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Recessione made in Usa

di Massimiliano Viviani - 25/01/2008

     

 

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Lunedì 21 gennaio si è verificato nelle borse di tutto il mondo un crollo aggiratosi intorno al 5% del loro valore totale. Può sembrare roba da poco, ma bisogna ricordare che in seguito agli attacchi alle Torri gemelle di New York il collasso borsistico fu di poco superiore. Si tratta certamente del ribasso più vistoso dagli avvenimenti dell'11 settembre 2001.
Da allora, una lunga fase di difficoltà finanziaria terminata solo nel 2003, quando iniziò invece un'altrettanto lunga fase rialzista. Ora quel periodo pare finito, ed è alle porte una pesante recessione dell'economia americana.
I media lo dicono malvolentieri, ma da un po' di anni la situazione americana è veramente difficile, tanto che molti economisti ritengono quasi certa una crisi, secondo alcuni la più grave degli ultimi 20 anni. E anche i mercati ormai lo hanno capito. L'ha detto anche il re degli speculatori Soros (ovviamente per specularci).
Il nodo di tutto il problema sono i debiti, all'origine della crisi dei mutui di questa estate. Gli Stati uniti sono indebitati fino al collo, e questo perchè i suoi cittadini stanno importando sempre più beni esteri, principalmente cinesi. Con il dollaro quale valuta internazionale e con il conseguente obbligo per ogni Paese ad averne una riserva, il governo Usa se ne approfitta per finanziare il deficit, emettendo grandi quantità di denaro. In tal modo gli Usa pagano i propri debiti senza il rischio di creare inflazione.
E con questi dollari in surplus, le banche centrali di quei Paesi (soprattutto la Cina, il più grande creditore degli americani a livello mondiale) acquistano obbligazioni del Ministero del Tesoro degli Usa (gli analoghi dei nostri Bot e Cct), i quali utilizzano questi dollari che ritornano in patria per finanziare una cospicua parte del proprio enorme deficit federale.
Non solo: anche le imprese, le famiglie e l'intero sistema finanziario americano vivono praticamente su una montagna di carta su cui c'è scritto "pagherò", che tiene finchè tiene il proverbiale ottimismo del sogno americano. Una situazione che non può durare a lungo.
Oltretutto molti Paesi stanno convertendo le loro riserve monetarie in euro (l'Iran ormai vende petrolio solo in cambio di euro, come aveva cominciato a fare l'Iraq di Saddam, e pure la Russia sta cambiando dollari con la moneta europea), facendo assottigliare sempre più i margini di guadagno e generando pessimismo in favore di una crisi imminente.
E fa davvero effetto sentire i giornali statunitensi che sono preoccupati perchè un Paese come l'Italia è un Paese triste (su questo ci sarebbe da discutere, e se lo è, non è certo per colpa nostra...) e che rischia di fare la fine della Repubblica di Venezia. Questo è indiscutibilmente vero, ma detto da un Paese che rischia di fare la fine dell'antica Roma, be', veramente c'è da sorridere (o da piangere).
Considerando poi che in epoca di globalizzazione l'economia americana ha con le altre economie del mondo strettissimi legami - che spesso sono rapporti di vera e propria dominazione - e tenendo presente che il dollaro è la riserva monetaria di ogni Paese industrializzato, un crollo economico Usa mette in pericolo l'economia mondiale. Per questo i segnali di una recessione americana sono così importanti. E per questo giornali come il New York Times (che per riempire le proprie pagine non ha trovato di meglio che scrivere a tavolino un pezzo contro l'Italia) è bene che su questi problemi non scherzino. Guardino piuttosto alle tante grane di casa propria, gli Americani arroganti e con le pezze al culo.