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Il Grande Risveglio dell'Iraq porterà a un incubo?

di Douglas Macgregor - 30/01/2008

 
Le perdite Usa in Iraq sono diminuite. Ma un colonnello dell'esercito in pensione sostiene che la surge e i soldi pagati dagli americani ai leader tribali sunniti potrebbero alla fine rivelarsi un boomerang – producendo maggiore instabilità e forse una guerra regionale.




Le perdite americane in Iraq sono diminuite in modo spettacolare negli ultimi 90 giorni, a livelli che non si vedevano dal 2006, e la Casa Bianca ha attribuito il calo all'aumento di 35-40.000 truppe da combattimento statunitensi. Ma uno sguardo ravvicinato suggerisce una spiegazione diversa. Oltre due anni di violenza confessionale hanno sostituito un Paese chiamato Iraq con tre Stati emergenti: uno kurdo, uno sunnita, e uno sciita. Questo ha creato quello che un milione di altri soldati statunitensi non avrebbero potuto fare: una opportunità strategica di trarre vantaggio dalla spaccatura fra sunniti e sciiti. Così, dopo che il leader sciita Muqtada al-Sadr ha deciso di contenere il suo Esercito del Mahdi rispetto agli attacchi contro le forze Usa, il generale David Petraeus e i suoi comandanti hanno iniziato a fare accordi con gli insorti sunniti, accettando di permettere a questi sunniti di gestire i loro affari e di armare le loro forze di sicurezza in cambio di una cooperazione con le forze statunitensi contro i combattenti di al Qaeda. Come parte dell'accordo, i leader sunniti hanno ottenuto sia l'indipendenza dall'odiato governo dominato dagli sciiti, che è molto più attento agli interessi di Tehran che a quelli di Washington, sia soldi – un sacco di soldi.

Concludere un accordo del genere "sceicchi in vendita" (sunniti o sciiti che siano) non è nulla di nuovo nel mondo arabo. Gli uomini che gestivano l'impero britannico pagavano regolarmente sussidi in oro a capi tribù poco docili dal Khyber Pass alle sorgenti del Nilo. (Naturalmente, i sussidi britannici erano un'inezia in confronto ai miliardi che la Gran Bretagna ricavava dalle sue colonie in Africa e in Asia). Anche se l’accordo raggiunto dai comandanti delle forze armate Usa e soprannominato il "Grande Risveglio" ha permesso all'Amministrazione e ai suoi alleati di dichiarare la surge [la nuova strategia Usa per l'Iraq basata sull'aumento delle truppe NdT] un successo, esso porta con sé conseguenze a lungo termine che sono preoccupanti, se non pericolose. La diminuzione delle perdite Usa è una buona notizia. Tuttavia, trasformare migliaia di insorti sunniti anti-americani in milizie sunnite finanziate dagli Usa non è cosa priva di costi. In realtà, i molto propagandati progressi in Iraq potrebbero portare a una situazione nella quale gli interessi americani in politica estera vengono profondamente danneggiati, e il Medio Oriente spinto in una crisi persino più ampia di quella esistente.
 

Innanzitutto, un avvertimento. Non sappiamo molto degli sviluppi all'interno dell'Iraq. Ufficiali delle forze armate che vi hanno prestato servizio di recente mi dicono di non capire veramente la complessità dell'Iraq o la natura ingannevole degli iracheni con i quali lavorano. Nelle conversazioni che ho avuto con loro, sollevano interrogativi preoccupanti che non si prestano a brevi risposte a effetto per la radio o i notiziari della sera. Il Grande Risveglio all'interno della comunità araba sunnita è la strada per la stabilità dell'Iraq, o è solo una pausa perché i sunniti si riarmino e si riorganizzino? E' un mezzo per garantire basi militari americane all'interno di uno stato vassallo sunnita emergente generosamente finanziato dall'Arabia Saudita, un tipo di cordone sanitario lungo la linea di frattura che separa il mondo arabo sunnita dall'Iran sciita e dalla sua testa di ponte nel sud dell'Iraq? Questo sviluppo significa che l'America vincerà quando i nostri ex nemici arabi sunniti riprenderanno il potere nell'Iraq centrale? Oppure – è questa la domanda più inquietante – i presunti successi di oggi saranno dei catalizzatori per guerre civili ancora più sanguinose all'interno dell'Iraq, o, peggio, per una guerra regionale più ampia?


Con gli occhi fermamente fissi sul 20 gennaio 2009 – la data in cui questa Amministrazione se ne andrà – la Casa Bianca e i suoi generali non stanno affrontando pubblicamente tali implicazioni di politica. Non sono interessati a spiegare perché l'establishment militare più potente del mondo si è ridotto a comprare i suoi nemici, in effetti sostituendo alla controinsurrezione una cooptazione basata sul denaro.


Gli ufficiali che hanno prestato servizio in Iraq avvertono che il Grande Risveglio potrebbe essere transitorio. "Gli insorti sunniti stanno seguendo un approccio 'combatti, negozia, sovverti, combatti' per ottenere ciò che vogliono", dice un colonnello. Quindi gli americani devono analizzare se le forze Usa stanno corteggiando un successo strategico a lungo termine, oppure se la surge di contanti che in questo momento è opportuna sta portando le forze Usa dentro una nuova fase di conflitto che potrebbe coinvolgere l'intera regione e creare una sequenza di eventi dall'effetto cumulativo.


In quattro anni di occupazione e guerra civile, centinaia di migliaia di arabi, fra i quali molti sunniti, sono stati uccisi, feriti, o incarcerati. All'incirca altri due milioni di arabi, la maggior parte dei quali sunniti, sono fuggiti dal Paese. Non si sa quanti altri arabi sunniti e sciiti siano morti negli ultimi due anni in conseguenza della guerra civile, ma probabilmente il loro numero è maggiore di quanto chiunque al Pentagono o al Dipartimento di Stato sia pronto ad ammettere.

Che la popolazione araba sunnita sia stanca di combattere è incontestabile, tuttavia, conquistare i cuori e le menti degli arabi sunniti dopo la violenza degli ultimi quattro anni sembra una possibilità remota. Quindi, in assenza dell'interesse comune di sbarazzarsi dei combattenti stranieri indesiderati di al Qaeda e della stanchezza delle guerra, che cosa, oltre ai soldi, sta motivando il Grande Risveglio?

Gli ufficiali che conoscono bene i leader arabi sunniti iracheni insistono che questi leader credono veramente che, se lasciati in pace dalle forze di occupazione Usa, e ricevendo un sostegno finanziario modesto dall'Arabia Saudita, sarebbero in grado alla fine di schiacciare le milizie sciite e di riprendere la loro posizione dominante all'interno dell'Iraq. Se fosse vero, il "risveglio" potrebbe essere semplicemente una opportunità per gli arabi sunniti iracheni di rafforzarsi e prepararsi - senza interferenze americane - a un inevitabile, futura prova di forza con gli sciiti, a prescindere dal fatto che le forze Usa si ritirino o meno.


Dice un ex comandante di un battaglione dell'esercito Usa che è stato molto tempo in Iraq: "La mia sensazione è che i leader arabi sunniti stiano utilizzando la pausa nei combattimenti con le forze Usa per prendere fiato, consolidarsi, e raggrupparsi in modo molto simile a quello in cui un esercito convenzionale si riposerebbe e si rimetterebbe in sesto dopo una battaglia importante. Inoltre, i generali a Baghdad chi pensano che stia prendendo di mira e uccidendo le forze di sicurezza irachene? Sono gli insorti sunniti. E' solo che al momento non stanno sparando contro di noi".


Uno dei presupposti non dichiarati su cui si basa il "risveglio" è che le forze di occupazione Usa possano mettere sul libro paga del governo statunitense insorti sunniti a migliaia in numero immane, consentendo loro di riarmarsi e di recuperare all'interno di enclavi esclusivamente sunnite mentre le forze statunitensi aprono un nuovo fronte nella guerra contro le milizie sciite. Fin qui, Tehran ha consigliato ai suoi amici sciiti in Iraq di tenere a freno i loro combattenti, nella speranza che l'occupazione Usa finisca e permetta agli sciiti di consolidare la loro vittoria. L'interrogativo adesso è se le milizie sciite continueranno a tenere un basso profilo oppure rischieranno il genere di campagna contro le forze Usa che i sunniti hanno condotto per quasi quattro anni.

La risposta nessuno la sa. Tuttavia è dubbio che Muqtada al-Sadr non farà nulla mentre le forze Usa fermano le operazioni contro i vecchi nemici degli sciiti e permettono a questi nemici di ricostruirsi. Potrebbe benissimo intensificare gli attacchi contro gli americani, aiutato dalle forze di sicurezza irachene dominate dagli sciiti. E se questo dovesse avvenire, attacchi di rappresaglia da parte delle forze Usa contro l'Esercito del Mahdi potrebbero mobilitare la popolazione sciita dietro Muqtada al-Sadr nella lotta contro i loro vecchi oppressori sunniti ba'athisti che adesso sono apertamente alleati degli americani. In una battaglia di questo tipo – la ripresa di una guerra civile – un'altra incognita è rappresentata da ciò che farà l'esercito iracheno sciita.

Quello che succede in Iraq non rimarrà in Iraq. Vale a dire, altri Stati hanno un interesse nella lotta fra sunniti e sciiti. In molti Paesi arabi, in particolare i protettorati Usa del Golfo Persico che forniscono petrolio, l'elite dominante teme l'Iran ed è contraria all'emergere di un Iraq dominato dagli sciiti, qualcosa che l'occupazione delle forze armate Usa in effetti ha creato quando si è schierata con gli sciiti contro i sunniti nel 2003. Queste elite dominanti temono di poter essere sostituite a loro volta a una a una da "fedeli" fondamentalisti islamici che si basano sulla shari'a.


Il Dipartimento di Stato di Bush sembra determinato a sfruttare tali paure, promettendo che enormi basi americane, come la base aerea di Balad, che ospita 30.000 uomini, offriranno sicurezza alle elite sunnite sotto forma di una Linea Maginot anti-iraniana che arriva dall'Oceano Indiano al confine turco. Questa potrebbe essere la mossa strategica dell'Amministrazione Bush per guadagnarsi l’appoggio (o l'acquiescenza) dei Paesi arabi sunniti confinanti nei confronti del fatto che l'occupazione dell'Iraq da parte delle forze armate Usa continui molto tempo dopo che Bush avrà lasciato la sua carica. Tuttavia, quello su cui si mettono d'accordo le elite dominanti corrotte del mondo arabo e quello che le loro popolazioni recalcitranti accetteranno sono cose molto diverse – il che significa che uno status quo che si basa sul presupposto che le truppe Usa rimangano in Iraq manca di stabilità.


Tehran sta certamente osservando con interesse gli sviluppi in Iraq. I leader iraniani si sono rivelati giocatori di scacchi assai competenti negli affari esteri, calcolando attentamente ogni mossa. Come dimostrato dalla nuova valutazione degli obiettivi nucleari iraniani della recente National Intelligence Estimate, l'Amministrazione Bush e i suoi generali sono, nella migliore delle ipotesi, giocatori di poker. Ogni rilancio e ogni bluff da parte dell'Amministrazione Bush e dei suoi generali a Baghdad è stato validamente contrastato da Tehran con alcune mosse strategiche molto ponderate – mosse il cui obiettivo era quello di coltivare stretti rapporti con Turchia, Russia, Cina, e persino con l'Europa.

Questo ci porta alla grossa preoccupazione: l'instabilità irrisolta (se non acuita) all'interno dell'Iraq potrebbe portare a conseguenze impreviste di natura strategica – diciamo, una guerra fra la Turchia e i kurdi. All'interno della Turchia, gli Stati Uniti sono visti come un amico finto, e che ha tradito gli interessi del suo saldo alleato turco. Non solo Washington in Iraq non è riuscita a porre fine all'appoggio kurdo per il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), che sostiene l'indipendenza per i kurdi all'interno della Turchia, ma gli Stati Uniti hanno anche occupato l'Iraq contro le forti obiezioni di Ankara. Questi punti di attrito coincidono con un revival islamico e un desiderio crescente all'interno della Turchia di affermare il potere nazionale. Come la Chiesa ortodossa e il nazionalismo russo, l'Islam è inestricabilmente legato all'identità, la cultura, e la storia turche.


Secondo il Pew Research Center, solo il 9 % dei turchi ha ancora una opinione favorevole degli Stati Uniti: un dato che colloca la Turchia all'ultimo posto sui 46 Paesi presi in esame nel sondaggio. Adesso i turchi considerano l'America una minaccia alla sicurezza nazionale turca. L'atteggiamento anti-americano è stato rafforzato negli ultimi anni all'interno della cultura popolare. Nel film turco di grande successo Valley of the Wolves Iraq, una forza turca numericamente ridotta combatte eroicamente un malvagio comandante delle forze armate Usa e le sue truppe. In Metal Storm, un recente bestseller di narrativa, viene descritta una guerra totale fra Ankara e Washington nel 2007, una guerra che la Turchia vince con l'aiuto dell'appoggio della Russia e di quello europeo.


L'Iran sospetta che la questione sia quando, non se, i turchi interverranno in nord Iraq. La Turchia, che vanta il più grande esercito della NATO, è il gorilla da oltre 200 chili del mondo musulmano, e l'Iran lo sa. E il sentimento anti-kurdo sta portando a una alleanza fra Iran, Turchia, e Siria, ognuno dei quali teme la crescente indipendenza kurda.


E' difficile immaginare un esito peggiore per gli Stati Uniti dell'intervento improvviso di 100.000 soldati turchi nel nord Iraq. L'intervento turco priverebbe gli Stati Uniti dell'appoggio dei soldati kurdi che adesso stanno controllando il nord Iraq contro al Qaeda e contenendo la rivolta sunnita. E gli iraniani, che sono il vero potere dietro il governo di Baghdad dominato dagli sciiti, appoggerebbero un intervento militare turco. (Anche Russia e Cina potrebbero appoggiare l'alleanza anti-kurda).

Tutto questo potrebbe benissimo incoraggiare gli insorti sunniti a riprendere la loro guerra contro le forze armate Usa. In mezzo a tutto ciò, sauditi, egiziani, e i protettorati petroliferi del Golfo potrebbero persino rivolgersi ai turchi, i leader naturali del mondo musulmano sunnita, come alternativa preferibile ai loro legami con l'Occidente e Israele. Si aggiunga a questo mix l'instabilità all'interno del Pakistan, che possiede armi nucleari. Tutto questo potrebbe portare a una situazione temuta, in cui gli Stati Uniti si trovano impantanati nel mezzo di una guerra regionale, con il potenziale per il caos in Iraq in aumento e l'influenza iraniana in Iraq che cresce.


Il che ci riporta al Grande Risveglio. Con l'avvicinarsi del 2008, tutto ciò che possiamo dire con certezza è che l'implacabile odio arabo per la presenza delle forze armate Usa in Iraq e la natura della lotta fra sunniti e sciiti renderà improbabile che la strategia "contanti in cambio di cooperazione" possa comprare una autentica stabilità per l'Iraq, tanto meno il legittimo ordine politico che è necessario. (Nel quartiere di Saidiya, a Baghdad, ufficiali delle forze armate Usa hanno sul libro paga gruppi di "cittadini preoccupati" – per la maggior parte sunniti. E l'ufficio del Primo Ministro Nuri al-Maliki ha cercato di minare questo tentativo, temendo che gli Stati Uniti stiano organizzando una forza sunnita rivale).


Dovunque operino le forze americane, nelle zone in cui si trovano la differenza si vede, ma persino ufficiali con anni di servizio in Iraq dubitano che qualsiasi cosa le forze armate Usa costruiscano per l'Iraq sopravviverà al ritiro della potenza militare statunitense. La storia convalida le loro conclusioni. Gli ultimi mille anni di storia dimostrano che l'imposizione di sistemi politici stranieri, in particolare cristiani occidentali, o di controllo sui musulmani arabi attraverso una occupazione militare non ha alcuna possibilità di durare in modo permanente.


Può darsi che la tempesta non colpisca presto. Fino al 20 gennaio 2009, esiste una alta probabilità che gli arabi prenderanno tutti i soldi che i generali sono disposti a dargli, daranno pochissimi fastidi, e aspettare il momento opportuno. Anche i turchi preferiscono aspettare che le forze Usa se ne vadano o riducano il loro numero prima di intervenire per eliminare la minaccia kurda. E l'Iran è paziente all'estremo.


Detto questo, se la prossima Amministrazione non disimpegnerà le sue forze dall'Iraq e rinnoverà la determinazione a non mollare il Paese, se non rinuncerà al mito che la missione dell'America nel mondo è quella di imporre concetti di ordine politico americani a popoli stranieri su cui grava il peso di economie sottosviluppate e società disfunzionali, tutto salta. La pazienza di sunniti e sciiti potrebbe benissimo esaurirsi, le potenze vicine potrebbero cooperare per intervenire, e questo scenario, il peggiore (oppure uno altrettanto terrificante), potrebbe alla fine verificarsi, costringendo gli Stati Uniti a combattere una guerra regionale di notevole portata lontano da casa, una guerra che non ha alcuna relazione con i suoi interessi strategici.


Nel frattempo, grazie ad analisi superficiali e a un lavoro debole da parte dei media, le domande giuste riguardo al "risveglio" non vengono fatte, e, quindi, non ricevono risposta. Se la leadership del corpo dei Marines è stata in grado di arrivare a un cessate il fuoco con i leader tribali sunniti nella provincia di al Anbar, un posto in cui negli ultimi tre anni le forze Usa avevano subito un numero sproporzionato di perdite su base mensile, era davvero necessario impegnare altre truppe americane da combattimento? Perché si poteva estendere il modello di al Anbar al resto dell'Iraq in mano ai sunniti? Oppure i generali a Baghdad hanno iniziato a fare accordi con gli insorti sunniti solo quando l'aumento costante delle perdite della surge in primavera e agli inizi dell'estate 2007 li ha costretti a farlo?


Ma il problema principale è che coloro che prendono le decisioni politiche e i generali statunitensi sono convinti che il problema fondamentale in Iraq sia la tattica, non la missione nel suo complesso: occupare e cercare di controllare un Paese arabo musulmano. Data l'opinione diffusa secondo cui gli sforzi antiinsurrezionali Usa stanno funzionando, l'arroganza imperiale ai massimi vertici dell'Amministrazione Bush, e la compiacenza del Congresso, ci sono le condizioni ideali perché l'effetto collaterale sia una guerra che un giorno potrebbe farci chiedere come noi americani abbiamo potuto essere così stupidi da occupare l'Iraq.



Douglas Macgregor è un colonnello dell'esercito in pensione e un veterano decorato della Guerra del Golfo. E' autore di tre libri sulla guerra moderna e la riforma delle forze armate. L'ultimo è Transformation Under Fire: Revolutionizing the Way America Fights. Scrive per lo Straus Military Reform Project del Center for Defense Information di Washington. Le opinioni espresse qui sono esclusivamente sue.

Mother Jones

(Traduzione di Ornella Sangiovanni)