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Ecologia e religione

di Guido Dalla Casa - 31/01/2008

 


L'atteggiamento occidentale nei confronti della Terra è di agire, modificare, lasciare tracce nella storia, arrivare primi e così via. Proviamo a meditare sulle conseguenze, tenendo ben presente quanto raccomandato da una cultura nativa del continente americano: una persona non dovrebbe mai lasciare orme così profonde che il vento non le possa cancellare.

 

Nel 1972, ad opera del Club di Roma, di Aurelio Peccei e Jay W. Forrester, fu pubblicato il famoso rapporto sull’ambiente dal titolo I limiti dello sviluppo.

Venti anni dopo (1993), per la casa editrice Il Saggiatore, alcuni degli stessi autori (Jorgen Randers e Donella e Dennis Meadows), ne scrissero il seguito, Oltre i limiti dello sviluppo: il rapporto evidenziava ancora, per garantire una soglia di sopravvivenza al pianeta Terra, la necessità della fine di quella che chiamiamo civiltà industriale. Nel 2006 viene pubblicato in italiano il libro I nuovi limiti dello sviluppo, ad opera degli stessi autori del primo rapporto (quelli ancora viventi). In sostanza, mediante l’impiego di mezzi più perfezionati, vengono confermate le proiezioni del primo studio: nei trentacinque anni trascorsi la situazione si è notevolmente aggravata, a causa dello spaventoso aumento della popolazione umana e dell’altrettanto vertiginosa crescita dei consumi.

E’ sintomatico notare che la pubblicazione dell’ultimo libro (del 2006) non ha avuto alcuna risonanza sui mezzi di informazione.

Questi studi introducono comunque il cambiamento radicale di una forma di pensiero: la crescita economica continua non è più possibile.

Fin dall’inizio gli autori, prendendo in esame cinque grandezze (popolazione, risorse, alimenti, inquinamento e produzione industriale), e analizzandone le varie interazioni, proiettavano in avanti le possibilità di sviluppo sul nostro pianeta.

Ebbene, tenendo fermo il nostro attuale stile di vita, tutte le ipotesi che prevedevano un aumento o delle variazioni “ottimistiche” delle varie grandezze, si concludevano con “l’impazzimento” dei rispettivi diagrammi in un arco di tempo che andava circa dal 2020 al 2080. Quel che più stupisce, è che anche gli scenari in cui si faceva l’ipotesi di continuare a disporre di nuove risorse senza limiti avevano come conseguenza la catastrofe.

Il rapporto ribadiva l’impossibilità di persistenza di un sistema come quello economico di produrre-vendere-consumare all’interno della Biosfera che, in sostanza, si comporta come un organismo vivente: è un sistema omeostatico, in grado cioè di mantenere un proprio equilibrio autocorreggendo le variazioni che la investono attraverso interazioni fra tutti i suoi sottosistemi, componenti e flussi energetici. Quando è investita da un intervento troppo drastico e superiore alle sue capacità di adattamento, si ha la morte, o comunque la fine, del sistema in quanto tale.

Già nel primo rapporto, I limiti dello sviluppo, solo due dei diagrammi esaminati mostravano un andamento stazionario delle cinque grandezze, cioè una sopravvivenza accettabile, ma entrambi richiedevano come condizione necessaria la stabilizzazione della popolazione mondiale entro l’anno 1975, attorno ai tre-quattro miliardi di umani, con consumi medi pro-capite assai minori di quelli attuali. È sorprendente notare che esistono ben poche ricerche su un problema come quello del numero di umani che la Terra può sostenere a tempo indefinito: ad esempio, nello studio riportato in Assalto al pianeta di Pignatti e Trezza (Bollati Boringhieri, 2000) si parla di una popolazione ammissibile inferiore ai due miliardi di individui, in accordo con i valori di una ricerca effettuata all’Università Cornell. Sei miliardi di umani possono stare sul pianeta solo per tempi molto limitati, perché vivono “divorando” la Terra, gli ecositemi e gli altri esseri senzienti.

Quindi, ci troviamo già in una situazione molto oltre i limiti dello sviluppo.

Sappiamo abbastanza bene che l’uomo è un animale: fa parte in tutto per tutto dei cicli naturali, si nutre, si sviluppa, si riproduce e muore come gli altri mammiferi. Nonostante ciò non significhi necessariamente che l’uomo è soltanto un animale, la percezione dell’appartenenza della nostra specie alla Natura non è stata accolta con serenità, almeno non ancora, e sicuramente non nella cultura occidentale. Nel linguaggio corrente, nell’etica, nel diritto, l’uomo è ancora considerato in contrapposizione con l’idea di animale, è visto come un elemento esterno alla Biosfera, rispetto al quale si misura ogni valore. Tanto è vero che l’espressione “l’ambiente” sottintende spesso ”l’ambiente dell’uomo”, che resta l’unico riferimento per tutte le considerazioni etiche. Di solito si sente parlare di “tenere pulita la nostra casa”, conservare il “patrimonio di tutti”, consegnare la Terra in buono stato alle generazioni future. Il riferimento costante, considerato ovvio, è l’uomo.

Come è ormai chiaro, l’umanità non è “l’abitante di una casa”, ma è molto più simile a un gruppo di cellule di un Organismo, l’Ecosistema globale, dal quale dipende totalmente. Questa nozione deve ancora essere recepita dalle correnti filosofiche occidentali, oltre che da tutte le istituzioni.

La cultura occidentale, considerando l’uomo al di fuori della Biosfera, ha reso possibile l’aggressione alla Natura che è iniziata da un paio di secoli, cioè da quando si è data il potere tecnico per farlo. A causa del modo di funzionare di questo modello culturale che sta invadendo tutta la Terra, le capacità omeostatiche complessive del Pianeta non sono più in grado di riportarlo in condizioni stazionarie. Inoltre molti ecosistemi vengono distrutti e non possono essere sostituiti con altri “artificiali”, perché questi ultimi dipendono spesso da interventi permanenti esterni per essere mantenuti in condizioni vitali. Come esempio, non possiamo illuderci che la riforestazione riporti in vita la foresta originaria: è meglio di niente, ma non può sostituire la ricchezza di vita e di spiritualità di una foresta naturale.

Il problema sta nel fatto che le modifiche causate ai cicli naturali dalla civiltà industriale hanno velocità infinitamente più grandi di quelle normali, e non consentono alla vita di adattarsi gradualmente alle nuove situazioni.

Il sistema economico impedisce l’omeostasi della Biosfera, che cessa di essere in una condizione stazionaria. Se poi consideriamo che il sistema economico attuale, per mantenersi, deve essere in crescita, a maggior ragione risulta chiaro che è incompatibile con il funzionamento del Pianeta, il sistema più grande di cui fa parte.

Un’economia complessivamente in crescita può soltanto essere un elemento transitorio, un fenomeno patologico nella Biosfera, che porta necessariamente verso un punto “di catastrofe”. Vale la pena ribadire che questa è comunque una visione ottimista: il vero pessimismo è prevedere la continuazione degli andamenti attuali, che portano ad un mondo degradato, alla scomparsa della biodiversità, a psicopatie e criminalità, alla fine della varietà e della bellezza del mondo.

Ma, allora, perché l’Occidente mantiene il suo sottofondo culturale?

Quasi tutte le culture umane, di ogni epoca e provenienza, hanno, o hanno avuto, un proprio “mito della Creazione” alla base delle proprie origini. Questo mito faceva parte dell’inconscio collettivo, della metafisica – o della religione – del popolo interessato. Qui ci occuperemo soprattutto dell’influenza che il mito ha avuto sui nostri rapporti con la Natura, cioè sul problema ecologico.

A differenza di alcune culture-religioni di origine indiana (Buddhismo e Jainismo), che non danno alcuna importanza al problema dell’origine, i popoli che hanno adottato la tradizione ebraico-cristiana e quelli di religione islamica hanno un mito ben preciso: la Genesi dell’Antico Testamento,  alla base del rifiuto della posizione che occupa la nostra specie nella Biosfera, quella cioè di un tipo di cellule in un Organismo.

Come è possibile che né Copernico, né l’evoluzione biologica, né gli studi di Konrad Lorenz siano bastati a farci capire che la Vita è unica, che “mettere l’uomo al centro” è stato l’errore che ci ha portato all’attuale tragica situazione della Terra, dove ogni anno cinquanta milioni di bambini muoiono di fame?

Fino a qualche secolo fa esistevano sulla Terra circa cinquemila culture umane, e quasi tutte mantenevano condizioni dinamiche e stazionarie nei confronti del mondo naturale in cui erano immerse. Ben poche avevano ai primi posti della loro scala di valori l’incremento indefinito dei beni materiali, elemento fondante della nostra società, a causa del quale è impossibile mantenersi in equilibrio dinamico con l’ecosistema terrestre.

L’origine della civiltà tecnologica è da ricercarsi nella forma di pensiero che si è diffusa nelle masse di cultura occidentale alcuni secoli orsono: non è nata da scoperte di tipo tecnico, che ne sono state piuttosto la conseguenza. È da un sottofondo filosofico che nasce un modo di vivere. Così, oltre al mito delle origini, è stata la diffusione delle idee di pensatori come Cartesio, Bacone, Locke ed altri che ha fatto nascere la civiltà industriale: erano necessarie le idee del mondo-macchina e del dominio esclusivo dell’uomo sulla natura, considerata inerte e al servizio della nostra specie, per arrivare senza alcun problema ad uno sfruttamento illimitato.

Per il filosofo francese, ad esempio, solo la mente umana è res cogitans; tutto il mondo, vivente e non vivente, è res extensa, e si può manipolare a piacimento senza problemi. E Bacone, nell’affermare che lo scopo dell’uomo è quello di dominare la natura piegandola ai suoi voleri, dimenticava semplicemente che noi siamo Natura.

Oltre ad essersi tirato fuori dalla Biosfera, ponendosi “al di sopra” di essa, l’uomo occidentale ha tolto l’anima al mondo. Ma oggi, anche senza uscire dalla nostra cultura, alcuni pensatori hanno ampliato il concetto di mente fino a renderlo indipendente dal supporto di un sistema nervoso centrale: la mente sarebbe semplicemente frutto di una certa complessità (Gregory Bateson). Anche lo psichiatra junghiano James Hillmann insiste spesso sull’idea di “Anima del mondo”. Da vie diverse ricompare la mente nella Natura, anche se per ora si tratta di idee con scarsa diffusione.

Non ci sono solo le filosofie di spiriti più o meno isolati, ci sono anche le religioni, che hanno un’influenza ben maggiore sulle moltitudini.

Le tradizioni filosofico-religiose che maggiormente si sono preoccupate di questo ordine di problemi sono quelle di origine orientale (Buddhismo, Jainismo, Taoismo), insieme ad alcune culture animiste, soprattutto quelle native del continente americano. Se non altro, per questa via si riesce a mettere in evidenza che, perché sia presente il senso del sacro, non è assolutamente necessario postulare l’esistenza di un Dio personale ed esterno al mondo e che si occupa esclusivamente degli umani.

Uno dei compiti principali delle religioni potrebbe allora essere quello di fornire una visione del mondo in cui inquadrare i problemi fin qui esaminati, di raccomandare un’empatia verso tutte le entità naturali e di dare prescrizioni morali che preservino la salute della Terra, in quanto bene in sé: questo compito non può essere affidato né alla politica, né ad istituzioni “pratiche”, che di solito hanno un orizzonte temporale molto limitato.

Copyright: Guido Dalla Casa, per gentile concessione dell'autore