Due libri per addentrarci nelle correnti ispirate all'etica della terra, che fondandosi su nozioni cardine delle scienze naturali quali l'equilibrio omeostatico e la conservazione della biodiversità, promuovono istanze diverse da quelle dei teorici della liberazione o dei diritti degli animali
Quando si discute di tutela dell'ambiente si dà spesso per scontato che l'unico valore sia il benessere dei cittadini: pur riconoscendo che le esigenze economiche non debbono costituire l'unico criterio di valutazione, si è comunque convinti che il fine resti l'utilizzo delle risorse naturali a vantaggio della nostra specie. Del resto, nella cultura dell'Occidente, l'altro a cui si deve rispetto, il prossimo a cui rivolgere il nostro amore restano confinati entro la cerchia dell'umano, in genere inteso in termini individuali. Nettamente separato dagli altri viventi, in virtù del possesso di un'anima, della ragione, di una vita sacra, solo l'uomo è fine in sé, diceva Kant, non può dunque essere trattato in modo strumentale o utilitario, come facciamo con le cose o con i viventi non umani. Ma è proprio inevitabile lo «sciovinismo umano», il privilegio di specie che ci rende portatori esclusivi di diritti e di rispetto morale? Per i sostenitori dell'etica ambientale altre strade sono possibili e due libri editi di recente ci forniscono mappe preziose per attraversare questo territorio ormai variegato, percorso da accenti e correnti diverse: Filosofie dell'ambiente di Serenella Iovino per Carocci e Valori selvaggi, un'antologia curata da Roberto Peverelli e edita da Medusa. L'atto di fondazione dell'etica ambientale potremmo indicarlo nella proposta di un'etica della terra che l'amministratore di foreste Aldo Leopold incluse nel suo Almanacco di un mondo semplice (1949, edito in Italia da Red).
Il principio a cui ispirare il nostro agire viene così formulato: «è giusto ciò che tende a mantenere l'integrità, la stabilità e la bellezza della comunità biotica». Tale prospettiva eco-centrica muove dalla consapevolezza della nostra appartenenza a una comunità più ampia di quella sociale, a un oikos, una casa comune, i cui abitanti includono il suolo, le acque, le piante e gli animali: la terra intera che forma, in termini ecologici, un sistema di parti interdipendenti. Gli ultimi arrivati fra gli ospiti della terra hanno imposto la logica del parassita per farsi conquistatori dell'ambiente: ma nel villaggio globale di cui siamo cittadini e non proprietari, le sorti dell'umanità sono ormai connesse al destino stesso del pianeta. Come scrive Edgar Morin, nell'Etica (Raffaello Cortina editore), sesto volume del suo percorso enciclopedico, proprio la possibilità che oggi ci è data di sconvolgere la biosfera dovrebbe indurci finalmente a un'etica della convivialità simbiotica. Del resto, nell'etica planetaria alla quale Morin ci esorta riecheggiano istanze analoghe a quelle intrinseche al «contratto naturale» di Michel Serres o al «principio responsabilità» con cui Hans Jonas esprimeva il dovere dell'umanità presente di conservare l'ambiente per le generazioni future.
Ma è soprattutto negli Stati Uniti che si è sviluppata negli ultimi decenni un'etica ambientale (Environmental Ethics, da cui prende il nome anche la rivista più significativa in questo campo di studi) nel solco dell'eredità lasciata da Leopold. Per John Baird Callicott, l'etica ambientale costituisce una sfida più radicale di quella promossa dalla sua parente prossima, la bioetica, dove l'approccio dominante resta centrato sull'individualità della persona. La lezione sistemica dell'ecologia ribalta infatti il primato degli oggetti sulle relazioni, tipico della scienza classica, ci offre della realtà non l'immagine atomistica di un insieme di enti separati, ma quella di un processo, di un campo di relazioni (immagine che Callicott ritrova nella meccanica quantistica). L'invito di Leopold a pensare come una montagna, cioè in modo integrato, tenendo conto delle complesse relazioni che si stringono in un ecosistema, prelude al motto di Gregory Bateson, «pensare come pensa la natura». Le correnti ispirate all'etica della terra promuovono, dunque, istanze diverse da quelle dei teorici della liberazione o dei diritti degli animali, sostenute dall'australiano Peter Singer o da Tom Regan; non si richiamano al criterio della capacità individuale di provare dolore, né accolgono credenze mistico-religiose, come in Albert Schweitzer, seguace del giainismo e del principio della sacralità di ogni forma di vita. Le etiche ecocentriche tendono invece a rivedere i principi dell'etica sulla base delle nozioni cardine delle scienze naturali, ad esempio la nozione di equilibrio omeostatico e di conservazione della biodiversità: la caccia può essere allora legittima, non si richiede di abbracciare il vegetarianismo, anche se un'etica eco-centrica spinta ai suoi estremi dovrebbe per coerenza auspicare, dicono i critici, la scomparsa della stessa specie umana, dannosa all'oikos per l'impatto dei suoi consumatori parassitari.
Altro rappresentante della Environmental Ethics è il pastore presbiteriano Holmes Rolston III, la cui riflessione muove dal rifiuto del vecchio principio di Protagora per cui l'uomo è misura di tutte le cose. I valori non sono semplice attribuzione del soggetto, è la natura stessa a generarli: di qui la «svolta selvaggia» (dal saggio di Rolston è tratto il titolo della raccolta di Peverelli) in base alla quale dovremmo riconoscere nella wilderness (nella natura selvaggia) la matrice originaria e il museo vivente del radicamento umano nella natura. Invece di ribadire la grande separazione tra fatti e valori, tra scienza descrittiva ed etica prescrittiva (separazione contro cui si batte da tempo anche Hilary Putnam), Rolston riconosce nell'armonica interconnessione degli enti naturali una saggezza a cui adattarsi, quasi recuperando l'antico principio stoico del naturam sequi.
«In ciò che è selvaggio si preserva il mondo», scriveva a metà dell'Ottocento Henry D. Thoreau, che sulle rive del lago Walden aveva cercato di ritrovare una esistenza non alienante, informata al contatto diretto con la natura. Il culto della wilderness è un tratto peculiare della cultura degli Stati Uniti e dell'Australia; ma, come ha notato Callicott, l'idea di wilderness nasconde in sé un elemento ideologico ed etnocentrico: è allo sguardo del colonizzatore, a cui erano familiari i paesaggi dell'antropizzazione europea, che le terre d'America appaiono selvagge, una sorta di natura originaria su cui far giocare il mito della frontiera, degli spazi aperti e incontaminati che attendono di essere conquistati, cioè in realtà strappati agli antichi abitanti, agli indigeni ritenuti ancora prossimi alla condizione animale. In fondo «è stata la civiltà a creare la wilderness», come ha scritto Roderick Nash nell'ormai classico, Wilderness and the American Mind (1967).
Ma al di là dei tratti che differenziano le diverse scuole di etica ambientale, resta in essa l'istanza di superare la logica del dominio della natura in cui lo storico delle tecniche Lynn White vide un portato della tradizione ebraico-cristiana. Il saggio di Karen Warren, che chiude la raccolta edita da Medusa, ricorda che femminilizzazione della natura e naturalizzazione delle donne sono due aspetti solidali della logica dell'oppressione: se la civiltà si misura dalla capacità di confrontarsi con l'alterità, della natura o delle culture, l'eco-femminismo sollecita a concepire se stessi a partire dallo stare in relazione con altri, inclusi i non-umani di cui dobbiamo prenderci cura e rispettare la differenza.
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