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"Fram, orso polare" di Cezar Petrescu, malinconica riflessione su natura e cultura

di Francesco Lamendola - 28/01/2008

Cezar Petrescu nasce nella Moldavia settentrionale, a Cotnari, non lontano da Iasi, il 14 dicembre 1892. Giovanissimo, inizia la sua attività letteraria come giornalista e come scrittore, collocandosi d’istinto fra i cosiddetti neoseminatoristi, verso i quali lo attrae l’amore per la terra e, al tempo stesso, la preoccupazione per la difesa della sua identità minacciata da modelli di vita estranei, urbani e internazionali. Spirito conservatore, contemplativo, pessimista, ideale prosecutore della strada tracciata dal suo grande conterraneo, Mihail Sadoveanu, e tuttavia pervaso da un’inquietudine spirituale autenticamente sentita e da un’ansia di rigore e di pulizia morale mai smentita nella sua lunga carriera, Petrescu assomiglia un po’ a tanti personaggi dei suoi romanzi e racconti. E’ il classico provinciale ingenuo e sognatore, pieno di illusioni sulla bontà degli uomini e sulla funzione quasi apostolica dell’intellettuale, che si trasferisce nella grande città occidentalizzata, Bucarest, per dare la scalata al successo letterario. Osservatore attento e penetrante della realtà, buon conoscitore d’uomini cui lo predispone una innata capacità d’intuizione psicologica, odia l’ipocrisia borghese, la furbizia dei filistei, le piccole meschine manovre di chi non ha talento, ma è abbastanza cinico e sfrontato per farsi comunque avanti; e percepisce emozioni e atmosfere grazie a una sensibilità estremamente acuta, quasi dolorosa.

In lui c’è un contrasto, un intimo dissidio che è poi quello della Romania di quegli anni decisivi: dal padre valacco ha ereditato uno spirito eminentemente pratico, dinamico, vigoroso e intraprendente; dalla madre moldava l’attitudine al ripiegamento interiore, al bisogno di solitudine e di silenzio, all’anelito di evasione dalla grigia e piatta atmosfera della realtà quotidiana, nei regni bellissimi del sogno e della fantasia. Vive in un’epoca di trapasso e, sensibile come tutti i veri artisti, è egli stesso un uomo di trapasso: cioè un uomo diviso fra opposte esigenze spirituali, allarmato e spaventato dal fosco avvenire che avanza col cosiddetto “progresso”, e tuttavia in qualche modo cosciente dell’impossibilità di un puro e semplice ritorno al passato, cui pure il suo cuore desideroso di pace anela incessantemente. Come il Petrarca del Secretum, che come lui visse in un’epoca di faticosa transizione tra un passato che non vuol morire e un futuro che stenta ad affermarsi, potrebbe dire di sé stesso: “Quel doppio uomo che è in me.”

Infatti la sua vita movimentata, i frequenti spostamenti, i bruschi passaggi dalla povertà alla ricchezza e viceversa, le metropoli occidentali, i porti del Vicino Oriente, le stesse apparentemente opposte esigenze del suo estro letterario: un realismo disadorno e antiromantico e,  contemporaneamente, un’attrazione invincibile per l’ignoto e il mistero: tutto questo ne fa lo scrittore romeno la cui vita più ricorda quella di Jack London, e non solo per il dato biografico esteriore ma anche per quella consapevole fragilità dissimulata dietro una facciata di energico e infaticabile volontarismo. E a Jack London somiglia anche per l’amaro pessimismo, mitigato solo dal senso rasserenatore della madre natura; mentre la donna, in Petrescu (come in London) non è e non può essere elemento rasserenatore, poiché non sa mantenere le promesse seducenti del suo fascino misterioso e si rivela anch’essa, anzi, parte della dolorosa disillusione, del drammatico disinganno che la vita implacabilmente riserva anche a coloro che si erano illusi di dominarla a piacere.

E dopo Jack London, Honoré de Balzac. Con Balzac esiste una sintonia quasi perfetta sia nell’atteggiamento realistico di chi vuol cogliere tutta la realtà senza infingimenti; sia nell’ambizione di poterla abbracciare, analizzare e descrivere in ogni sua manifestazione, in ogni classe sociale e in ogni tipo umano; sia, infine, nell’identificazione col giovane ingenuo di belle speranze che la dura realtà del mondo, e particolarmente della grande città smaliziata e corrotta, riporta bruscamente dalla poesia alla prosa più arida e meschina della vita umana: come il protagonista di Illusioni perdute del grande romanziere francese. In lui c’è una curiosità spontanea verso il dato umano, verso il meccanismo, per così dire, delle passioni, dell’ambizione, della brama di vivere da cui, schopenhauerianamente, d’istinto, si ritrae pieno di angoscia, scoraggiamento e delusione. Sente che il male è lì, in quell’ardente desiderio di vita, in quell’attaccamento irrazionale alle cose, in quella volontà di successo e di godimento che si trasforma in un meccanismo feroce, spietato e che lancia gli uomini gli uni contro gli altri, per superarsi e sopraffarsi a vicenda. Intuisce tutta la bruttezza di un modo di essere puramente egoistico e utilitaristico, di una ricerca illimitata di felcità che si traduce, inevitabilmente, in uno scacco bruciante e traumatico. “I want to be happy”, risuonano le note della canzone americana nell’ edificio di Calea Victoriei; e questa umanità che si affanna disperatamente in una ricerca del piacere senza fine e senza pace,  suscita in lui una reazione di pena profonda, di rammarico impotente, ma anche, si direbbe, di ripulsa e di disgusto, come davanti a uno spettacolo di pagliacci mal riuscito, chiassoso e volgare. Certo, vi è anche una buona dose di filosofia leopardiana in tutto ciò: il male non è solo nel fatto di desiderare incessantemente, di bramare senza limiti una felicità che per sua stessa natura non può che essere indefinita e illimitata, dunque irraggiungibile; il male è a monte e sta proprio nel fatto di esistere, di esserci. Per dirla con Heidegger, siamo esseri-per-la-morte ed il nostro dramma sta nel Da-sein, nella colpa originaria di esserci.

L’evento decisivo nel percorso umano e letterario di questo Autore non è un evento privato, ma una grande, irreparabile tragedia collettiva: la prima guerra mondiale, al rombo dei cui cannoni tutta la patriarcale vita romena viene scossa dalle fondamenta, e un’intera generazione viene assassinata spiritualmente: sarà il tema della sua opera forse più famosa: Intunecare. Quando il governo Bratianu, dopo lunghe e tormentose incertezze, dichiara guerra all’Austria-Ungheria ed invade la Transilvania, nell’agosto 1916 (trascinato sia dalla conquista italiana di Gorizia, sia dagli effimeri successi dell’offensiva Brusilov in Galizia e Bucovina), Cezar Petrescu è un giovane di ventiquattro anni che, come tanti suoi coetanei, viene arruolato e spedito al fronte. Grande è l’entusiasmo della borghesia nazionalista, ma scarso quello dei contadini, assillati (proprio come era accaduto in Italia l’anno prima) dalla preoccupazione di dover lasciare i campi abbandonati nel pieno del ciclo agricolo, e troppo poveri, sfruttati e analfabeti per comprendere le rivendicazioni territoriali, che vanno molto al di là della Transilvania poiché comprendono le contee esteriori di Szatmàr (Satu Mare), Bihor e Arad, o Piccolo Alföld, sin nei pressi di Szeged, il Maramures e l’intero Banato. E solo nove anni prima quei contadini si erano ribellati alla loro intollerabile condizione di servaggio, e avevano visto i fucili dell’esercito rivolgersi e sparare contro di loro! Le illusioni di una facile e rapida vittoria s’incrinano e vanno in pezzi nel giro di poche settimane. Dopo una serie di battaglie disperate per impadronirsi dei passi carpatici prima che la neve li blocchi, le truppe austro-tedesche del generale von Mackensen riescono a sboccare nella pianura valacca e il 6 dicembre entrano a Bucarest, sgombrata in fretta e furia sotto un tempo piovoso e inclemente. Il dispositivo militare romeno è stato spazzato via in poco più di tre mesi. La nazione, però, non si arrende: nell’ora della catastrofe (come l’Italia un anno dopo, a Caporetto) ritrova orgoglio e unità e decide di proseguire la lotta, nonostante il naufragio di tante speranze. Il governo si trasferisce a Iasi, il fronte si stabilizza dietro il Siret e l’esercito si riorganizza, durante l’inverno, nella Moldavia.

Nell’estate del 1917 gli Austro-Tedeschi muovono nuovamente all’attacco: ma questa volta non hanno di fronte le truppe impreparate e mal dirette dell’anno prima, bensì un esercito rinnovato nello spirito, nelle armi e nei rifornimenti. Operando per linee interne e, questa volta, ben diretto a livello di comandi, l’esercito romeno compie il piccolo miracolo di vincere una serie di gloriose battaglie difensive, mandando a vuoto gli ambiziosi piani del nemico. Ma dopo le rivoluzioni russe del 1917, e specialmente dopo quella di Ottobre, il venir meno della copertura sul fianco destro rende impossibile sfruttare il successo e costringe il governo a chiedere l’armistizio nel dicembre e a firmare l’onerosa pace di Bucarest, il 7 maggio 1918. Ma non è finita: in autunno si annuncia il crollo degli Imperi Centrali, preceduto dalla resa di Turchia e Bulgaria; il 9 novembre l’esercito romeno riprende la lotta e il 28, ad Alba Iulia, i consigli nazionali delle terre “irredente” proclamano l’unione con la Romania. Essa viene poi ratificata nel trattao di pace di Saint-Germain-en-Laye del 10 settembre 1919, che accoglie gran parte delle rivendicazioni romene.

Nel 1921 Petrescu fonda, insieme a Gib Mihaescu, la rivista Gandirea che, come sul piano artistico Gandirea vuole essere il punto di riferimento dei valori della tradizione (quindi, ancora una volta, del mondo rurale, ma in una fase storica in cui esso è minacciato dall’avanzata chiassosa e disgregatrice della società affaristica e industriale di stampo americaneggiante), sul piano culturale e, indirettamente, sociale essa promuove un esperimento veramente notevole: l’alleanza dell’elemento nazionale, che in genere tende a divenire nazionalistico, con l’elemento religioso bizantino-ortodosso. È chiaro che i tradizionalisti avvertono tutta la crisi di valori, tutto l’abisso spaventoso di relativismo nichilista che si è aperto come conseguenza della prima guerra mondiale; essi percepiscono chiaramente che l’Europa, ferita a morte e confusa, sta rischiando di perdere la propria anima, e che un paese come la Romania, retto ancora da strutture sociali di tipo patriarcale, subirà in modo anche più brusco e traumatico il passaggio verso i tempi nuovi, dominati dall’ossessione edonistica e dalla frenesia produttivista. Coerente con le sue idee, fin dal 1937 lo scrittore aveva disertato l’atmosfera convulsa e moralmente disordinata della capitale per ritirarsi in una grande villa di campagna a Busteni, alle pendici meridionali delle Alpi Transilvaniche, lungo la strada che da Ploiesti sale verso Predeal. Dopo la fondazione della Repubblica popolare, nel 1947, Petrescu (come il suo maestro ideale, Sadoveanu, e la grande maggioranza degli intellettuali romeni), decide di rimanere in patria, guardando in viso i tempi nuovi. Ma, come scrittore, egli ha concluso la sua fase veramente creativa tra la fine degli anni Trenta e la metà degli anni Quaranta; l’ultimo libro importante è Tapirul, del 1946. Egli ha solo cinquantaquattro anni, ma l’intensa attività letteraria lo ha come precocemente logorato. Muore a Bucarest il 9 marzo del 1961. La casa dello scrittore è stata trasformata nel Museo commemorativo “Cezar Petrescu” che contiene, tra l’altro, oltre 10.000 fra libri e riviste, dono della sua famiglia. (1)

Il valore dell'opera letteraria di Cézar Petrescu è disuguale e, anche se in alcune parti risente di una certa fretta giornalistica e indulge in facili effetti, vi è senza dubbio un nucleo poetico autentico, che lo colloca di diritto fra i maggiori artisti romeni del Novecento. Equilibrato e condivisibile, nel complesso, ci pare il giudizio, pur severo, di uno dei massimi esperti italiani di letteratura romena, Gino Lupi: “Benché il mondo di Cezar Petrescu sia letterario, pur introducendo episodi di vita contemporanea, l’atmosfera e gli ambienti di campagna, di provincia, della capitale, risultano evidenti e reali, dominati dalla tristezza derivante (anche quando l’argomento evade dalla realtà nel campo dell’ultrasensibile) dalla convinzione della vittoria del male sulle forze buone innate nell’uomo.” (2)

Tra le sue opere, un posto preminente spetta a Intunecare (che si può tradurre in italiano con L’imbrunire quanto al significato letterale, Ottenebramento quanto a quello spirituale, e con Oscuramento oppure L’ombra che scende, con riguardo ad entrambi), che è considerato il miglior romanzo romeno sulla prima guerra mondiale. (3) Ricordiamo poi Comoara regelui Dromichet (Il tesoro del re Dromichet), del 1931; Aurul negru (Oro nero), in cui “la ricerca petrolifera è denunciata come una violazione dei ritmi naturali, inizio di un processo di contaminazione che investirà tanto la natura che l’uomo” (Rosa del Conte); Oras patriarhal (Città patriarcale), del 1931,  che riprende temi e situazioni di uno dei primi libri di Petrescu, Drumul cu plopi (La strada dei pioppi) del 1924; Apostol (L'apostolo), del 1933, in cui un giovane maestro, che torna dalla città per svolgere quest’azione missionaria, urta contro gli ostacoli creati da un’amministrazione corrotta e da una coalizione d’interessi meschini.”; e tre volumi deicati alla grande rivolta contadina del 1907, intitolati semplicemente 1907. Nel ciclo della società romena tra le due guerre, e più in particolare della “capitale che uccide” spicca per ampiezza di ricostruzione sociologica e per vigore narrativo Calea Victoriei (che è il nome del più importante viale di Bucarest), ove è descritto con spietato realismo il processo di decadenza morale che la società bucarestina vive all’indomani della pur vittoriosa conclusione della guerra 1916-18. (4)

Oltre al genere realistico e sociale, Petrescu ha coltivato un filone narrativo di tipo visionario e fantastico; tra queste ultime opere si segnalano Omul din vis (l’uomo del sogno), del 1926, Omul care si-a gasit umbra (L’uomo che ha ritrovato la sua ombra), del 1929; Aranca, stima lacurilor (Aranca, il fantasma dei laghi), “che – come è stato osservato – ha il sapore di una nordica ballata romantica trasportata nel nostro irriverente Novecento”; Adevarata moart a lui Guynemer (La vera morte di Guynemer), pure del 1929 (13); Baletul mecanic (Il balletto meccanico), del 1931. (5) Ma l’opera forse migliore di questo ciclo è il romanzo Simfonia fantastica (La sinfonia fantastica), un piccolo gioiello di acutezza psicologica sospeso tra Freud e Pirandello, con un sottofondo inquietante che lo percorre come un brivido incontrollabile.(6)

Petrescu si è dedicato anche alla narrativa per l’infanzia (ma con una vena di pensosa malinconia che trascende i confinispecifici di questo genere letterario), in particolare col romanzo Fram, ursul polar (Fram, l’orso polare), di cui vogliamo qui occuparci in modo particolare. Fram, un orso bianco simpatico e intelligentissimo, è la maggiore attrazione del circo Struschi, sempre in viaggio da una città all’altra d’Europa. Le sue acrobazie, il suo comportamento spiritoso e quasi umano fanno impazzire d’entusiasmo tutto il pubblico dei bambini, verso i quali mostra una particolare predilezione. Tutto cambia improvvisamente quando Fram, senza causa apparente, cade in preda a un inspiegabile torpore, diventa pigro ed apatico, e sembra aver totalmente disimparato quei difficili esercizi che mandavano in visibilio grandi e piccini. In breve, sembra essersi chiuso in un suo mondo interiore pieno di malinconia, che nessuno riesce a  capire e ove a nessuno è permesso di entrare.

Il diretttore del circo, che gli vuol bene, chiama un esperto di orsi che individua subito la causa del mutamento: Fram è stato afferrato dalla nostalgia per la sua terra natale, lassù, tra i ghiacci eterni, e per la vita libera e selvaggia rimasta in qualche angolo della sua memoria. Non uscirà mai più da quella patetica malinconia, se non verrà restituito alla sua condizione di animale selvaggio. E il direttore, che in fondo è un brav’uomo, grato per quanto Fram ha dato al circo nei suoi tempi migliori, sia pure con dispiacere decide di ricambiare il suo vecchio “amico”, facendolo imbarcare su una nave rompighiaccio che deve salpare da Amburgo, diretta al Polo Nord, con precise istruzioni di rimetterlo in libertà. E così avviene.

Mano a mano che la nave si avvicina alla zona artica, Fram sembra ridestarsi da un lungo sogno e comincia, impaziente, a fiutare l’aria fredda che viene dal settentrione.  E quando la nave giunge in vista di un’isoletta rocciosa, l’orso viene fatto sbarcare e si allontana subito con gioia, fra la commozione dell’equipaggio, per ricominciare una nuova vita, pieno di speranza. L’incontro coi suoi simili, però, è una grandissima delusione. Fram è ormai un animale profondamente umanizzato: l’aggressività e la stupida ferocia degli altri orsi lo disgustano, e quella lunga, eterna notte polare, abitata solo dai riflessi lunari sul gelido paesaggio bianco, sotto un cielo vuoto e spaventoso, lo riempie di angoscia e di un insopportabile senso di abbandono e solitudine. Inoltre, odia la violenza e non vorrebbe uccidere; l’idea del sangue gli ripugna: ma ha fame, terribilmente fame. Tenta senza successo di fare amicizia con gli altri orsi, ma è respinto come un intruso e anzi aggredito. Riesce a difendersi con facilità e ad avere la meglio, grazie ai trucchi e alle mosse impensate imparati negli anni del circo; ma il suo cuore è colmo di tristezza e di amarezza. Capisce che l’unica legge esistente lassù è la legge del più forte, che deve uccidere per riuscire a sopravvivere, per non essere ucciso a sua volta. E quella legge, per lui, è intollerabile: non vuole uccidere, ne prova un orrore e un ribrezzo indescrivibili. Deve farlo, però, per difendersi; ma lo spettacolo dell’orsacchiotto che si accanisce sull’orso morente colma la misura del suo disgusto. Riesce, per qualche tempo, a nutrirsi con le prede già uccise dai suoi simili, ma ormai ha capito che quella vita non potrà mai fare per lui: solo tra gli uomini ha imparato il calore di una diversa legge di vita, regolata non dal mors tua, vita mea, ma dal calore degli affetti e specialmente dalla freschezza e dalla gioiosità spontanea dei bambini, il cui ricordo gli punge il cuore di nostalgia come, negli ultimi tempi della vita al circo, il ricordo lontano dei suoi genitori e dei ghiacci immacolati dov'era nato.

Un giorno, incontra due cacciatori di orsi che il freddo e la fame hanno ridotto all’impotenza: esausti, semicongelati, non aspettano altro che la morte. Erano stati sbarcati dalla stessa nave che aveva ricondotto Fram nell’Artide ma, a causa di una bufera, non avevano potuto rientrare  alla loro base, una capanna di legno che avrebbe rappresentato la salvezza. Allora Fram li copre con la sua calda pelliccia e li salva dal congelamento.

Poco dopo la nave ritorna per prenderli a bordo; c’è un momento di esitazione: ai due uomini dispiace lasciare per sempre il loro salvatore.  No, la sua vita non può essere fra quelle distese vuote e desolate, ma solo fra gli uomini, dove ha imparato la dolcezza dei sentimenti ed è diventato qualcosa di diverso da un grosso plantigrado ottuso e feroce.

 

“I due cacciatori entrarono nella capanna per vedere se non avessero dimenticato nulla. Quando uscirono, Fram era scomparso; lo cercarono, lo chiamarono.

“-Peccato. Avremmo dovuto prender congedo da lui… Hai visto come erano stupiti tutti i marinai?

“Egon salì in cima a una rupe per guardar in giù. Di lassù, si vedevano anche le due barche ferme accanto alla riva.

“- Guarda! – disse sbalordito. – Volevi sapere dov’è Fram: è già imbarcato. Ci ha preceduti.

“Infatti, era salito in barca. Voltava le spalle all’isola. Attorno a lui, i marinai cercavano di mandarlo via; ma Fram stava immobile, inchiodato nella barca.

“ – Ma allora… - cominciò Otto.

“ – Allora – completò Egon – lo prendiamo con noi.  È il suo desiderio.Non lo dice, ma lo dimostra abbastanza chiaramente.

“I due cacciatori scesero dalla riva rocciosa. I remi cominciarono a dividere l’acqua, verso la nave ancorata al largo.

“ – Caro Fram, non giri neppure gli occhi? – gli chiese Egon. Non dici neppure addio al tuo paese? Bada, questa volta è per sempre…

“Ma Fram, voltando le spalle ai deserti polari, guardava innanzi a sé, verso il mondo lontano, oltre i ghiacci e le acque.” (7)

 

Le pagine del romanzo più ricche di poesia sono, probabilmente, quelle in cui l'Autore  descrive l'origine della improvvisa e apparentemente inspiegabile malinconia che ha preso il prodigioso orso Fram, grande attrazione del circo Struschi e beniamino del pubblico infantile di mezza Europa: la nostalgia dei luoghi natali. Il confuso ma potente ricordo della sua prima infanzia tra i ghiacci è penetrato inaspettatamente nel suo animo di animale addomesticato, sconvolgendo dolorosamente la sua vita sinora felice. Fram, come tanti personaggi di Petrescu, è uno sradicato; ma il ritorno al paese dei ghiacci ne farà uno sradicato anche maggiore: scoprirà di non essere più capace di vivere tra gli animali selvaggi, in una natura dura e spietata, e vorrà tornare nel paese degli uomini, dove ha scoperto di possedere sentimenti “umani” che ormai sono parte integrale della sua vita. È il solo caso, nella narrativa di Petrescu, in cui il conflitto fra natura e cultura si risolve a favore di quest’ultima. Ma ciò avviene perché egli ha idealizzato l’animale “buono”, estrema versione del mito del buon selvaggio; mentre gli altri orsi, quelli che Fram incontra al Polo, incarnano gli eterni difetti umani: stupidità, egoismo, violenza cieca.

Si noti, in questa pagina, di quanta delicatezza è capace l’Autore nel descrivere il rapporto fra l’orsacchiotto e la sua mamma: è una scena squisita, che ricorda irresistibilmente il celebre quadro “Le due madri” del pittore Giovanni Segantini: la madre umana e la madre bovina, ciascuna col suo piccolo accanto, nel tepore dolce della stalla, entrambe colte nell’intimità e nel mistero toccante della maternità.

 

“Quando, molto tardi, chiudeva gli occhi, Fram faceva sempre lo stesso sogno.

Era la storia di poche e incerte vicende, di un’infanzia lontana che per molto tempo aveva dimenticata.

La storia di un orsacchiotto bianco, preso piccolo da Eschimesi nelle regioni polari, portato da un marinaio in un porto delle terre calde e venduto ad un circo.

L’orsacchiotto si dimostrò subito più sveglio dei suoi fratelli; meno timido, più forte, più audace. Imparava in fretta. Fece amicizia con gli uomini; capì quello che faceva loro piacere e quello che non gradivano, quello che volevano che facesse e quello che non volevano.

Divenne il famoso Fram, l’orso polare, orgoglio del circo Struschi e gioia dei ragazzi; l’orso gigantesco che si presentava solo nell’arena a svolgere il suo programma senza bisogno di domatore, che inventava ogni volta qualcosa di nuovo, e capiva lo scherzo e conosceva la pietà.

S’era dimenticato di quanto aveva lasciato lontano, nei deserti di neve e di ghiaccio, dove la notte durava sei mesi e il giorno altri sei: dove un giorno e una notte significavano un anno. Se n’era dimenticato. Mai il suo pensiero tornava lassù. Viveva fra gli uomini, era il loro amico, il loro favorito; sapeva leggere il desiderio e la gioia nei loro occhi; forse capiva anche i loro dolori nascosti, allo stesso modo che carezzava sempre e viziava i bimbi poveri della galleria.

Ora, all’improvviso, quel mondo così lontano nello spazio e nel tempo, si risvegliava in lui; e veniva a ricercarlo nel sogno.

E il sogno era sempre lo stesso.

Prima, una tenebra impenetrabile, una notte gelida e umida, in una caverna di ghiaccio. Là era nato Fram, nell’isola in mezzo al mare congelato; era nato di notte, e la notte dura la metà dell’anno. Il sole non nasce mai; nel cielo gelido brillano solo le stelle, e talora la luna. Ma per lo più regna una profonda oscurità, perché la luna e le stelle sono coperte da nubi; e la bufera trasporta vortici di neve ululando, gemendo e sibilando; il ghiaccio scricchiola: è una furia spaventosa che fa accapponare la pelle. Come tutti gli orsacchiotti, Fram era nato senza occhi; li aveva messi solo dopo cinque settimane.

Nella grotta, la tormenta non penetrava; si sentiva solo l’urlìo di fuori; ma c’era ghiaccio sotto, ghiaccio sopra, ghiaccio lucente sulle pareti. Dormiva appallottolato in un covo caldo caldo: la pelliccia dell’orsa lo copriva e lo riparava dalle punture del freddo.

Cercava col muso la sorgente di latte caldo del seno materno; si sentiva lavare dalla lingua, carezzare dalla zampa della mamma. Qualche volta si svegliava solo; l’orsa mancava. Era andata in cerca di cibo. Lui, tutte queste cose non le poteva capire. Si svegliava all’improvviso nel buio e nella solitudine; cominciava a gemere piano, a chiamare, a lamentarsi. Si spaventava della sua stessa voce. Stava atterrito e triste col muso schiacciato contro le pareti della caverna. Aveva freddo. Fuori, il ghiaccio esplodeva, la bufera rovesciava i grandi blocchi candidi; gli pareva di sentire dei passi. Si addormentava mezzo gelato. Si svegliava tardi, riscaldato, avendo goduto nel sonno una specie di felicità: la pelliccia calda era accanto a lui; accanto a lui la sorgente di latte; e una zampa morbida come la seta lo carezzava avvicinandoselo al petto. Capiva che era tornata la creatura grande e buona che lo proteggeva; e anche lui cercava di leccarle il muso, riconoscente; ma era così goffo e grullo! Allora non si rendeva conto di tutte le cure che gli prodigava la mamma, con quanta pena si allontanava da lui e che se ne andava solo quando era vinta dalla fame, in cerca di preda. (8)

 

1)      LAMENDOLA, Francesco, L'opera letteraria di Cézar Petrescu (1892-19619, in Atti della Società "Dante Alighieri a Treviso", vol. IV, 2003-2006, Treviso, 2006, pp.348-378, con relativa bibliografia.

2)      LUPI, Gino, La letteratura romena, Firenze, Sansoni-Accademia, 1968, p.

3)      Tr. it. col titolo L'ombra che scende, Roma, Ed. La Capitale, 1945.

4)      Tr. it. col titolo La Capitale, Torino, U.T.E.T., 1935; 1965.

5)      Tr. it. La vera morte di Guynemer, Firenze, Novissima Editrice, 1931.

6)      Tr. it. Balletto meccanico, Roma, Ed. La Capitale, 1946.

7)      Tr. it. La sinfonia fantastica, Firenze, la Nuova Italia, 1929.

8)      PETRESCU, Cézar, Fram, l'orso polare, Milano, Ed. Paoline, 1966 (traduz. di Agnesina Silvestri-Giorgi), p. 207.