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Le Idi di Prodi

di Stenio Solinas - 25/01/2008

La storia della sinistra italiana, ha detto anni fa Massimo D’Alema, assomiglia alla saga dei Borgia: «Una famiglia-partito che sacrifica la morale e i destini individuali a un progetto politico, una famiglia che non rinuncia a usare il delitto per raggiungere lo scopo». Fu così che vennero eliminati Natta, Occhetto, lo stesso D’Alema, Cofferati e, uscendo dal campo postcomunista, il Prodi del suo primo governo e Giuliano Amato. L’impressione è che nel tempo l’essenza del progetto si sia incarnata nell’arte, appunto, del delitto, si sia cioè persa la traccia del primo a beneficio del reiterato uso del secondo, ma questa magari è una lettura partigiana, in stile anti-politica, e in fondo in questa sede conta poco. Quel che interessa di più è che la famiglia-partito dei Borgia è di nuovo sulla scena...

Un osservatore disincantato potrebbe dire che è anche una questione generazionale, il bisogno di leaderismo di quelli che arrivati ai vertici da «splendidi quarantenni» si ritrovano un decennio dopo ancora alle prese con la necessità di una leadership, l’impossibilità di farne a meno, l’incapacità a trovarla e/o accettarla. E forse aveva ragione l’Antonio Gramsci dei Quaderni del carcere: «Nel succedersi delle generazioni (e in questo ogni generazione esprime la mentalità di un’epoca storica) può avvenire che si abbia una generazione anziana dalle idee antiquate e una generazione giovane dalle idee infantili, che cioè manchi l’anello storico intermedio, la generazione che abbia potuto educare i giovani».

A D’Alema & C. è mancato proprio questo, l’anello intermedio che avrebbe potuto farli crescere: sono arrivati troppo presto, si ammazzano fra loro e fuori di loro troppo in fretta e spesso in mancanza d’altro. Il lettore avrà capito che stiamo cercando di fare un’analisi, come dire, seria, quello che in altri tempi si sarebbe chiamato un discorso alto: applicato alla pratica politica italiana, ne converrà, è un’impresa titanica, ma forse, una tantum, val la pena di tentarla, vale la pena cioè di applicare categorie shakespeariane a quei copioni e a quei ruoli che di solito vedono le maschere di Brighella, di Pantalone, del Dottor Balanzone. Così, nell’ultimo delitto dei Borgia «democratici», quello che ha visto Romano Prodi pugnalato e Walter Veltroni con il coltello ancora sporco di sangue, ci sono, se si vuole, tutti gli elementi di una tragedia classica - le avvisaglie dello scontro, il confronto dei caratteri, l’antico patto di alleanza, il «meglio perdere che perdersi», l’invito a farsi nobilmente da parte, il «sacrificio del padre» - che non quelli di una pochade fine Ottocento.

Perché poi, si può anche decidere, appunto come Shakespeare, di «andare a seppellire Cesare-Prodi», non «a farne l’elogio», ma non è detto che Bruto-Veltroni oltre a essere «un uomo d’onore» non possa essere anche l’Antonio che lo vendicherà prendendone il posto. L’etica della politica raramente coincide con la morale degli affetti. La «morte» di Prodi, in fondo, è la fine di un equivoco e di un’illusione decennale, equivoco e illusione dietro il quale gli allora Ds, o come diavolo si chiamavano, per dirla sempre con Veltroni, si persero proprio perché vinsero. Era l’equivoco dei «figli di un dio minore», l’antica sindrome del fattore Kappa, l’idea che a correre in prima persona, con il proprio marchio, la propria storia, non ce l’avrebbero mai fatta. Era l’illusione che scegliendo un leader esterno, di matrice moderata, ben accetto dall’establishment e però privo di una propria forza alle spalle, si sarebbe governato per interposta persona, rinforzandosi nel frattempo. Non è stato così, e ripercorrere le tappe del coitus interruptus che è stato il Prodi Uno e dell’agonia rappresentata dal Prodi Bis è un esercizio che lasciamo ai politologi.

L’elemento nuovo è stata quella decisione dichiarata da Veltroni in quel di Orvieto di correre un domani da solo come Partito democratico, consapevole di una leadership forte che gli viene dalle primarie e di una nuova macchina politica che conserva molto del vecchio Ds, ma non più quel suo essere «eguali ma diversi» che ne faceva più una setta che un partito. In fondo, Veltroni si è impadronito di ciò che era stato costruito nell’ottica di Prodi. Anche l’invito ufficioso a farsi da parte rientrava in questo quadro. C’è una strana eterogenesi dei fini nella storia che accomuna questi due leader, il raccogliere l’uno quello che era stato seminato e/o preparato per l’altro. E questo spiega anche perché il delitto riguardante Prodi non possa che portare la firma di Veltroni. Come nel Kagemusha di Akira Kurosawa, l’ombra del guerriero prende il posto del suo signore. Ma è anche un delitto per molti versi ineluttabile, perché l’«impolitico» o il «non politico» Prodi, secondo la definizione del suo mentore Arturo Parisi, nel confondere un progetto politico con il proprio destino individuale da risorsa ha finito con il trasformarsi in ostacolo. C’è una superbia intellettuale nella sua ostinazione a durare che è magari encomiabile, e tuttavia miope: ha vinto troppo tardi e ha vinto troppo male, ma non l’ha mai voluto ammettere. E mentre era intento a durare non si è accorto che intorno stava cambiando tutto. Il finto buonismo di Veltroni e la falsa bonomia di Prodi sono gli altri elementi interessanti di questa cronaca di un parricidio annunciato. I due si capiscono perché si assomigliano: sono tenaci, sono vendicativi, non dimenticano, sono abili tessitori. La memorabile definizione di Massimo D’Alema al loro riguardo, «due flaccidi imbroglioni», non fa onore all’intelligenza politica di chi la pronunciò: non c’è niente di flaccido in entrambi, per fortuna o purtroppo, e quanto al sostantivo che in qualche modo peggiora ulteriormente l’aggettivo, è nella norma della classe politica: imbrogliano tutti. Il problema è se imbroglino bene o male. Sotto questo profilo, Veltroni si è dimostrato più abile e il suo capolavoro è consistito nell’essersi in qualche modo reso garante del nuovo, addirittura come uomo nuovo, laddove l’altro ha finito per dilapidare in questi lunghissimi venti mesi quelle caratteristiche di rassicurante tranquillità che dopo l’iperattivismo conflittuale della stagione berlusconiana venivano richieste un po’ da tutti. Mai infatti ci fu governo più litigioso, ministri che si insultavano fra loro, pasticci legislativi, scontri istituzionali.

A differenza di Fausto Bertinotti, la sindrome dello scorpione, ricordate, Veltroni uccide (presente storico) Prodi per salvare sé stesso, meglio per salvare un’idea della politica che Prodi non può praticare perché in fondo non vuole. Prodi cerca di governare facendo finta che Berlusconi non esista: le differenze fra i due sono abissali, ma il professore le vive con la supponenza dell’uomo di studi sull’uomo del fare. Avendolo sconfitto per due volte, confonde la vittoria con la superiorità: intellettuale, etica, comportamentale. Veltroni è più duttile o forse è solo più moderno: sa che dall’altra parte c’è una leadership forte, c’è un seguito popolare, sa che il muro contro muro non giova a nessuno, sa che inchiodare le proprie scelte politiche sul rifiuto dell’avversario incancrenisce la situazione e logora comunque le posizioni, costringe ad alleanze innaturali che finiscono per rivoltarsi contro chi le fa. Il «non dimettersi» di Romano Prodi, il suo cercare comunque di cadere sul campo, per Veltroni non ha avuto altro significato che rivedere un film di cui già conosceva il finale, perché a suo tempo lo recitò anche lui e anche lui si ritrovò caduto su quel campo. Ciò che ci può essere di nobile una prima volta ha del patologico quando diventa una coazione a ripetere, e assume una tinta più sinistra nel momento in cui, interrogato sui rischi del dopo, il diretto interessato se ne esce con una affermazione che ha se non altro il pregio della chiarezza: «Perché dovrei farmi carico del dopo Prodi quando nessuno si è fatto carico di Prodi?». È per impedire di fare del male ad altri, visto che non si riesce a distoglierlo dall’idea di farsi comunque male da solo, che Veltroni lo doveva eliminare. Con le lacrime agli occhi, come ogni tragedia classica che si rispetti, anche quelle che hanno per scenario il Paese politico di Pulcinella. Perché si sa, purtroppo o per fortuna, i Borgia non abitano più qui.