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"Mabel tra gli Esquimesi" di Ginevra Pelizzari, un classico della letteratura per l'infanzia

di Francesco Lamendola - 31/01/2008

 

 

 

 

Il caso di Ginevra Pelizzari, autrice del fortunato romanzo Mabel tra gli Esquimesi, è piuttosto emblematico di una certa disattenzione della critica letteraria nei confronti degli autori di libri cosiddetti "per ragazzi". Quella stesa critica, si badi, che è larga di elogi verso i cosiddetti "classici", specialmente stranieri; e che non si rende conto che i classici non formano una sorta di circolo esclusivo, chiuso a riccio verso ogni possibile nuovo arrivato, ma una categoria in movimento, sempre aperta ad accogliere validi apporti.

Ben lo intuisce la Casa editrice Fratelli Fabbri di Milano che nel 1961, nella collana Libri magnifici che già ospita le opere di autori come Mark Twain, L, M. Alcott, F. Molnàr, H. Malot, C. Dickens e altri, pubblica Mabel tra gli Esquimesi di una scrittice pressoché sconosciuta, ma di talento: Ginevra Pelizzari. È un successo folgorante, di pubblico e di vendite; molto meno di critica, nonostante i suoi indubbi meriti letterari.  Si può dire che, negli anni '60, non vi sia quasi biblioteca pubblica che non acquisti il libro, arricchito dalle belle illustrazioni a colori del pittore Bartoli; la sua copertina che raffigura la scena del rito propiziatorio della caccia, con gli Esquimesi in cerchio attorno al fuoco e Mabel, vestita da caribù, che si muove sotto la minaccia simbolica dell'arco di Icoluki, con la freccia incoccata, rimane impresso nell'immaginario di migliaia di persone della generazione degli anni Cinquanta.

Quel che ha nuociuto alla memoria di quest'opera, forse, è stato il rapido cambiamento del gusto e degli stili di vita sopravvenuti dopo il cosiddetto boom industriale; in capo a pochi anni i libri, i film e i programmi televisivi che veicolavano esplicitamente valori morali quali la bontà, la lealtà, il senso della giustizia, sono apparsi come relitti di una pedagogia troppo moralistica, troppo all'antica. E sono stati dimenticati in fretta, a vantaggio di opere inneggianti una filosofia di vita più legata al carpe diem, più maliziosa e scanzonata nei confronti el mondo e, soprattutto, più agnostica di fronte alle grandi questioni etiche. Se sia stato un bene o un male, ciascuno potrà giudicarlo in base alle proprie convinzioni; qui ci limitiamo a registrare il veloce mutamento di costume, che offre la sola possibile spiegazione dell'oblio in cui sono caduti tanti romanzi per la gioventù, a cominciare da quello di cui ci stiamo occupando.

Oltre a Mabel tra gli Esquimesi, Ginevra Pelizzari ha legato il suo nome ad altre opere letterarie: alcuni libri per bambini (1), sia prima che dopo il suo maggior successo, e alcune versioni per la gioventù di classici per l'infanzia e l'adolescenza: le Novelle di Andersen e il romanzo Capitani coraggiosi di Rudyard Kipling. (2) Oggi la scrittrice è ricordata da un Concorso di pittura, giunto alla quinta edizione, L'isola che non c'è.

Nel suo romanzo più famoso la Pelizzari dimostra doti di scrittura piana e avvincente; specie nella seconda parte sa svolgere e intrecciare i fili delle vicende parallele dei protagonisti, che si perdono e infine si ritrovano dopo molte peripezie. Certo, si notano alcune ingenuità e alcune concessioni a un gusto un po' retorico e, come oggi si direbbe, eurocentrico (Isumatak, per dirne una, è un capo tribù Esquimese alto e slanciato che, per ammissione della stessa autrice, non somiglia per nulla agli  uomini della sua razza); ma sarebbe ingenerosa - e antistorico - voler giudicare il libro con i canoni dei nostri giorni. Il gusto, come dicevamo, è cambiato in fretta, sia per quanto riguarda lo stile che per quanto riguarda i contenuti; e, sia detto fra parentesi, non è certo che sia cambiato sempre in meglio.

 

Mabel è una ragazzina bionda, dolce e sensibile, figlia di emigranti italiani in California. Orfana di madre, segue quasi sempre suo padre - il gigantesco Tommaso Neri, detto Tom Black - con la Santa Maria, nelle sue battute di pesca nell'Artico. Il la vicenda ha inizio appunto con la piccola baleniera che, sballottata dalle onde del mare in tempesta, sta per fare naufragio nella Baia di Hudson. Quando il timone cede e una grande falla prodotta da un iceberg, già riparata a suo tempo, si apre nuovamente e l'acqua irrompe nella stiva, i marinai comprendono che la nave è perduta e, indossati i giubbotti salvagente, si gettano in mare. Anche il capitano Tom Black si tuffa con la piccola Mabel e lotta a lungo contro le onde, sempre sorretto dalla speranza di toccare la riva bassa e sabbiosa della baia; ma alla fine un'ondata glie la porta via e li separa irreparabilmente. Semiaffogata, intirizzita, esausta la bimba cerca di tenersi a galla e di continuare a nuotare, alla fine, svenuta, è gettata a riva dalle onde. È la fine di giugno, e il giorno polare dura ventidue ore; anche la notte è chiara e illuminata da una luce crepuscolare.

Qualche ora dopo il dodicenne Icoluki, figlio del capo di una tribù di Esquimesi, passando lungo la riva con il suo forte cane Ighiu, scorge la fanciulla e, dopo averla sottratta alle onde, la porta, sempre svenuta, al suo villaggio. Il padre del ragazzino, Isumatak, è momentaneamente assente: si è recato a Fort Churchill per vendere le pellicce cacciate durante l'inverno e per acquistare tabacco, tè, farina per la trib. In compenso nella tenda c'è sua madre, la buona Anaki, che frizionando il corpo gelato di Mabel e fornendole un mobido e caldo vestito di caribù, la fa rinvenire. Mabel, in preda alla febbre, chiede insistentemente di suo padre; e Icoluki torna in riva al mare per cercarlo: ma invano. La ragazzina è estremamente angosciata; per fortuna al villaggio c'è, in quel momento, un missionario francese, padre Alfonso, che la consola e la assiste con affetto paterno, incoraggiandola a sperare che Tom, prima o poi, verrà trovato.

Per Mabel ha inizio uno strano periodo della sua vita, il periodo esquimese. Presto si ristabilisce in salute e si accompagna volentieri a Icoluki, ragazzo dall'animo semplice e generoso; intanto comincia a familiarizzarsi con il tipo di esistenza che conducono i suoi ospiti. Una cosa, però, non riesce ad accettare: la legge crudele che domina in quelle regioni del Nord, ove la dolcezza viene scambiata per debolezza e la bontà sembra a volte un lusso superfluo. In particolare, un giorno prende le difese di Ighiu che, quasi impazzito per la fame, ha rubato un pezzo di carne al suo padroncino il quale stava per ucciderlo a frustate. Curato dalla bimba e da padre Alfonso, il cane lentamente guarisce e si affeziona a quella creatura che, per la prima volta nella sua vita, ha mostrato della pietà nei suoi confronti.

Un giorno torna al villaggio Isumatak (che significa Colui-che-pensa, per la sua intelligenza), accolto con gioia da tutti. La sua indole si rivela subito nobile e aperta ed egli decide di adottare Mabel come una figlia. Con lui e con gli altri viene condotta a una battuta di caccia alla foca; e lì ha la rivelazione che, in quelle regioni inospitali, le leggi della sopravvivenza passano sopra al sentimento ella pietà e che per vivere bisogna uccidere. Commovente è la pagina in cui la Pelizzari descrive l'uccisione di una femmina di foca e del suo cucciolo da parte dei cacciatori esquimesi.

 

"Due foche infatti, due grossi maschi, erano usciti allora allora dall'acqua. Girarono attorno i loro occhi bovini con sospetto, annusarono l'aria: non sentirono l'odore dell'uomo perché il vento spirava dal mare, non videro i cacciatori sdraiati a terra e confusi con l'arena. Dietro i due maschi avanzarono le femmine e un piccino. I loro corpacci dalle zampe a forma di pinne si movevano con lentezza e con pesantezza, ogni movimento sembrava costasse loro pene indicibili.

"Non si allontanarono molto dall'acqua, pronte a tuffarsi a capofitto al primo cenno di pericolo.

"Mabel guardava i bestioni sdraiati al pallido sole e i cacciatori ancora immobili come statue. Distingueva innanzi a tutti Isumatak, per la lunghezza della persona: lo vide ad un tratto spostarsi, strisciava con quel dondolio che caratterizza l'andaiura ella foca. I compagni lo seguirono, imitando ogni suo movimento. Le foche non badavano ad essi: erano tutte intente a godersi il sole. Il cuoricino di Mabel batteva, batteva: sarebbe bastato un suo rido per salvare i cinque animali; aveva già aperto la bocca per urlare quando si ricordò le parole di padre Alfonso: l'Esquimese non poteva vivere senza cacciare la foca.

"Tacque e attese. Gli uomini guadagnavano terreno lentamente: eccoli, erano giunti a pochi passi dalle foche. Uno dei maschi li udì, gettò un muggito di avvertimento e si tuffò nell'acqua. Troppo tardi gli altri cercarono di seguirlo: quattro arpioni furono gettati con violenza, e tre colpirono il segno. Una femmina, la madre del piccino, non era stata ferita. Con un muggito di dolore la povera bestia, di solito timida e paurosa come tutte le foche, si slanciò in avanti per difendere il suo piccolo ferito, a costo della propria vita. Per la sua creatura la madre sfidava un pericolo terribile e rinunciava alla salvezza che le offriva il mare. Muggendo di furore cercò di avventarsi contro i cacciatori: era grottesca nei suoi movimenti, sublime nel suo amor materno.

"Non ebbe modo di fare che un breve tratto. Fu colpita brutalmente dall'arpione nel mezzo della colonna vertebrale. Si fermò di schianto, volse il capo dagli occhi morenti verso il figlioletto, pure agonizzante,, e si accasciò sull'arena. Mabel stretta a Ighiu piangeva dolorosamente: aveva intuito tutta la tragedia di quelle due bestie che si amavano, che erano felici, e per le quali violentemente, in pochi istanti, tutto era finito.

"I cacciatori si allontanarono lenti, ridendo e chiacchierando; Mabel li seguì a distanza, mesta e pensierosa. Giunse al villaggio subito dopo gli uomini e si sedette per terra, accanto al cane." (3)

 

La vita al villaggio prosegue insieme all'adattamento di Mabel, fra una gita in kaiak lungo i fiumi e una battuta di caccia al caribù; ma la fanciulla dall'animo gentile non riesce ad accettare sino in fondo la dura legge della sopravvivenza. Il suo senso di fratellanza quasi francescano verso tutti gli animali, la spinge a liberare una lepre caduta nella trappola di un cacciatore: e ciò provoca il risentimento implacabile di questi, l'indiano Occhi di fuoco, che già nutriva un vecchio rancore nei confronti di Isumatak e che aveva avuto un incidente con Ighiu, che lo aveva morsicato per difendere Mabel e Icoluki, da lui minacciati.

Un giorno, mente Mabel è da sola nella foresta in cerca di lamponi e di mirtilli, Occhio di fuoco la rapisce e la porta con sé, al suo accampamento.

Quando Icoluki si rende conto che a Mabel dev'essere accaduto qualcosa, si reca dall'angecok, lo stregone, per avere una traccia; ma non ottiene alcun aiuto; allora, con giovanile incoscienza, si mette a cercarla da solo, senza nulla dire ad alcun altro. Mabel, intanto, supplica invano il suo rapitore di renderle la libertà: questi ha deciso di venderla a un capo indiano, non tanto per il guadagno che conta di ricavarne, quanto per vendicarsi delle presunte offese ricevute dalla famiglia di Isumatak. Ma Icoluki, con l'aiuto di Ighiu che ha fiutato la traccia, dopo una lunga marcia ha raggiunta a sua volta l'accampamento indiano ove la sua sorella adottiva è stata condotta, riesce a introdursi nella tenda, a liberarla e a condurla via con sé. I due ragazzi e il cane fuggon,in piena notte, nella foresta; sfuggono a un orso grigio, e all'alba s'imbattono in Isumatak che si è messo alla loro ricerca. Il capo esquimese vorrebbe vendicarsi uccidendo i rapitori, ma questi gli sfuggono; l'avventura di Mabel, comunque, si è risolta nel migliore dei modi.

Sopraggiunge l'inverno, con il gelo e le nevicate abbondanti. La tribù si costruisce gli igloo con i blocchi di ghiaccio e Isumatak, per tenere alto il morale dei suoi membri, indice una grande festa invernale che deve propiziare la prossima stagione di caccia. Il malvagio stregone, infatti, ha profetizzato che gli spiriti della foresta, adirati per la presenza del missionario bianco, faranno sparire la selvaggina e la tribù rischierà la morte per fame. Ma ecco la descrizione della festa invernale, piena di colore di vita:

 

"Finalmente il canto cessò e il rullo dei tamburi pure. Cominciarono le danze dei singoli. Icoluki e alcuni suoi amici eseguirono quella della foca. Si sdraiarono sul pavimento, poi cominciarono a muovere il busto, col caratteristico dondolìo della foca; si mossero così alquanto goffamente imitando alla perfezione l'andatura lenta ed inelegante della bestia. Soffiavano, sternutivano, muggivano con tanta maestria che l'assemblea scoppiò a ridere sgangheratamente. Terminarono il balletto fingendo di tuffarsi nel mare, per dare una maggior evidenza al tuffo, Icoluki, da quel monellaccio che era, fece un balzo contro quelli seduti sulle larghe piattaforme e arrivò su essi con le mani tese in avanti e il capo in giù. Le donne strillarono, e gli uomini imprecarono, nessuno si fece alcun male: Isumatak però afferrò il rampollo per un orecchio e lo prese a pedate con poca gentilezza, sì che il povero Icoluki strillò come una gallina spennata.

"Mabel rideva a più non posso re come lei ridevano tutti coloro che non avevano subito il colpo da parte di Icoluki, ché gli altri, brontolando corrucciati, avrebbero piuttosto aiutato Isumatak a dare una lezione al monello.

"Ora toccava a Mabel: la sua svelta personcina, per quanto infagottata nelle vesti ampie, era graziosissima.

"La nobiltà della razza a cui apparteneva splendeva nel viso dall'ovale puro, roseo come il petalo di un fiore di pesco; in esso brillavano i grandi occhi azzurri, che solo alla razza bianca appartengono. La più bella tra le bimbe esquimesi non avrebbe potuto esser paragonata a lei nella grazia, nell'agilità, nella vivacità dei movimenti.

"Giunta nel mezzo della sala, fece un bell'inchino che venne interpretato come il principio della danza. Poi cominciò la fantasia: si avanzò piano imitando la marcia cauta, prudente del caribù; intanto volgeva la testa ora a destra ora a sinistra, quasi a voler intercettare i suoni più lontani e più deboli, poi fissò un punto: là era il nemico. Si diede allora a correre, veloce e leggera. Dopo aver corso due o tre volte attorno alla stanza, si fermò: il pericolo pareva scongiurato; si diede allora a trotterellare lietamente fingendo di brucar l'erba. Ma ecco di nuovo il nemico: Icoluki, il cacciatore, giungeva a passi felpati con l'arco teso e la freccia incoccata. Il caribù si vide perduto: balzò in avanti, seguito sempre più dappresso dal fanciullo, fin che la freccia lo colpì. Qui era il punto tragico della danza; quando la freccia, ben s'intende smussata, toccò il caribù, questi diede un balzo in avanti quasi più velocemente volesse fuggire, ma la ferita doveva essere mortale: cadde sulle ginocchia e si diede a lambire la parte colpita, poi cercò di rialzarsi. Impossibile. Gli occhioni di Mabel pieni di un'angoscia immensa si rivolsero verso l'alto quasi in una suprema invocazione. Frattanto il cacciatore giungeva con il coltello sguainato nella mano, un'aria di ferocia giubilante nel volto. Gli occhi supplichevoli si volsero verso di lui, le mani si tesero in muta preghiera, ma il coltello non si arrestò e colpì la vittima: con un singhiozzo il povero caribù cadde disteso a terra. Rialzò la testa ancora a guardare il cacciatore quasi a rimproverargli la crudeltà, poi, dopo un ultimo sussulto, rimase immobile.

"L'imitazione era stata perfetta: Mabel aveva visto morire tanti caribù, in quella giornata memoranda sul fiume Kazan, che ora senza difficoltà poteva imitare le loro tragiche movenze. Si alzò con le lacrime agli occhi tanto s'era immedesimata nella parte, mentre l'assemblea scoppiava in grida incomposte: aveva seguito con appassionata attenzione, con interesse grandissimo la fantasia eseguita dalla fanciulla, che, con la sua realistica interpretazione, aveva dato punti ai più abili danzatori della tribù. Isumatak la sollevò fra le braccia ridendo e la tenne sospesa così, sopra la sua testa, con orgoglio, poi la fece seere accanto a sé tenendole una mano sulla spalla." (4)

 

Ma l'inverno, il terribile inverno artico, porta con sé la carestia. Con una temperatura di quaranta gradi sotto zero, Isumatak è costretto a praticare la caccia alla foca sul ghiaccio, mentre la tribù soffre terribilmente la fame. Negli igloo regna sovrana la desolazione; molti Esquimesi, imprevidenti, non si sono curati di metter da parte delle scorte, ed ora è necessario uccidere tutti i cani per sfamare i disgraziati - tutti tranne Ighiu, che ha mostrato di essere un cacciatore di gran valore; e i cani dello stregone, che nessuno osa toccare per paura delle sue maledizioni.. Anche alla porta di Isumatak viene a bussare la morte: la buona Anaki, dopo aver ceduto a un assalto di isterismo artico, muore, confortata da padre Alfonso; le sue ultime parole sono di affetto e i sollecitudine per il figlio e il marito. Lo stregone, a causa del missionario, rifiuta di partecipare alla cerimonia funebre e ripete a Isumatak, ma invano, l'esortazione sbarazzarsi di padre Alfonso.  Poi, durante al termine del mesto rito, Ighiu strappa il guinzaglio al padroncino e fugge, forse intuendo che il suo destino sarebbe di finire ucciso per placare la fame degli uomini.

Quella notte Mabel e Icoluki, ridotti agli estremi dalla fame, riescono a rubare uno dei cani dell'angecok; e Isumatak, dapprima adirato, ne distribuisce poi le carni a ciascun membro della tribù. Poi, renendosi conto che attendere ancora vorrebbe dire perdere le ultime forze, il capo esquimese parte dal villaggio per tentare un'estrema battuta di caccia. Durante la sua assenza si delinea, però, una drammatica congiura: lo stregone sobilla quegli uomini denutriti e disperati, persuadendoli che la causa delle loro disgrazie è la presenza dello "stregone bianco" e della "piccola strega bionda". Solo uccidendoli la tribù otterrà di placare la collera di Sedna, e questo farà ritornare la selvaggina e i tempi felici. Per caso, Mabel ha ascoltato i preparativi della congiura e avverte il missionario; questi decide di rimanere al villaggio, mentre Mabel e Icoluki, scortati dallo zio di questi, Imoloki, correranno ad avvertire Isumatak del pericolo che incombe su di loro. Il terzetto è appena partito, che padre Alfonso si trova ad affrontare la collera di tutta la tribù.

 

"Alzò il braccio in segno d'addio e volse loro decisamente le spalle tornando verso il suo iglu. Si inginocchiò dinanzi al crocefisso e pregò a lungo per i suoi amici e per le anime di coloro che si accingevano ad ucciderlo.

"Una voce lo distolse dalla preghiera.

"- padre, padre! - qualcuno lo chiamava dal di fuori.

"Si alzò rivolgendo uno sguardo al Redentore per chiedergli aiuto e forza e uscì all'aperto, dove alcuni Esquimesi pallidi e macilenti lo attendevano armati di fiocine: in mezzo ad essi l'angecock lo guardava con occhio sinistro in cui brillava la malvagia gioia dell'uomo perverso che sta per soddisfare il suo odio.

"Lo stregone si avanzò verso il missionario e gli disse:

"- Sedna vuole la tua morte.

" - Chi è Sedna? Non la conosco.

"- È la dea del mare e degli animali. Per colpa tua ora moriamo di fame: tu non ami Sedna, dici di non conoscerla e gli animali non ci vengono più mandati da lei.

"- Angecok, tu sai che la carestia fa ogni anno la sua comparsa in queste terre.

"- Tu ne hai la colpa.

"- Io? Tu menti, angecok.

"- Il tuo sangue calmerà Sedna e richiamerà gli animali; noi torneremo a cacciare e non morremo di fame - così dicendo si avanzò di un passo verso il missionario e lo afferrò per un braccio.

"Gli altri Esquimesi, che erano rimasti timorosi e incerti, si rinfrancarono e, con le fiocine in mano, circondarono il prete: negli occhi torbidi brillava la gioia di uccidere.

"- Fratelli Esquimesi, - sussurrò il missionario - io so che l'angecok mente; non ascoltatelo: pregate invece Dio che ci aiuti in questo terribile momento!

"Un urlo furioso uscì dal petto dello stregone, che si avanzò minaccioso e con la fiocina colpì fortemente il capo del missionario. Questi stralunò gli occhi e cadde riverso sulla neve, che rosseggiò del suo sangue." (5)

 

Intanto, sotto un cielo grigio come la cenere, senza armi e senza viveri, i due ragazzini con Imoloki stanno procedendo nella loro marcia disperata fra il ghiaccio e la neve. Per fortuna, lungo la strada riescono ad uccidere prima un gabbiano, poi una volpe; ma la stanchezza, la fame e lo scoraggiamento mettono a durissima prova il coraggio della piccola Mabel. Isumatak, frattanto, seguendo la pista di una volpe ha individuato le racce di un orso bianco che la sta seguendo: terribile avversario, ma, forse, fonte di salvezza per la tribù affamata. In un drammatico scontro, dopo che ilo ha mancato con il fucile, Isumatak affronta l'orso armato del solo coltello e sta già per soccombere, quando gli giunge l'aiuto provvidenziale del bravo cane Ighiu, sbucato fuori da chissà dove, che vola coraggiosamente al soccorso del suo padrone.

 

"In un attimo [l'orso] gli fu vicino e l'uomo sentì l'alto fetido avvolgerlo e soffocarlo, vide gli occhietti furibondi scintillare minacciosamente, e infine il suo corpo fremette al contatto di quello del mostro. Alzò il coltello e cercò di immergerlo nel collo della bestia: la folta pelliccia attenuò il colpo che la mano malferma di Isumatak aveva vibrato. L'Esquimese cercò di sfuggire alla stretta delle zampe formidabili, ma scivolò sulla neve indurita e cadde; prontamente si rialzò, mentre l'orso cercava di stringerlo nella sua stretta per spezzargli la colonna vertebrale; indietreggiò tenendo alzata la mano armata e seguendo con gli occhi spalancati  e atterriti i movimenti del nemico.

"L'orso si era rizzato sulle zampe posteriori e barcollando e dimenando il capo si avvicinava di nuovo a lui grugnendo e mostrando le zanne giallastre in un riso feroce. L'uomo avvezzo e rotto ad ogni fatica, ad ogni pericolo, in quell'istante ebbe paura perchè si sentiva troppo debole per un simile avversario: ebbe paura per sé e pèer tutti coloro i quali avrebbero atteso invano il suo ritorno, che per essi avrebbe potuto significare la vita. Allora, inconsciamente, lanciò il grido d'aiuto che s'usava nella sua tribù: ebbe appena il tempo di emettere il grido che l'orso gli fu addosso col suo enorme corpaccio e lo afferrò nell'abbraccio mortale.

"Isumatak conficcò il coltello dalla larga lama tagliente, una, due, tre volte, poi sentì che il respiro gli mancava per la pressione fatta al suo torace, vide una nebbia rossa davanti agli occhi, le forze lo abbandonarono ed egli cadde in ginocchio.

"In quell'istante una massa grigiastra balzò agilmente al suo fianco e poi alla gola dell'orso, e questo abbandonò la sua vittima per occuparsi del nuovo venuto. Isumatak ebbe così modo di vedere il suo salvatore: era Ighiu, un Ighiu magro, feroce, che,, attaccato alla gola dell'altro animale, non lasciava la preda; le sue mascelle d'acciaio avevano colpito giusto e lentamente andavano avvicinandosi alla vena iugulare che il folto pelo proteggeva. L'orso dondolava la testa e con le zampe possenti stringeva il corpo snello del cane cercando di abbassarsi, tanto da afferrare con i denti una parte qualunque della bestia.

"Isumatak, rimessosi alquanto grazie all'aiuto provvidenziale, balzò di nuovo in piedi e con il coltello colpì ripetutamente l'orso, che abbandonò la preda urlando di dolore e poi di schianto cadde al suolo.

"L'Esquimese, non più sostenuto dalla forza nervosa ora che il pericolo era cessato, si accasciò ansimando accanto alla vittima; Ighiu gli stava vicino e lo guardava con occhi fosforescenti, la coda fra le gambe, le orecchie  dritte, la testa china verso di lui, col sangue che gli sgorgava dalle ferite, per fortuna lievi: sembrava aspettasse una parola di benvenuto o una amichevole manata sulla schiena. Isumatak lo guardò non appena il suo cuore riprese a funzionare normalmente e il respiro ritornò regolare, senza affanno: gli pose affettuoso una mano sul capo e gli solleticò lievemente le orecchie in segno di amicizia. Il cane socchiuse gli occhi e dimenò la coda, arricciando il labbro superiore quasi volesse azzannare il viso el padrone che, alzato verso di lui, gli sorrideva.

"- Mio bravo Ighiu, mi hai salvato la vita… Forse hai fame. A te! - si alzò e principiò a scuoiare la bestia enorme che puzzava di selvatico, mentre il cane lo guardava con occhi intenti e bramosi." (6)

 

Intanto, una bufera di neve si è scatenata sul terzetto che si era messo alla ricerca di Isumatak; e Mabel, rimasta indietro, sta per soccombere al gelo e allo sfinimento, quando viene soccorsa dal bravo Ighiu, che l'aiuta a riprendersi e la riscalda col suo mantello. A questo punto la narrazione fa un passo indietro e ci riporta al momento in cui padre Alfonso è stato colpito dall'angecok ed è caduto a terra, sulla neve. La sua ferita non è grave; ma gli Esquimesi, per ordine, dello stregone, lo conducono legato fuori del villaggio a morire di freddo o divorato dai lupi, per placare la collera della dèa Sedna. All'alba, mentre il delirio lo sconvolge, ecco giungere un uomo gigantesco, che scioglie le sue funi e lo rianima con dell'acquavite: è Tom Black, il padre di Mabel, che tutti ormai (compreso il lettore) credevano morto. Dopo il naufragio della Santa Maria, era stato gettato a riva non lontano da Mabel; ma i due non si erano rivisti, e Tom era stato soccorso da un'altra tribù di Esquimesi. Ora ha ucciso un'alce, con il quale è in grado di soccorrere tutta la tribù affamata di Isumatak; e, poco dopo, torna al villaggio di questi, accompagnato dal missionario. Lo stregone ne è indignato e di nuovo incita i compagni all'omicidio; ma, quando padre Alfonso chi è l'uomo che lo accompagna e Tom, dopo aver distribuito alcuni grossi pezzi di carne, conduce gli uomini a recuperare il resto dell'alce, i sentimenti di tutti si piegano in favore dei nuovi arrivati. Così i due bianchi, accompagnati da due Esquimesi, partono senza perder tempo alla ricerca di Mabel.

Al termine di una marcia angosciante, Tom e il sacerdote raggiungono Imoloki e suo nipote, ma solo per sentirsi raccontare che, durante la bufera, essi hanno smarrito la fanciulla e ora non sanno più che fine ella abbia fatto. Reprimendo un moto di disperazione, Tom e padre Alfonso, con la guida di Imoloki e di Icoluki, riprendono la marcia alla ricerca di Mabel. Forse non la troverebbero mai, se Ighiu non li raggiungesse e non riuscisse a far capir loro che devono seguirlo. Segue il gioioso e quasi incredulo ritrovamento del padre e della figlia amatissima. Ma c'è ancora qualcosa che manca al sospirato lieto fine: quale sarà stato il destino di Isumatak? Suo figlio vuole assolutamente andare a cercarlo e il gruppo decide di dividersi: padre Alfonso con Imolokii accompagneranno Icoluki nella ricerca, mentre Tom con Mabel, ancora troppo debole, ritornerà al villaggio. Ma non ce n'è bisogno: il mattino dopo, annunciato da Ighiu, anche Isumatak fa ritorno e tutti si rimettono in marcia verso il villaggio.. Durante la notte, mentre fanno sosta in un igloo improvvisato, vengono svegliati da un baccano inquietante.

 

"Durante le ultime ore della notte Isumatak fu svegliato da un ringhio di Ighiu e si sollevò a mezzo ad ascoltare: sentì alcuni ululati sinistri, poi un urlo umano che lo fece balzare in piedi. Aveva ancora accanto a sé il fucile di padre Alfonso, lo afferrò e si lanciò all'aperto.

"Una pallida luna che stava per tramontare illuminava il campo di neve, ed egli vide distintamente un uomo in ginocchio che si difendeva contro sei grossi lupi: uno l'aveva azzannato ad un braccio, e la fine del disgraziato pareva prossima. Isumatak, generoso e pieno di coraggio, pensò di salvare quel poveretto: lanciò un grido, e a quel richiamo due lupi gli corsero subito contro affamati e feroci. L'Esquimese li freddò uno dopo l'altro, poi di corsa si avviò verso il tragico gruppo, seguito da Ighiu.

"Trasse dalla guaina il suo coltelo da caccia dalla lama affilatissima e lunga, e si lanciò addosso ad una delle belve, mentre Ighiu ne assaliva un'altra. Il lupo preso di mira da Isumatak era quello che aveva azzannato il braccio sinistro dell'uomo; in un attimo, vedendo  il nuovo nemico, lasciò la presa e gli si avventò contro mirando alla gola, ma sbagliò il colpo e addentò la pelliccia del giacchettone. Fu trafitto da quattro colpi e gettato lontano.

"In quel momento, gli occhi di Isumatak incontrarono il viso dell'uomo, illuminato dalla luna; ebbe un sussulto: Occhio di fuoco, il suo feroce nemico, gli stava dinanzi! Ebbe per un istante il pensiero di abbandonarlo al destino, ma poi la sua generosità ebbe il sopravvento ed egli si slanciò contro un alro lupo, col coltelo in pugno.

"l'Indiano, con un'arma troppo corta, mal si difendeva, e fu ad un tratto afferrato alla gola dalla belva rimasta accanto a lui. Ebbe un urlo che finì in un rantolo, Isumatak l'udì e sentì un brivido corrergli per le ossa: quell'uomo era condannato. Si sbarazzò di altri due lupi, poi si inginocchiò accanto all'Indiano, mentre Ighiu metteva in fuga l'ultima belva.

"Occhio di fuoco, nonostante il valore e la generosità  di Isumatak, moriva: con la testa arrovesciata sul braccio dell'Esquimese, respirava a fatica; i suoi occhi orlati di rosso erano fissi in quelli impietositi del suo soccorritore. Non poteva parlare, e solo gemiti e sangue uscivano dalle sue labbra. "Intanto, dall'iglu erano usciti gli altri uomini che, svegliati dall'ultimo urlo del morente, correvano a vedere, pieni di angoscia, che fosse successo.

" Padre Alfonso si inginocchiò egli pure accanto al moribondo, cercando di confortare i suoi ultimi istanti; gli teneva una mano fra le sue e gli mormorava parole di fecee di speranza che l'altro appena ascoltava. Ad un tratto, il respiro dell'Indiano divenne più affannoso, la sua mano sembrò cercare qualcosa nell'aria, poi ricadde immobile sul terreno.

"Fu scavata una fossa nella neve per il nemico degli Esquimesi che il gran cuore di Isumatak aveva cercato invano di salvare." (7)

 

Tornati al villaggio, Isumatak e gli altri sono accolti con giubilo dagli Esquimesi; il capo vorrebbe condannare a morte l'angecok, ma per intercessione del missionario gli risparmia la vita e lo scaccia in esilio perpetuo. Intanto ritorna la bella stagione e la tundra torna a verdeggiare. Mabel si gode l'amicizia delle persone a lei care, ma il momento della partenza si avvicina; Tom, suo padre, ha deciso di comprare una nuova baleniera e di tornare, una volta o l'altra, a pescare nella Baia di Hudson. Ma prima vuole rientrare in Italia, suo paese natale, e naturalmente vuole portare con sé la fanciulla. Isumatak e Icolukili accompagnano sino a Fort Churchill, dove inizia la ferrovia che li avrebbe portati a Winnipeg e, di lì, in California, prima della partenza per l'Europa.

 

"Dormirono a Churchill, e la mattina seguente si recarono alla stazione donde sarebbe partito il treno per Winnipeg.

"Isumatak era molto nervoso, e i suoi occhi non si stacavano da colei che aveva considerato come figlia. Sentiva quanto fosse giusto che Mabel tornasse fra i suoi fratelli, i bianchi. Ma non sapeva darsi pace al pensiero di perdere quella dolce creatura che gli era tanto cara.

"Icoluki, con l'incoscienza felice dell'infanzia, era tutto intento ad ammirare quelle case di pietra mai viste prima, quelle carrozze che andavano senza bisogno di cani, quei grossi mostri di ferro che si movevano fischiando e sbuffando, e non pensava all'imminente distacco. In stazione osservava con gli occhi pieni di meraviglia i treni, tenendo Mabel per mano.

"L'ora della partenza si avvicinava, e Isumatak, che aveva portato con sé Ighiu, si accostò alla bimba con aria solenne, dicendo:

"- Figlia, accetta un dono da tuo padre: ecco il cane che tu ami!

"- Oh, il mio Ighiu! - Mabel posò la mano sulla testa dell'animale. - Grazie, Isumatak! Ed io che darò?… Amirink [uno degli altri due cacciatori esquimese che li avevano accompagnati], taglia con il tuo coltello nuovo! - e tese uno dei suoi riccioli biondi all'Esquimese, che lo recise.

"- Ecco, padre, non ho altro - disse con gli occhi pieni di lacrime.

"Il buon Isumatak avvicinò il ricciolo morbido e lucido alla guancia, poi sollevò la bimba tra le braccia e, per la prima volta in vita sua, si provò a dare un bacio, appoggiandole le labbra sulla fronte.

"Mabel gli gettò le braccia al collo e pianse dirottamente.

"- mai dimenticherò te ed Icoluki!

"Si staccò dall'Esquimese e andò presso il fanciullo, lo abbracciò e gli disse ra il pianto ed il riso:

"- Ci rivedremo, sai? Io tornerò con la baleniera del babbo e ti porterò tanti bei doni, vedrai!

"- Signori, in vettura! - gridò un ferroviere passando.

"- Arrivderci, Isumatak, arrivederci, Icoluki! - sussurrò con voce tremante e con la bocca che le si piegava agli angoli. - Amirink, Tarek, mi ricorderò amche di voi. Salutate ancora padre Alfonso!

"Anche Neri salutò molto commosso, ringraziò Isumatak per tutto quello che aveva fatto per la figlia, baciò Icoluki.

"- Torneremo - promise.

"Salì in treno con Mabel. Ighiu li raggiunse, poi si voltò a guardare gli antichi padroni, si avvicinò, sfregò il capo sui loro calzoni, si riempì le narici di peli di caribù, e starnutì… sì da sembrar commosso anch'esso. Icoluki ed Isumatak lo accarezzarono, poi il cane balzò sulla vettura prima che lo sportello venisse chiuso. Mostrò le zanne ai viaggiatori, e solo le carezze di Mabel lo rabbonirono.

"Il treno fischiò e cominciò ad allontanarsi adagio adagio.

"Mabel, piangente, affacciata al finestrino vide per ultima cosa la canna del fucile di Isumatak che scintillava ai raggi del sole." (8)

 

 

NOTE

 

1)      PELIZZARI, Ginevra, Mille parole mille pensierini, Milano, Editrice Piccoli, s.d:; Id., Figli della savana, Milano, Piccoli, 1956; Id:, Il segreto di Irene Bell, Milano, Piccoli, 1963.

2)      KILPING, Rudyard, Capitani coraggiosi (traduzione di Ginevra Pelizzari), Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1987; Id. (con N. Charpiot), Le novelle di Andersen, Milano, Piccoli, s. d.

3)      PELIZZARI, Ginevra, Mabel tra gli Esquimesi, Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1961, pp. 29-30.

4)      Ibidem, pp. 88-90.

5)      Ibidem, pp. 119.120.

6)      Ibidem, pp. 128-130.

7)      Ibidem, pp. 149-150.

8)      Ibidem, pp. 154-155.