Storia del Medio Oriente. 1798-2005
di Enrico Galoppini - 02/02/2008
Fonte: Kervan – Rivista Internazionale di studii afroasiatici
Massimo Campanini,
Storia del Medio Oriente. 1798-2005, Il Mulino, Bologna2006, pp. 257, 13 euro.
Il recente studio di Massimo Campanini si apre con una premessa nella quale l’Autore afferma
la sua idea di «Medio Oriente»: “Sono convinto che il cuore dell’islam rimanga l’arabismo e,
viceversa, che il cuore dell’arabismo sia l’Islam. Perciò questo libro si trova in rotta di collisione
con tutti i tentativi neo-con di scindere il Medio Oriente dalla sua matrice araba e islamica” (p. 9).
Arabismo e Islam sono dunque i due riferimenti da non perdere mai di vista in una vicenda che
parte – secondo l’interpretazione qui proposta – dallo «scontro con la modernità» vissuto nelle terre
a maggioranza arabo-musulmana all’inizio del XIX secolo. Ma Campanini ricorda giustamente
come l’Islam - che viveva già dal secolo precedente la lenta crisi dell’Impero Ottomano - avesse
già cercato risposte originali a partire dal proprio orizzonte di riferimento: “I movimenti di
tajdîd[rinnovamento], tra cui il wahhabismo, dimostrano l’effervescenza interna dell’Islam tra Settecento
e Ottocento comunque prima e a prescindere dal contatto con l’Europa” (p. 19). Eppure, “il
condizionamento del colonialismo deve essere giudicato essenziale per comprendere, nel bene e nel
male, gli sviluppi successivi” (p. 21).
La tensione tra un riformismo più o meno caratterizzato dall’elemento religioso e le continue
ingerenze straniere, «occidentali», può valere come una delle chiavi di lettura delle tormentate
vicende mediorientali, fino ai nostri giorni, in cui si parla (quasi sempre a sproposito) di «Islam e
democrazia» senza conoscere adeguatamente gli sforzi di riforma e modernizzazione specifici del
mondo arabo-musulmano, di cui già un importante esempio fu il periodo detto delle
tanzîmât[riforme, riordinamento] operato nel XIX secolo dai sultani ottomani, i quali, tra le altre cose,
introdussero un originale concetto di «cittadinanza ottomana»: “L’impero ottomano che scopre la
nazionalità, lo stato, la cittadinanza, mostra di fatto di essere la realizzazione di fatto della
distinzione tra religione e politica nell’Islam” (p. 27). Il massimo sforzo per riformare l’ultima
grande compagine imperiale islamica salvandone l’unità e la funzione venne condotto dal sultano
‘Abdul-Hamîd II (1876-1909), col quale il Panislamismo divenne la parola d’ordine per “rafforzare
l’appartenenza identitaria dei popoli musulmani. Ciò lo indusse a prendere misure per proteggere
ed anzi favorire la diffusione della lingua araba e una più attiva partecipazione dei sudditi arabi
dell’impero alla vita ottomana” (p. 30).
Un particolare, questo, da ricordare prima di affermare che «gli arabi» non avrebbero potuto non
combattere contro «i turchi» nella Prima guerra mondiale… L’Autore ben sottolinea, infatti, come
furono i Giovani Turchi, fautori di un nazionalismo turco esasperato ed avversari del sultano, a
rinfocolare sentimenti nazionalisti tra alcuni circoli arabi.
La fase dei tentativi di riforma non interessò, naturalmente, solo l’Impero Ottomano, ma anche
l’Egitto (di cui Campanini è uno specialista: sua una
Storia dell’Egitto contemporaneo) delladinastia nata con Mehmet ‘Alî, il Sudan mahdista opposto al “corrotto governo dei turco-egiziani e
dei loro protettori europei” (p. 44) (il che non può non far pensare ai bersagli della moderna
contestazione islamista…), la Persia dei Qâjâr, salvatasi da una colonizzazione di tipo diretto a
causa delle rivalità tra Russia e Gran Bretagna che si neutralizzavano a vicenda; vengono presi in
esame anche gli Stati maghrebini, e a questo punto Campanini, commentando l’azione del Bey di
Tunisi, fa un’affermazione da meditare: “[Kheireddin] cercò di promuovere una serie di riforme
modernizzatici che, come prevedibile, suscitarono le ostilità tanto dei conservatori quanto degli
europei. Venne perciò dimissionato e la Tunisia regredì a un sistema autocratico e corrotto” (p. 33).
Il «Risorgimento» (
nahda) culturale arabo e islamico è l’oggetto del terzo capitolo. Con brevi edefficaci tratti si delinea la genesi del nazionalismo arabo (all’inizio più culturale che politico), che
vede la sua luce in Siria, ma anche del tentativo
esogeno di «modernizzazione dell’Islam», al qualesi contrappose lo sforzo
endogeno di coloro che intendevano «islamizzare la modernità».Quest’ultima posizione è quella del movimento salafita (al-Afghânî, ‘Abduh, Ridà), in un certo
senso neo-mu‘tazilita nel suo anteporre il libero arbitrio umano alla predestinazione.
La seconda parte del libro tratta del periodo tra le due guerre mondiali, caratterizzato dal
riassetto politico della regione susseguente alla spartizione anglo-francese dei territori dell’Impero
Ottomano: nascono Stati senza alcun senso (“di fatto un’entità politica chiamata «Libano» non era
mai esistita nella storia, né nel Medioevo né sotto l’Impero Ottomano”; p. 69), privati dei requisiti
fondamentali della sovranità (l’Iraq), affidati ad emiri di cartapesta (la Transgiordania), con il
‘capolavoro’ rappresentato dalla creazione del «Focolare nazionale ebraico», giustificata dal
“desiderio di assicurarsi un più solido appoggio nel Vicino Oriente facendo dei sionisti una sorta di
avamposto degli interessi britannici e in senso lato europei nella zona” (p. 71). Alcune
affermazioni, dal punto di vista di chi scrive, non possono però essere condivise: è il caso
dell’espressione «antica terra dei padri», la quale – a meno che non la si ripeta per abitudine –
suona giustificatrice delle pretese del Sionismo su una terra che appartiene a chi l’ha da sempre
abitata, e non ad un’associazione di ‘amanti di Sion’ che con i pretesi «ebrei della Bibbia» non ha
ovviamente nulla a che vedere dal punto di vista etnico, mentre anche la più raffinata operazione di
revival
cultural-religioso mai riuscirà a smentire quel che l’archeologia, la demografia e la criticatestuale hanno definitivamente dimostrato, ovvero che il Sionismo, oltre che essere un equivoco
diplomatico, istituzionale, religioso, economico e societario, lo è anche dal punto di vista storico.
Gli anni tra le due guerre mondiali sono quelli in cui, negli embrioni di Stati del Maghreb e del
Mashreq, alle prese con la presenza più o meno asfissiante di colonizzatori-protettori-mandatari
occidentali, si sviluppano variegate esperienze politiche, dal «liberalismo» egiziano al modernismo
turco, dal ‘nazionalismo islamico’ in Algeria («L’Algeria è la mia patria, l’arabo è la mia lingua,
l’Islam è la mia religione», affermò Ben Bâdîs) al nazionalismo anticoloniale promosso dalla corte
marocchina, mentre la Libia, proprio in quel torno di tempo, nasceva come entità unitaria,
«pacificata» dalle armi italiane. Sempre negli anni Venti e Trenta si verificano altri eventi
importanti: la nascita della dinastia Pahlavi in Iran (1925) e l’indipendenza dell’Arabia Saudita
(1932), e, ad un livello politico-culturale, la nascita della Fratellanza musulmana in Egitto. Per
inquadrare al meglio la temperie politico-culturale dell’epoca, è opportuno ricordare che il califfato
era stato ‘abolito’ dalla Turchia (con quale autorità?) nel 1924, e, sebbene vi fosse chi - come ‘Abd
er-Râziq - ritenesse la missione di Muhammad puramente religiosa per cui l’Islam non avrebbe
nulla di politico, la questione suscitava ancora vasti ed animati dibattiti.
La terza parte del libro è dedicata poi alla decolonizzazione, che coincide con lo stabilirsi della
«guerra fredda» anche nello scacchiere mediorientale. Il Patto di Baghdad, del 1955, promosso
dalla Gran Bretagna e sottoscritto da Turchia e Iraq, prima, Pakistan e Iran, in seguito, rappresenta
il tentativo delle potenze atlantiche di accerchiare la Russia, isolandola dal resto della massa
continentale eurasiatica coinvolgendo gli Stati musulmani a ridosso del suo ‘ventre molle’. Nello
stesso anno, a Bandung, si teneva la Conferenza dei «Non allineati», alla quale partecipò anche
quello che per quasi un ventennio sarebbe stato additato a «nuovo Hitler» del Medio Oriente (oggi,
dopo Saddam Hussein, l’infamante epiteto viene affibbiato al presidente iraniano Ahmadinejad): il
presidente egiziano Gamâl ‘Abd en-Nâser. Campanini, a questo punto, osserva opportunamente che
il nazionalismo arabo ha sempre sofferto la tensione lacerante tra l’aspirazione all’unità di tutti gli
arabi – di cui il partito Ba‘th è ed è stato il vessillifero - e il particolarismo nazionale alimentato, tra
le altre cose, dal consolidamento di notevoli interessi che l’esistenza di ciascuno Stato comportava.
Ma il vero big bang del Medio Oriente contemporaneo è il 1948, data in cui, al termine di una
campagna di attentati condotti da elementi sionisti ai danni di rappresentanti del potere mandatario
britannico sin da prima della fine della Seconda guerra mondiale (“l’escalation terrorista fu
impressionante”, p. 108), e dopo attacchi di milizie sioniste a cittadine palestinesi allo scopo
d’incoraggiare l’esodo delle popolazioni che vi vivevano (“applicando un piano strategico da lungo
pianificato”, p. 109), si giunse alla proclamazione dello Stato d’Israele, subito riconosciuto da Stati
Uniti e Unione Sovietica. Neppure l’aspetto emotivo venne trascurato: “I sionisti seppero inoltre
orchestrare un’abile azione di propaganda. In questo quadro si colloca il famoso episodio della
nave Exodus […]” (l’omonimo film, non a caso, è stato ritrasmesso da un’emittente a diffusione
nazionale nel quadro delle iniziative per la «Giornata della memoria»). Il libro non trascura poi altri
elementi importanti per capire come si è consumata la tragedia dei palestinesi, anche se per forza di
cose non può ricordarli tutti: l’assassinio, nel settembre 1948, del plenipotenziario dell’Onu, il
conte Folke Bernadotte, “che stava per presentare all’Assemblea generale delle nazioni Unite un
piano di pace non favorevole ad Israele” (p. 111); l’abbandono dei palestinesi al loro destino da
parte degli altri arabi (“i contatti tra i dirigenti israeliani e ‘Abdallah di Giordania sono provati”; p.
110); il caso Lavon, “quel ministro che nel luglio 1954 autorizzò agenti segreti israeliani ad
effettuare attentati dinamitardi al Cairo e, travestiti da arabi, a danneggiare le infrastrutture
britanniche sul canale di Suez per scatenare un casus belli tra l’Egitto rivoluzionario di Nasser e la
Gran Bretagna e quindi destabilizzare il regime nasseriano” (p. 112).
Nel secondo dopoguerra, inoltre, si verificano altri eventi significativi, quali l’esperimento di
Mossadeq in Iran, neutralizzato dalla Cia in combutta con lo Shah, e le indipendenze di vari Paesi
arabi tra cui il Sudan, la Tunisia e il Marocco. Ma è l’emergere del mondo arabo e la sua crisi (il
titolo dell’ottavo capitolo) a dominare la scena per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta (con Gran
Bretagna e Francia che progressivamente vedono scadere la loro capacità d’influenza): il
nasserismo, il governo del Ba‘th in Siria e in Iraq, la Rivoluzione algerina e quella in Yemen, fino
al trauma della guerra del 1967, che chiude un’epoca e inaugura quella in cui si tratta di “ricostruire
in termini islamici una grammatica endogena di senso e di linguaggio, laddove il linguaggio eurooccidentale,
il linguaggio del modernizzatore ma anche del colonizzatore, non era più
comprensibile […]” (p. 153).
La quarta ed ultima parte, infine, esamina gli ultimi decenni del Novecento, e si apre con il
1979, secondo spartiacque della storia del Medio Oriente. Campanini, tuttavia, non si accoda al
coro di coloro che individuano nella Rivoluzione khomeynista l’inevitabile esito della storia
dell’Iran: “Non si può negare che, almeno negli anni Sessanta, il paese conobbe un’accelerazione
riformista e modernizzatrice. La cosiddetta «rivoluzione bianca» del 1963 cercò sia di imporre una
riforma agraria (sgradita al clero sciita che vedeva compromesse le entrate provenienti dai beni
religiosi di manomorta, i waqf), sia di accelerare la diffusione dell’istruzione attraverso una riforma
del sistema educativo, sia di istituzionalizzare l’interventismo statale in campo sociale ed
economico e addirittura di consentire una compartecipazione dei lavoratori ai profitti delle imprese.
Secondo Malcolm Yapp, la rivoluzione bianca in Iran fu simile, nella teoria e nei risultati, alle
rivoluzioni radicali in Egitto, Siria e Iraq” (pp. 159-160). Ciò premesso, il libro aiuta a capire il
carattere inedito del «radicalismo islamico» promosso dagli ayatollah iraniani, al centro del quale si
pone la creazione dello Stato islamico come baluardo contro l’«influenza nefasta dell’Occidente»
ed esperimento genuinamente «islamico» e «democratico» (“[…] in Iran le elezioni vengono
celebrate con notevole correttezza ed esiste un parlamento che funziona”; p. 228).
Nello stesso torno di tempo, declina il ruolo egemone dell’Egitto (dove emerge progressivamente la
forza dei Fratelli Musulmani, da non confondere assolutamente – sottolinea l’autore – col
«terrorismo islamico»), e così il mondo arabo perde gran parte del ‘potere contrattuale’ avuto sin lì
a livello internazionale, mentre Israele assume sempre più chiaramente il ruolo di gendarme
statunitense nella regione, per cui gli Stati Uniti si presenteranno di lì in poi (con rare eccezioni:
“Carter era stato un presidente più equilibrato”; p. 174) quali tutori dell’incolumità del ‘Davide’
israeliano contro il ‘Golia’ arabo.
Il resto è storia recente, e Campanini – consapevole dei rischi cui si espone nel trattare gli
ultimissimi sviluppi – si addentra sino al 2005. Al centro, ancora - vera chiave di volta di tutta la
storia mediorientale recente -, c’è la Palestina, e quando l’Autore osserva che, nel 2000, Arafat “si
irrigidì riguardo soprattutto alla questione del ritorno dei profughi palestinesi in patria, un ritorno
che Israele non poteva accettare, pena il profondo snaturamento della sua composizione
demografica e territoriale, giacché gli arabi sarebbero diventati assoluta maggioranza” (p. 182), in
pratica riconosce l’eccezione rappresentata da uno Stato che mentre predica al mondo
l’«antirazzismo» pratica per principio un esclusivismo (pretesamente) etnico che di fatto si risolve
nell’esclusione degli autoctoni. Strano è, invece, che per spiegare quel passaggio al volgere del
secolo l’Autore non citi il «caso Levinsky», che mise fuori gioco Clinton e dopo il quale il
Sionismo lanciò con la «passeggiata di Sharon» il ‘segnale’ chi si stava entrando in una nuova fase
del progetto.
Ma in circa 250 pagine non si può certo dire tutto, ed anzi Campanini riesce egregiamente a
confezionare un libro equilibrato negli spazi dedicati ad una serie pressoché inesauribile di
argomenti: la nuova dirigenza siriana, gli sviluppi del Libano dopo la guerra civile, la crisi della
monarchia saudita, l’Iraq di Saddam Hussein, capace di attirare il favore di “parte cospicua
dell’opinione pubblica araba e islamica” (p. 212) (perché, però, non fare alcun accenno all’embargo
dell’ONU che dal 1990 al 2003 ha provocato centinaia di migliaia di vittime?), il colpo di Stato in
Algeria che vanificò una cristallina vittoria elettorale del FIS (ma allora queste «elezioni» vanno
rispettate o no?), la dittatura di fatto in Tunisia - dove “la società civile è caduta «ostaggio» di
dinamiche di esclusione che cercano di restringere gli spazi partecipativi a favore del partito di
governo” e “l’asfissiante controllo poliziesco è stato ripagato dalla stabilità interna e da una crescita
economica invidiabile” (p. 201) -, la Turchia, governata dai militari in nome di un’ideologia
laicista, ma con un Islam politico capace d’intavolare trattative per un ingresso nell’Unione
Europea alla luce della funzione eurasiatica della Turchia.
Il finale del libro è dedicato ad una disamina del fenomeno più discusso delle società islamiche
contemporanee, quello dell’islamismo politico militante. “Vi è una differenza netta sia tra il
salafismo e il riformismo della Fratellanza Musulmana e i gruppi fondamentalisti o «islamisti»
contemporanei” (p. 214): i primi mirano ad un’islamizzazione dal basso attraverso la propaganda e
l’infiltrazione negli ambiti decisionali, i secondi alla creazione, dall’alto, con metodi violenti, di
uno Stato islamico. Campanini, tra i fattori sociologici che hanno avuto un peso determinante nella
svolta «terroristica», individua una ‘proletarizzazione’ dell’islamismo fondamentalista, ma non
sottovaluta il peso della repressione di ogni istanza islamista da parte dei vari regimi «moderati» e
lo scollamento delle varie organizzazioni - autrici di attentati anche ai danni di inermi turisti - da
una solida base di massa.
Sull’11 settembre 2001, però, l’Autore non pare nutrire dubbi circa l’identità dei protagonisti di
un’azione che altri, con dovizia di documentazione, hanno dimostrato essere un autoattentato,
sebbene ponga seri dubbi sulle giustificazioni addotte in seguito dagli Stati Uniti per attaccare
l’Afghanistan e l’Iraq.
Il mondo arabo-islamico vive forse una delle sue fasi più drammatiche, preso nella morsa di un
neoimperialismo «occidentale» e di un vuoto progettuale dopo la fine del «socialismo arabo» e
quella, in corso, sia dell’islamismo militante che della ‘democrazia d’importazione’. Così, nel
finale, Campanini dedica un certo spazio alla «teologia della liberazione islamica», che implica la
“trasformazione della teologia in antropologia, cioè un riorientamento dell’interesse teologico” (p.
222), possibile perché “nell’Islam Dio è la garanzia della giustizia sociale e dell’impegno per
raddrizzare i torti e difendere gli oppressi” (ibidem). Una teologia, dunque, in grado d’interpretare i
testi religiosi alla luce delle necessità storiche del momento, pronta a fare fronte comune con le
altre religioni (o meglio, le interpretazioni «progressiste» di esse) per la «liberazione degli
oppressi». La vexata quaestio del rapporto tra Islam e Democrazia (due concetti qualitativamente
non comparabili, anche se va osservato che nell’«Occidente» la Democrazia in sé ha assunto un
valore ‘religioso’) si risolverebbe probabilmente se la si smettesse di addebitare all’Islam la colpa
dell’«immobilismo» delle società mediorientali: esiste attualmente un Islam nient’affatto marginale
Kervan – Rivista Internazionale di studii afroasiatici nn. 4/5 – luglio 2006 – gennaio 2007
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in grado di offrire delle soluzioni, “non alla luce di un individualismo che si focalizzi soprattutto
sul singolo, ma alla luce del benessere comunitario e degli interessi della comunità nel suo
complesso” (p. 229). La questione cruciale è per l’appunto quella di “trovare una
via islamica allamodernizzazione” (ibidem). I Fratelli Musulmani in Egitto, il movimento an-Nahda in Tunisia,
quello della Giustizia e dello Sviluppo in Marocco, ma anche il partito del primo ministro turco
Erdo
ğan, possono traghettare il mondo arabo-islamico attraverso le tempeste dell’alienazioneculturale occidentalista e del fondamentalismo, costruendo la formula politica per inserire anche il
mondo arabo-islamico nell’era della globalizzazione, ma da un punto di vista
islamico.