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Alleati ma non amici

di Mario Cervi - 02/02/2008

Nelle cinquecento e passa pagine del suo Mussolini e Franco (Mondadori, 22 euro), Romano Canosa ripercorre le vicende dei rapporti italo-spagnoli da quando il fascismo conquistò il potere fino all’epilogo della seconda guerra mondiale. I capitoli introduttivi del volume sono molto opportunamente dedicati ai turbolenti anni in cui la Spagna ebbe un dittatore-precursore, il generale Miguel Primo de Rivera, appoggiato blandamente dal re Alfonso XIII, e poi diventò una repubblica di breve vita: per il sopravvenire, il 18 luglio 1936, dell’alzamiento militare. Nel quale il piccolo e gelido Francisco Franco raggiunse gradualmente e sommessamente, com’era nel suo temperamento e nel suo stile carrieristico, l’autorità di comandante supremo. Egli si adottò, in quanto tale, agli scimmiottamento dei totalitarismi di Roma e di Berlino che la situazione rendeva indispensabili. Ma rimase in sostanza rimanendo quello che era, non un ideologo dalle grandi idee e dalle grandi ambizioni, ma un esponente tipico dell’oligarchia clerico-conservatrice, con tintinnare di sciabole, che in Spagna aveva sempre avuto un ruolo di protagonista.
Amici, alleati, rivali: vite parallele di due dittatori, reca il sottotitolo del saggio. Ed è a mio avviso un sottotitolo che un po’ trae in inganno. Si poteva aspettarsi che Canosa insistesse sul carattere, sulla psicologia, sui comportamenti di due uomini che la storia ha accostato, ma che erano in effetti distantissimi tra loro. Da una parte un capopopolo carismatico, brutale e affascinante, formatosi nelle file del socialismo estremista; dall’altra un ufficiale molto intelligente, molto capace, molto prudente, all’occorrenza crudelissimo. I due non furono mai amici, né mai avrebbero potuto esserlo non solo perché era impensabile, tra loro, una vera comprensione, ma soprattutto perché l’unica caratteristica che li accomunava era proprio il non averne, di amici.
Despoti molto più feroci di Mussolini - che feroce non era - e anche di Franco, che poteva esserlo, avevano tuttavia una cerchia di intimi con i quali s’intrattenevano, avevano confidenza, bisbocciavano. Così Hitler, così Stalin: quest’ultimo pronto magari a far fucilare coloro con cui aveva brindato il giorno prima. Ma il giorno prima era cordiale, perfino affettuoso. Il Duce e il Caudillo erano dei solitari. Il Duce non riceveva, se non proprio costretto da circostanze ufficiali. La mancanza di sedie in cui i visitatori potessero accomodarsi nella leggendaria sala del mappamondo a Palazzo Venezia era il simbolo di questo atteggiamento. Franco imponeva un cupo distacco gerarchico anche ai capi delle forze armate. Una volta che un generalone ottenne da lui udienza e gli espose, anche a nome d’altri, una lunga serie di lagnanze, Franco ascoltò in silenzio e poi, congedandolo, si limitò a dire: «Perché non porta i guanti d’ordinanza?». Mi sembra che il libro, esauriente e intelligente nel ricostruire gli avvenimenti militari e diplomatici, trascuri un po’ questo aspetto.
Il che, sia chiaro, non sminuisce i meriti importanti del lavoro di Canosa. Dal quale emerge la diffidenza dei due interlocutori, e dei loro subordinati. Con gli spagnoli che si lamentavano per inazioni e passività del contingente italiano, e con gli italiani che rivolgevano analoghe accuse agli spagnoli. Dopo Guadalajara - che era stata un insuccesso delle truppe «legionarie», ma di poco conto - nel quartier generale franchista si avvertiva (lo fece sapere l’ambasciatore italiano Roberto Cantalupo) «un senso quasi di soddisfazione nel vedere ritornare sulle basi di partenza gli italiani venuti a salvare la Spagna».
Quando Mussolini e Franco s’incontrarono a Bordighera, il 12 febbraio del 1941, risultò chiaro che sotto le professioni d’amicizia e di incrollabile fiducia nella vittoria dell’Asse non c’era nulla. La Spagna lamentava d’essere a corto di rifornimenti alimentari, e si dichiarava disposta a entrare nel conflitto a fianco dell’Italia e della Germania se quei rifornimenti le fossero stati assicurati e se Hitler e Mussolini avessero dato formale riconoscimento alle sue aspirazioni coloniali. Insomma, temporeggiava il Caudillo, se la Germania avesse dato l’aiuto sperato la Spagna avrebbe dato il suo apporto alla «causa fascista mondiale». Al che Mussolini formulò una domanda di straordinaria ingenuità e pateticità. «Se fosse nato nei tedeschi il sospetto che la Spagna non vuole entrare in guerra a seguito del mancato sbarco (in Inghilterra, ndr ) e degli insuccessi italiani, può egli (Mussolini, ndr) assicurare il Führer del contrario?». Franco ovviamente assicurò.