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Nel quarantennale del ’68: “la rivoluzione non è la diarrea”

di Stenio Solinas - 04/02/2008

Nel decennale del ’68 stavo lavorando a un pamphlet dal titolo Macondo e P38 e che uscì di lì a poco. Lo dico perché, quarant’anni dopo, siamo, ancora e sempre alle celebrazioni, e al di là della logica perversa degli anniversari e delle ricorrenze, vale la pena di chiedersi il perché. È una domanda che deve essersi posta anche il segretario di Alleanza Nazionale Gianfranco Fini quando, intervenendo l’altro ieri al meeting «Cambio di stagione: 1968-2008», ha parlato di «un’occasione persa» per la Destra di quel tempo, «di un Sessantotto che non nacque a sinistra, ma finì a sinistra». E vale allora la pena di approfondire il tutto, la domanda, appunto, ma anche le risposte.
Di quel libretto, scritto quando avevo molte certezze e molte illusioni, oggi che non ho più né le prime, né le seconde, questa pagina mi sembra ancora significativa: «Pure qualcosa significò, molte speranze sollevò, alcuni processi distruttivi innescò. Fra tanti cascami letterari e no, fra tanti moduli scontati e déjà vu, prospettò realtà nuove, a livello di rapporti umani, e politici, e sociali. Non fu una rivoluzione, e proprio per questo le sue tracce ancora permangono; così come non fu un fuoco di paglia destinato in breve a scomparire. Fu una via di mezzo, in fondo tipicamente italiana, e come tale destinata a non pagare chi seriamente la percorse, ma sempre pronta a essere presentata, dagli altri, come una specie di cambiale allo sconto. Diceva Leo Longanesi che “la rivoluzione non è la diarrea”; e forse il giallastro colorito della gran massa dei “reduci” ci aiuta a comprendere in quale mare l’Italia stia rischiando di affogare». È superfluo dire che in quel mare, ahimè, abbiamo imparato a nuotare e a navigare.
Facciamo un piccolo, ma necessario, passo indietro. Secondo Leonardo Sciascia il 1963, l’anno che segna l’avvento del centro-sinistra in Italia, è anche quello che vede l’entrata in scena nel Paese del «cretino di sinistra, ma mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare». Nel decennio successivo, il suo timore di dover essere «costretto a celebrarne l’Epifania» è ormai realtà: «Una nuova formidabile ondata di conformismo sta per abbattersi nel nostro Paese. A parte le frange pazzoidi e folkloristiche, tra le gente di buon senso non si trova più uno disposto a dichiararsi anticomunista; e anzi quelle frange finiscono con l’apparire un’astuzia della Provvidenza, a far più risplendere il buon senso generale e a render degno di riconoscimenti e di lodi le conversioni particolari. Ma che dico, non si trova più uno disposto a dichiararsi anticomunista? Non si trova più uno che non abbia simpatia per i comunisti, che non abbia in loro fiducia, che non speri vadano definitivamente al governo e presto». Ancora due lustri e l’apoteosi del cretinismo di sinistra verrà completata dal suo stesso essere negata. La sinistra, intendo, non l’apoteosi. E tantomeno il cretinismo.
Il cretinismo di sinistra immortalato da Sciascia non era una prerogativa né dei soli cretini né della sola sinistra. Dentro c’era anche altro: rigurgiti antimoderni, frammenti di solidarismo cristiano mal digerito, avanzi dell’azionismo riciclati come garanti del «cambiamento» comunista, conati di ribellismo e di anarchia, paure e vigliaccherie piccolo-borghesi, complessi di inferiorità liberaldemocratici, machiavellismi capitalistici, spezzoni di perdonismo cattolico e di odio di classe. E a dare il gusto al tutto l’idea che dallo Stato si potesse spremere ciò che si voleva perché tanto era un «altro da sé», una sovrastruttura da buttare, un nemico oggettivo di cui doversi sbarazzare ma al quale al contempo imputare le cause di tutti i ritardi, tutti i disservizi, tutte lentezze. Una testa di turco da deridere per poi magari accusarla di mancanza di dignità e di fermezza.
Ci fu anche, veniamo al dunque e lo si sarà capito, un cretinismo di destra. Sgombriamo il campo dalla suggestione finiana destinata a percorrere, sembra, anche questo quarantennale, di un Sessantotto, come dire, nazionale e tricolore, che sarebbe potuto essere e non fu, tradito e misconosciuto, minoritario, certo, eppure esistito. La sua esistenza, in realtà, fu poco più di una contraddizione in termini da un lato, un’ansia partecipativa dall’altro, ma senza alcuna possibilità di modificare il corso delle cose e molta invece di essere da quel corso modificata e in fondo snaturata. E anche la stessa idea di accelerare la dissoluzione di un sistema culturale e di potere, evolianamente parlando, poteva apparire nobile e/o rivoluzionaria, ma era soltanto velleitaria.
No, il cretinismo di destra di cui vorrei parlare è l’altro, più massiccio e imponente, hegelianamente vincente, se vogliamo («ciò che è reale è razionale»), quello più o meno situato a difesa di un insieme di valori, di un codice comportamentale che intanto era già saltato, perché pura forma senza contenuto. Paradossalmente, Fini ha ragione nel suo avere torto. Certo, i giovani sarebbero anche potuti non finire a sinistra, ma lì andarono perché dall’altra parte non c’era niente, se non il cretinismo sopra accennato e che ora andremo ad analizzare.
Anche qui, bisogna fare un passo indietro, perché i decenni non corrispondono mai all’inizio e alla fine di una decade, e un anno simbolo vale appunto in quanto tale, ingloba cioè in sé un passato e un futuro. Il dopoguerra, la ricostruzione, il boom furono anche il risultato di italiani che non si riconoscevano nel sole dell’avvenire e nei domani che cantano, che dal defunto Regime avevano appreso a diffidare delle alchimie parlamentari e dei partiti, ma non avevano più una controparte che sostituisse le une e gli altri e pensasse per tutti; che si vergognavano della sconfitta bellica, ma non sognavano ritorni al passato, perché la catastrofe era stata troppo grande, morale e materiale, e il Ventennio, alla fine, non era stato all’altezza delle promesse fatte, era franato rovinosamente, con ignominia: e anche loro ne erano corresponsabili, avevano creduto, poi avevano fatto finta di credere, poi avevano sperato in qualche miracolo, poi pregato perché tutto finisse al più presto... Quegli italiani, dunque, si chiamarono fuori dall’Italia, non ne vollero sapere: che andasse come andasse, nessuno li avrebbe più fregati, chiamati ad altri e alti destini, spronati a grandi imprese...
Tornava, insomma, la dimensione familiare, si allontanava lo Stato, visto come un nemico, o come qualcosa da sfruttare. Venne meno anche la curiosità e la volontà di capire ciò che stava accadendo, quale Paese si sarebbe andato formando... Ciò che alla fine contava era il proprio benessere, il piacere dei nuovi consumi, un’etica del lavoro individualistica, sganciata da qualsiasi istanza collettiva, da qualsiasi anelito comunitario. La politica, i partiti, erano «cosa loro», da disprezzare, da irridere, con cui venire a patti, il voto in cambio di un favore, un posto, una raccomandazione. Il grande successo della Democrazia cristiana per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta fu dovuto al suo essere non una forza ideologica, ma un insieme di interessi, corporazioni, clientele. Assicurava la guida di un Paese che intanto marciava da sé, stando attenta a non scontentare, a lenire, sopire, soffocare. Non avendo un’identità, era di tutti e di nessuno. Era rassicurante nella sua nullità ideale e nella sua potenza contrattuale. Non avrebbe mai chiamato quegli italiani a combattere e a soffrire per lei.
Quando cominciò a soffiare il vento della contestazione, quest’altra Italia pensò di avere degli «alieni» in casa e dei «barbari» alle porte. Si barricò e cercò rifugio in parole d’ordine usurate se non del tutto scadute: senso del dovere, rispetto, sacrifici, disciplina, ordine, patria potestà... Ma avendo teorizzato il qualunquismo e il quieto vivere si vedeva ora rinfacciato il primo e rifiutato il secondo. Era un po’ come quel film di Dino Risi, I mostri, in cui un padre, Ugo Tognazzi, avendo allevato il figlio alla furbizia e al disprezzo delle regole, alla fine si ritrova ammazzato da quest’ultimo per pochi spiccioli.
Proviamo a riassumere. C’è un Paese che insegue il proprio benessere, un brodo di coltura che teorizza la liceità di ogni comportamento e giustifica dialetticamente ogni trasgressione e il relativo perdono, una classe politica che occupa manu civili la società, una classe dirigente che non sa e/o non vuole dirigere, sceglie di non scegliere, pratica un consenso clientelare e per farlo aumenta a dismisura il debito pubblico. Il’68 è il primo cortocircuito di una modernizzazione fine a sé stessa e priva di quei correttivi che potrebbero, dovrebbero, regolarla: istituzioni, corpi intermedi, senso dello Stato, programmazione, selezione della classe dirigente....È un corto circuito generazionale, la sua forza ma anche la sua debolezza. ...Il secondo sarà la lunga stagione del terrorismo, da cui usciremo senza sapere bene né come né perché, e comunque appena in tempo... Il terzo, l’implosione del sistema stesso dei partiti, l’epifania del suo fallimento, e la successiva incapacità di riformarlo ovvero rifondarlo.
Nella sua Storia dell’Italia repubblicana, Silvio Lanaro, uno studioso non sospetto di simpatie nazionalistiche, coglie in quel primo «corto circuito» un aspetto all’apparenza minore, ma in realtà emblematico. «Il termine “Patria“ esce definitivamente dal dizionario, sostituito dal più anonimo e tipografico “Paese“, come se la patria non fosse più “l’ambito territoriale, tradizionale e culturale, cui si riferiscono le esperienze affettive, morali e politiche dell’individuo in quanto appartenente a un popolo“; e qualche frammento di “nazione“, del pari, sopravvive solo negli aggettivi che servono a giustificare i fenomeni economici (reddito nazionale, prodotto nazionale lordo) e nelle sostantivazioni brachilogiche proprie del linguaggio sportivo (la nazionale di calcio, la nazionale di nuoto), mentre nessuno si azzarda certo a parlare di nazione come dell’“unità etnica cosciente di una propria peculiarità ed autonomia culturale, specialmente in quanto premessa di unità e sovranità politica“». Quarant’anni dopo, lo diciamo sommessamente, siamo ancora a quarant’anni fa. Buon anniversario.