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Crisi finanziaria, non è tutta colpa degli Usa

di Andrea Fumagalli - 02/02/2008

 
La crisi dei mercati finanziari sta evidenziando una dinamica che va ben al di là del problema del crollo dei titoli subprime. Le forti perdite di lunedì 21 gennaio, che nella sola Europa hanno comportato la distruzione di 430 miliardi di euro (pari a circa un quarto del Pil italiano), sono solo l'ultimo dei segnali di una crisi che sta assumendo rilevanza globale. I media specializzati hanno imputato le cause al rischio di recessione americana. In effetti, la crescita Usa nell'ultimo trimestre 2007 si è assestata su un deludente +1,2 per cento e le previsioni per il primo trimestre 2008 paventano addirittura un segno negativo (-0,2 per cento), con un probabile aumento del tasso di disoccupazione dall'attuale 4 per cento al 6 per cento entro la fine dell'anno (+50 per cento). Ma si tratta dell'aspetto esteriore, che non deve nascondere le origini strutturali, ovvero ciò che sta davvero alla radice di tutto questo: appiattirsi sulla sola decrescita americana sarebbe un po' come sostenere che la recessione di metà degli anni '70 venne causata esclusivamente dal triplicarsi del prezzo del petrolio.

Nell'odierno paradigma del capitalismo cognitivo, i mercati finanziari, lungi dall'essere il luogo della rendita parassitaria improduttiva, sono il motore dell'economia. Essi rappresentano il luogo dove, a un tempo, si valorizza la produttività immateriale e cognitiva e si attua la privatizzazione dei servizi sociali. I mercati finanziari assumono così le veci del vecchio welfare keynesiano e realizzano forme di redistribuzione indiretta dal capitale al lavoro, gestendo in modo diretto e distorto le quote crescenti di reddito da lavoro che ivi vengono canalizzate in modo più o meno forzoso. Al contempo, le grandi multinazionali della finanza sono oggi organizzazioni che valorizzano «indirettamente» l'accumulazione della produzione mondiale, così come nel paradigma fordista i profitti delle grandi multinazionali manifatturiere erano lo specchio dei rapporti di forza tra capitale industriale e lavoro salariato. I mercati finanziari - tramite gli indici di borsa - rappresentano insomma una sorta di moltiplicatore reale dell'economia e su di essi condensano tutte le aspettative dei grandi operatori economici. Non è un caso che nell'ultima decade le Banche centrali (con la parziale esclusione della miope Bce) fanno dipendere le scelte di politica monetaria (tassi e offerta di moneta) in funzione dell'obiettivo di stabilizzare la dinamica dei mercati finanziari, con la speranza - del tutto illusoria - di limitarne le oscillazioni e la volatilità . Ciò avviene in un ambito - quello finanziario - che nulla ha a che fare con il mito del libero scambio tra pari opportunità , ma è piuttosto il teatro del più poderoso processo di concentrazione che mai si sia realizzato nella storia del capitalismo.

Gli operatori (banche e Sim - società di intermediazione mobiliare -) che controllano oggi tutti i flussi finanziari e gestiscono enormi somme di liquidità si contano infatti sulle dita di due mani. E poiché il loro obiettivo è il massimo profitto immediato, l'attività speculativa è la regola dominante nei mercati finanziari: altro che allocazione efficiente del risparmio e delle risorse.

L'instabilità è dunque il fondamento stesso del sistema. La novità che sta dietro all'attuale crisi finanziaria è la ridefinizione degli assetti gerarchici che definiscono il comando sui mercati finanziari. Ai fondi privati gestiti dalle più grandi Sim (J.P. Morgan, Merrill Lynch, Goldman Sachs, ecc.) si sono aggiunti i cosiddetti «fondi sovrani», ovvero quelle attività finanziarie gestite più o meno direttamente da autorità statuali. Si tratta dell'esito, inevitabile, dell'incremento del peso della finanza sulle vite di miliardi persone.

Se oggi la Merrill Lynch è costretta a dichiarare 4,5 miliardi di dollari di perdite, non è da meno la statale Bank of China, con i suoi 8 miliardi di dollari di minusvalenze. Lungi dal rappresentare il ritorno alla sovranità nazionale, i fondi sovrani che operano con la stessa logica di quelli privati, incrementando in modo perverso il processo di finanziarizzazione e la sua instabilità , sanciscono piuttosto l'abbandono di qualsiasi interesse nazionale nelle mani della struttura imperiale della finanza e l'affidarsi alla sua «anarchia».