercar di restaurare - per via induttiva - l'immagine dell'altro, così come dovrebbe essere in se e per sé. Anche se, come tale, noi non la vedremo mai, possiamo però "bonificarla" dalle innumerevoli incrostazioni del nostro desiderio e della nostra avversione, o dall'opacità della nostra indifferenza; potremmo tentare di interrogarla, invece di continuare a parlare e parlare al posto suo.

Certo, anche nel migliore dei casi non ci giungerà che una voce debole e incomprensibile, poco più di un soffio attraverso la porta socchiusa. E tuttavia, che momento inebriante, indimenticabile, quando ci è dato di percepire - meglio, di intuire - quel debole, debolissimo soffio! Esso è la prova del fatto che non siamo totalmente, disperatamente soli; che qualcosa esiste, al di là delle pareti del nostro solipsismo; che l'essere è più grande di noi, anche se noi siamo più grandi del mondo. Come nel caso del radiotelegrafista intento a captare il debole SOS di una nave in procinto di affondare, in quei rari momenti ci è dato immaginare, oltre la curva dell'orizzonte a noi visibile, tutto un mondo che è negato ai nostri occhi, ma che tuttavia esiste, e sta cercando di comunicare con noi, con tutte le sue forze.

Qui, però, in genere sopraggiunge la difficoltà più grossa.

A molti di noi quel sia pur debole segnale dà fastidio; quell'indizio di un qualcosa che si muove oltre l'orizzonte crea disagio, insicurezza, perfino terrore. Perché si finisce con l'adattarsi anche alla solitudine più angosciosa, se solo si è capaci di farsene una ragione e se si riesce a stordirsi abbastanza con le infinite immagini di noi stessi che gli altri, come specchi, continuamente ci rimandano.

Ma poi, ecco che si verifica l'imprevedibile.

Talvolta, infatti, avviene che l'altro, inaspettatamente e contro ogni regola comunemente accettata, tenta di mostrarsi a noi, così come egli veramente è: fuori dai comodi schemi mentali entro i quali lo abbiamo incasellato e costretto a forza, e perfino fuori dai suoi stessi schemi, in un estremo sforzo di verità e vitalità. 

Poniamo che qualcuno abbia, o creda di avere, disperatamente bisogno di un Maestro (e sorvoliamo sul fatto che i veri Maestri non si comprano al supermercato, un tanto il chilo, ma sono essi che chiamano a sé il proprio discepolo, quando è giunto il momento). Se quegli rifiuta il ruolo di Maestro, che gli è stato imposto dall'altrui aspettativa, e si mostra come un semplice viandante alla ricerca della verità, l'aspirante discepolo si sentirà deluso, amareggiato, perfino tradito.

Semplice, no?

La stragrande maggioranza delle persone non vuole uscire dai propri schemi e dalle proprie proiezioni egoiche: rannicchiata entro di esse, al calduccio, ci sta troppo bene per avere alcuna voglia di uscirne.

Furori fa freddo e tira vento: il più terribile dei venti, quello dell'imprevisto. Perché mai affrontarlo, quando si sta così bene al calduccio, dentro l'ombra che noi stessi proiettiamo continuamente sul mondo? Perché salire in coperta e guardare in faccia i marosi, bianchi di schiuma, ove la nostra navicella potrebbe fare naufragio? Meglio restarsene in fondo alla stiva, a gemere per il mal di mare e a maledire tutti i sette mari del mondo; meglio correre il rischio di fracassarsi sugli scogli, ma almeno non vedere quella schiuma bianca, che incute un autentico terrore.

E allora buona fortuna, povero marinaio d'acqua dolce, che una sorte beffarda ha scaraventato in alto mare! Restatene pure in fondo alla stiva, al buio e al calduccio, con tutte le tue segrete paure e le tue false sicurezze.

Il vasto mare aperto, spazzato dai venti gagliardi, non è cosa che faccia per te.