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Viaggio all’interno dei ''black sites'' della Cia

di Mark Benjamin* - 25/01/2008

Viaggio all’interno dei ''black sites'' della Cia
La testimonianza di uno yemenita detenuto in Afghanistan dagli Stati Uniti
Tutti i particolari nel resoconto dettagliato di uno yemenita mai incriminato dagli Stati Uniti, sui diciannove mesi di brutalità e torture psicologiche: per la prima volta dalla viva voce del protagonista i retroscena segreti delle prigioni Usa. Un’esclusiva di Salon.
 

La Cia ha trattenuto Mohamed Farag Ahmad Bashmilah in diverse celle da quando è stato relegato nella rete di prigioni segrete conosciute come “black sites”. Ma le cellette erano tutte abbastanza simili, all’incirca 2 metri per 3. A volte stava nudo, altre volte rimaneva ammanettato per settimane. In una di queste celle restò incatenato a un bullone nel pavimento. C’era un piccolo gabinetto. In un’altra cella c’era solo un secchio. Telecamere a circuito interno registravano ogni suo movimento. La luce era sempre accesa: giorno o notte che fosse. Un altoparlante lo tartassava incessantemente con ogni sorta di interferenza, o musica rap, 24 ore su 24.

Le guardie indossavano maschere e divise nere.
Non pronunciavano una parola quando prelevavano Bashmilah dalla sua cella per l’interrogatorio: uno dei pochi momenti di interazione umana durante i diciannove mesi di prigionia. Nessuno gli diceva dove fosse, o se mai sarebbe stato rilasciato. Era sufficiente a far impazzire chiunque. Bashmilah tentò alla fine di tagliarsi i polsi con un pezzetto di metallo, per imbrattare di sangue le pareti della sua cella con le parole “Sono innocente”. Ma la Cia lo mise al suo posto. Allora Bashmilah smise di mangiare. Ma dopo aver raggiunto i quaranta chili di peso, fu condotto nella stanza degli interrogatori dove gli infilarono un tubo su per il naso fino allo stomaco. Gli iniettarono del liquido. La Cia non voleva lasciarlo morire. In diverse occasioni, quando l’equilibrio mentale di Bashmilah si incrinava pericolosamente, la Cia faceva qualcos’altro: lo rimetteva alle cure degli specialisti in salute mentale. Bashmilah crede si trattasse di esperti psicologi o psichiatri. “Quello che cercavano di fare era darmi una specie di risollevata e di rassicurarmi”, ha raccontato con l’aiuto di un interprete Bashmilah, in un’intervista telefonica dalla sua casa in Yemen. “Una delle cose che mi dicevano era di lasciarmi andare al pianto, e di respirare”. Lo sorso giugno, Salon ha denunciato l’uso che la Cia fa degli psicologi per coadiuvare gli interrogatori dei sospettati di terrorismo. Ma il ruolo degli specialisti in salute mentale che lavorano nei “black sites” della Cia è una tendenza mai conosciuta prima, nell’agghiacciante storia kafkiana delle prigioni segrete d’oltremare dell’agenzia.

Poco fino ad ora era stato reso pubblico sulle condizioni di prigionia di Bashmilah.
Le descrizioni dettagliate rilasciate durante un’intervista a Salon, e in una nuova versione dei documenti giudiziari, forniscono per la prima volta dalla viva voce del protagonista il resoconto dei retroscena nelle prigioni della Cia. I fautori e gli avvocati dei diritti umani hanno ricomposto accuratamente il suo caso, servendosi delle descrizioni delle celle e dei catturatori di Bashmilah, nonché di documenti dei governi giordano e yemenita e dell’ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani per verificare le sue dichiarazioni. Anche le registrazioni della scatola nera, che riportano gli spostamenti a bordo degli aerei della Cia confermano il racconto di Bashmilah, ricostruendo il suo tragitto andata e ritorno dal Medio Oriente all’Afghanistan durante il regime di custodia americana. La storia di Bashmilah serve anche a dimostrare chiaramente la sua innocenza. Dopo diciannove mesi di prigionia e torture nelle mani della Cia, l’agenzia lo ha rilasciato senza alcuna spiegazione, proprio come era avvenuto all’inizio con la sua incarcerazione. Non è stato incriminato per terrorismo. Non ha avuto un avvocato. Non ha visto nessun giudice. È stato semplicemente rilasciato; la vita fatta a pezzi. "Ciò dimostra concretamente l’impatto umano di questo programma, e che le vite vengono fatte a pezzi dal programma di resa della Cia”, ha affermato Margaret Satterthwaite, un procuratore per il caso di Bashmilah nonché docente alla New York University School of Law. “Si tratta di tortura psicologica e dell’esperienza di essere scomparsi.” Bashmilah, che all’età di 39 anni è ora un uomo fisicamente libero, risente ancora delle conseguenze mentali dovute alla detenzione prolungata e agli abusi subiti. È sottoposto a cure mediche per i danni inflittigli dal governo degli Stati Uniti. Venerdì, Bashmilah ha reso pubblica la sua storia in una dichiarazione resa a una corte distrettuale degli Stati Uniti come parte di un’azione civile condotta dall’Aclu contro la Jeppesen Dataplan Inc., un’affiliata della Boeing accusata di agevolare i voli segreti della Cia.

Nell’intervista telefonica Bashmilah ha affermato che l’angoscia psicologica all’interno dei “black sites” della Cia è aggravata dal fatto che i prigionieri sono tenuti all’oscuro di tutto.
Mentre presumeva di essere trattenuto dagli Americani, Bashmilah non ne conosceva davvero il motivo, né sapeva dove si trovasse né se avesse mai rivisto la sua famiglia. Ha affermato, “Ogni volta che penso che potrebbero essercene altri là dove io ho patito, provo la stessa cosa per quegli innocenti che sono appena finiti chissà dove.” Può apparire strano per l’agenzia fornire assistenza a un prigioniero e contemporaneamente torturarlo mentalmente, come se rivelasse un aspetto umanitario a un programma altrimenti calibrato per sfruttare l’abuso psicologico sistematico. Ma potrebbe anche darsi che, gli specialisti in salute mentale, venissero arruolati per favorire il recupero di quei prigionieri che apparivano in equilibrio precario, le cui menti logorate non erano più arrendevoli agli interrogatori. “La mia opinione riguardo all’idea di avere degli psichiatri sul posto, è che se il prigioniero si sente meglio, allora sarà in grado di parlare di più durante l’interrogatorio,” ha affermato Bashmilah. Realisticamente, in un contesto simile gli psichiatri potevano fare ben poco per le profonde sofferenze dei prigionieri inferte dalla Cia. “Di fatto non avevano nessuna autorità per affrontare questi problemi,” ha detto Bashmilah riguardo alle sue sofferenze psichiche. Ha raccontato che i dottori gli dicevano “spera di dimostrare un giorno la tua innocenza o di poter tornare un giorno dalla tua famiglia.” Gli psichiatri gli somministravano anche delle pillole, dei tranquillanti. Analizzavano i suoi sogni. Ma non c’era molto altro da fare. “Mi diedero anche un cubo di Rubik, per passare il tempo, e qualche puzzle,” ha ricordato Bashmilah.

L’incubo cominciò per lui nell’autunno del 2003.
Bashmilah si era recato in Giordania dall’Indonesia, dove viveva con sua moglie e dove lavorava nel settore dell’abbigliamento. Con sua moglie erano andati in Giordania a trovare la madre di Bashmilah, anche lei giunta lì. La famiglia sperava di fissare un intervento cardiaco per la madre di Bashmilah nell’ospedale di Amman. Ma prima di lasciare l’Indonesia, Bashmilah aveva smarrito il passaporto e aveva ottenuto un duplicato. All’arrivo in Giordania, gli agenti giordani gli chiesero come mai non c’erano marche da bollo su quello nuovo, e si insospettirono quando Bashmilah ammise di aver visitato l’Afghanistan nel 2000. Le autorità giordane lo presero in custodia il 21 ottobre 2003. Non sarebbe riapparso fino al 5 maggio 2005, giorno in cui mise piede fuori da un aereo della Cia in Yemen. L’evidente innocenza di Bashmilah non ebbe alcun effetto sugli agenti dei servizi segreti giordani. Dopo l’arresto, i giordani lo picchiarono brutalmente, tempestandolo di domande su Al- Qaeda. Lo costrinsero a trotterellare in un cortile finché non crollò. Gli agenti lo appesero a testa in giù con una cinghia di cuoio e le mani legate. Lo colpirono alle piante dei piedi e ai fianchi. Lo minacciarono di dargli la scossa con i cavi elettrici. Gli dissero che avrebbero violentato sua moglie e sua madre. Era troppo. Bashmilah firmò una confessione di diverse pagine, ma era disorientato e spaventato all’idea di leggerla. “Ero certo che ci fossero scritte cose che non avevo detto,” ha scritto nella sua dichiarazione alla corte consegnata venerdì. “Ero disposto a firmare un centinaio di pagine se avessero interrotto l’interrogatorio.” Bashmilah fu consegnato alla Cia alle prime ore del 26 ottobre 2003. Gli agenti giordani lo consegnarono a un “uomo alto, tarchiato, con pochi capelli e bianco in abiti civili e occhiali scuri con piccole lenti rotonde,” ha scritto nella sua dichiarazione. Non aveva nessuna idea di chi fossero i suoi nuovi catturatori, né tanto meno che stesse per iniziare diciannove mesi di inferno, affidato alla custodia del governo americano. E mentre lo picchiavano raramente durante la custodia americana, descrive un regime di prigionia concepito per infliggere estrema sofferenza psicologica.

Ho chiesto a Bashmilah cosa fosse peggio
: i maltrattamenti fisici ad opera dei giordani o la violenza psicologica da parte della Cia. “Considero peggiore la tortura psicologica subita, di quella fisica,” ha risposto. Ha definito la sua prigionia da parte della Cia “quasi come vivere in una tomba.” "Ogni volta che vedevo una mosca nella mia cella, mi riempivo di gioia,” ha detto. “Anche se mi auguravo che scivolasse da sotto la porta così da non rimanere anche lei imprigionata.” Dopo una breve corsa a un edificio dell’aeroporto, guardie mascherate, vestite di nero e con guanti da chirurgo gli strapparono gli abiti di dosso. Lo picchiarono. Una guardia infilò un dito nell’ano di Bashmilah. Gli fecero indossare un pannolino, una camicia blu e dei pantaloni. Bendato e con paraorecchie, lo hanno poi incatenato incappucciato e legato con una cinghia su una barella in un aereo. Le registrazioni aeree dimostrano che Bashmilah fu condotto a Kabul. (Le registrazioni mostrano che l’aereo partì originariamente da Washington, prima di atterrare a Praga e a Bucarest). Dopo l’atterraggio, lo costrinsero a sdraiarsi dentro una jeep tutta sobbalzi per quindici minuti fino ad un edificio. La benda sugli occhi fu rimossa e Bashmilah fu visitato da un dottore americano. Fu poi trasferito in una cella gelida e senza finestre, grande a malapena 2 metri per 3. C’era un materasso di gommapiuma, una coperta e un secchio per i bisogni che svuotavano una volta al giorno. Una nuda lampadina rimaneva accesa costantemente. Una telecamera venne montata sopra una porta di metallo massiccio. Per il primo mese, da un foro sul lato opposto alla porta, diffusero nella sua cella musica araba e rap a tutto volume, per 24 ore al giorno. Le catene alle gambe erano fissate al muro. Le guardie non lo lasciavano dormire, costringendo Bashmilah a sollevare una mano ogni mezz’ora per provare che fosse ancora sveglio. Le celle erano allineate le une alle altre divise da spazi. Più in alto sopra i bassi soffitti delle celle sembrava esserci un altro soffitto, come se la prigione fosse all’interno di un’aviorimessa.

Dopo tre mesi la routine divenne insopportabile.
Senza successo, Bashmilah tentò di impiccarsi con la coperta e di tagliarsi i polsi. Batté la testa contro il muro nel tentativo di perdere i sensi. Lo tennero in tre celle distinte ma uguali durante la detenzione a Kabul. Ad un certo punto, usarono la cella di rimpetto alla sua per gli interrogatori. “Quando non ero io stesso ad essere picchiato e torturato nella stanza dell’interrogatorio, dopo un po’ ho cominciato a sentire le urla degli altri detenuti che venivano torturati lì dentro,” ha scritto. Quando non lo picchiavano, Bashmilah era sottoposto a frequenti interrogatori. “Per tutto il periodo della mia detenzione, sono stato tenuto in isolamento e non vedevo nessuno all’infuori delle mie guardie, degli interroganti e dell’altro personale della prigione,” ha scritto nella sua dichiarazione. Un interrogatore lo accusò di essere coinvolto nell’invio di lettere a un contatto in Inghilterra, sebbene Bashmilah sostiene di non conoscere nessuno in quel paese. In altre occasioni gli vennero mostrate foto di persone che ugualmente dice di non conoscere. "Questa è una forma di tortura,” mi ha raccontato. “Soprattutto quando la persona che la subisce non ha fatto niente.” Nella sua dichiarazione, Bashmilah ha reso noto che la maggior parte degli ufficiali penitenziari parlava inglese con accento americano. “Inoltre gli interroganti facevano spesso riferimento a rapporti provenienti da Washington,” ha scritto. Dopo sei mesi fu trasferito, senza nessun avviso né spiegazione. Intorno al 24 aprile del 2004, Bashmilah venne tratto dalla sua cella e condotto nella stanza degli interrogatori, dove fu completamente spogliato. Un dottore americano con una mano sfigurata lo visitò, appuntando velocemente dei segni distintivi su un diagramma cartaceo del corpo umano. Di nuovo guardie nero mascherate gli infilarono un pannolino, pantaloni di cotone e una camicia. Fu bendato, ammanettato, incappucciato, costretto a mettere degli auricolari e ammassato, supino, in una jeep con altri detenuti. Poi ricorda di essere stato spinto con la forza a salire su un aereo in attesa per un volo durato diverse ore, seguito da altrettante ore sul fondo di un elicottero.

Al momento dell’atterraggio, fu costretto a salire a bordo di un veicolo per un breve tragitto.
Poi, Bashmilah fece diversi passi verso un’altra prigione segreta: località sconosciuta. Sempre con la forza, lo portarono in una stanza e lo spogliarono completamente. Scattarono foto di tutti i lati del suo corpo. Era circondato da una quindicina circa di persone. “Tutti tranne la persona che scattava le foto indossavano maschere nere come quelle che portano i ladri per coprirsi il volto,” ha scritto Bashmilah nella sua dichiarazione. Fu esaminato nuovamente da un dottore, che prese appunti su un diagramma del corpo umano (Era lo stesso modulo usato in Afghanistan. Bashmilah vide i segni delle sue vaccinazioni segnati sul diagramma). Il dottore gli ispezionò gli occhi, le orecchie, il naso e la gola. Fu poi gettato in una cella fredda, lasciato nudo. Era un’altra cella stretta, nuova o restaurata dotata di un lavello in acciaio inossidabile e di un water. Finché diversi giorni dopo non gli portarono dei vestiti, Bashmilah si strinse dentro una coperta. In questa cella c’erano due telecamere, una montata sopra la porta e l’altra su una parete. Sopra la porta c’era anche un altoparlante. Rumore bianco, come interferenze, veniva sparato a tutto volume ininterrottamente, giorno e notte. Trascorse il primo mese in manette. In questa cella aveva la caviglia imprigionata a una catena di circa 2 metri fissata al pavimento mediante un bullone.

La porta aveva una piccola apertura in basso attraverso cui appariva il cibo
: riso bollito, fette di carne e pane, triangoli di formaggio, patate lesse, pomodori a fette e olive, serviti su piatti di plastica. Le guardie indossavano pantaloni neri con tasche, camice nere a maniche lunghe, guanti di gomma o neri e maschere che coprivano la testa e il collo. Le maschere avevano della plastica gialla all’altezza degli occhi. “Non ho mai udito le guardie parlarsi e non hanno mai parlato con me,” ha scritto Bashmilah nella sua dichiarazione. Lo interrogarono ancora. Bashmilah ricorda un interrogante mostrargli una lezione di uno studioso islamico che giocava su un portatile. L’interrogante voleva sapere se Bashmilah sapesse chi fosse l’uomo, ma egli non lo conosceva. Fu in questa base che Bashmilah si tagliò i polsi, poi iniziò lo sciopero della fame, solo per essere costretto a nutrirsi tramite un tubo infilatogli a forza su per il naso. La Cia sembra aver immaginato che Bashmilah non era un uomo di Al-Qaeda intorno al settembre 2004, quando fu trasferito in un’altra cella simile. Ma non c’era più rumore bianco. E mentre aveva sempre le caviglie in catene, stavolta non erano imbullonate al pavimento. Gli fu concesso di farsi la doccia una volta a settimana. Non fu più interrogato e fu lasciato da solo per la maggior parte del tempo.

Bashmilah ebbe una lista di libri che poteva leggere.
Circa un mese prima del suo rilascio, gli consentirono l’accesso in una palestra per quindici minuti alla settimana. E vedeva gli specialisti in salute mentale. “Gli psichiatri mi chiedevano di parlare del perché fossi così disperato, interpretavano i miei sogni, mi chiedevano come dormivo e se avessi appetito, e mi somministravano dei tranquillanti.” Il 5 maggio 2005, Bashmilah fu ammanettato, incappucciato e messo su un aereo per lo Yemen. I documenti del governo yemenita dicono che il volo durò sei o sette ore e confermano che fu trasferito dal controllo del governo americano. Apprese subito che suo padre era morto nell’autunno del 2004, senza sapere dove fosse sparito suo figlio o se fosse ancora vivo. Alla fine della mia intervista con Bashmilah, gli ho chiesto se c’era qualcosa in particolare che volesse far sapere alla gente. “Mi piacerebbe che gli Americani sapessero che l’Islam non è un nemico delle altre nazioni,” ha detto. “Il popolo americano dovrebbe aver voce per giudicare i responsabili che hanno danneggiato persone innocenti,” ha aggiunto. “E quando c’è una violazione nei confronti del popolo americano, non dovrebbe essere affrontata con un’altra violazione.”

traduzione a cura di Rita Balestra