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A noi ci ha rovinato la Tv

di Stefano Montanari - 29/01/2008

 A noi ci ha rovinati la TV. È vero che abbiamo alle spalle una storia di burocrazia partita di necessità da un impero, quello romano, che doveva per forza tenere se stesso sotto controllo, ma poi l’organizzazione si è evoluta in modo patologico, come un cancro, crescendo a dismisura senza mai eliminare le cellule vecchie e non più capaci di funzionare. E così adesso, varcata la soglia del terzo millennio, da questa patologia siamo tutti avvinghiati in un abbraccio mortale che ci toglie energia, efficienza, ricchezza, salute e, ahimé, capacità di ragionamento. Oggi viviamo in un mondo iperreale dove il virtuale è e il reale non è. Un pezzo di carta scritto, firmato, timbrato, ceralaccato, trasmesso in ogni angolo del reame diventa ope legis la verità e la fertile semente di altre verità analogamente ricavate. E la TV corrobora l’atteggiamento. Sullo schermo della scatola si animano i personaggi più improbabili che ci regalano lezioni di tutto, dalla cucina alla storia, dalle leggi umane a quelle divine, addentrandosi pure nei meandri più impervi della scienza. Così, in questa sorta di utopia dei filosofi, si ritrovano esperti di tutto, qualcuno con il martelletto in mano, qualche altro abbigliato di un camice

bianco, altri ancora in  giacca e cravatta, tutti accomodati in un salotto televisivo a pontificare o in un’aula parlamentare a scrivere quale dovrà essere la società. Non c’è nulla che questi non sappiano. Nei fatti, non c’è alcuna necessità di sapere davvero le cose, di averle, magari, scoperte o anche solo studiate. Di averle meditate. Basta una patente di autorità, naturalmente virtuale, consegnata da detentori di altrettanto virtuali patenti per poter vestire la toga di maestri di legge e di pensiero. È così che, in questo immenso avanspettacolo, si mettono sul palcoscenico scenette curiose. Sarebbe interessante se qualcuno si chiedesse come abbiano mai fatto i nostri soloni a classificare le ceneri da inceneritore come “inerti”. O il pet-coke come un combustibile del tutto innocuo. Inutile, poi, rivangare una delle ormai tante prodezze dell’ARPA, in quel caso la famigliola veneta ARPAV, che, senza aver condotto la benché minima indagine, cancella con un comunicato la diossina da Treviso, o chiedersi che diavolo facessero i cuginetti ARPA umbri a Terni dove avrebbero dovuto dare un’occhiata all’inceneritore. In fondo, li paghiamo per questo. E le varie unità sanitarie locali? Eppure è sempre tutto perfettamente a posto: un modulo, una firma, l’immancabile timbro, e tutte le porcherie del mondo si risanano d’incanto. Dopotutto le dichiarazioni dei redditi degli evasori fiscali sono in genere formalmente ineccepibili. Chi avesse voglia e carta a sufficienza per cominciare ad elencare episodi che testimonino il nostro abbandono della realtà tangibile a vantaggio del virtuale, potrebbe aggiungere un caso, senz’altro minore, anche perché coinvolge appena sette morti. Come in tutti gli ambienti di lavoro critici, anche alla fonderia Thyssen di Torino esisteva tutta una serie di adempimenti da soddisfare per accertare che si fossero prese tutte le precauzioni possibili, compatibilmente con il tipo di attività, perché non succedessero guai. E allora si manda a fare le ispezioni un tecnico dell’Asl. Poi succede quel che tutti sappiamo (l’incidente ha avuto grande pubblicità, ma sette morti sul lavoro sono, nei fatti, il bilancio di due giorni italiani) e qualcuno interroga il tecnico, il tecnico che non aveva rilevato niente di anomalo, magari anche perché non aveva mai visto una fonderia dal di dentro prima che lo mandassero alla Thyssen e, dunque, che ne poteva capire lui? Adesso ci sarà, ovviamente, chi massacrerà questo poveraccio di cui io non voglio assolutamente fare l’avvocato d’ufficio, ma chi ha mandato laggiù quel tale? Chi lo ha formato? Chi si è accertato che sapesse fare quel tipo di lavoro? Preso atto che i morti non risuscitano, chi pagherà per questo ennesimo omicidio? Forse sarà bene che qualcuno cominci a rendersi conto che un posto pubblico, qualunque esso sia, non è un sine cura che permette di ricevere uno stipendio, magari di rubacchiare qualcosa, e di andare in pensione presto presto. Forse qualcuno dovrà mettersi davanti ad uno specchio e chiedersi se il mestiere di giornalista, a qualsivoglia livello, sia davvero “un mestiere come un altro” o non comporti piuttosto la detenzione di un’arma che, se non maneggiata con coscienza, è micidiale. Forse qualcuno dovrà cominciare a capire che, TV o scartoffie non importa, siamo in balia di una corposa masnada d’incompetenti, e non vado oltre, che si supportano sinergicamente l’un l’altro e che, alla fine, la fanno sempre franca. Forse dovremmo tutti renderci conto di come un’invasione così massiccia di parassiti non possa altro che portare alla rovina dell’ospite, esattamente come avviene per legge di natura. E se ci svegliassimo?