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Controcultura e Sessantotto. Una necessaria e (onesta) messa a punto

di Carlo Gambescia - 05/02/2008

 

Il capitalismo, come ogni altro sistema storico, tende a generare al suo interno forme di cultura complementari (subculture), legate alla sua conservazione. Sotto l’aspetto sociologico la differenza tra l’ideologia capitalista e ad esempio quella imperiale romana, è nella diversa preminenza e forza del sottosistema economico. Che nel capitalismo, a differenza della Roma imperiale, esercita tuttora una funzione determinante. Di qui la stretta relazione, nella società capitalista, tra le subculture del consumo e le istituzioni economiche del mercato e del profitto.
Tuttavia, come ogni altro sistema storico, anche il capitalismo, ha generato, per reazione controculture, volte a mettere in discussione i fondamenti del sistema. E questo è avvenuto, pur in forme e contenuti ideologici differenti, fin dalle sue origini. A partire dal luddismo per giungere alla cultura solidarista del welfare state, passando per il cattolicesimo sociale e corporativo, il comunismo, il fascismo e il nazionalsocialismo. Come a sua volta, per tornare al nostro esempio storico, l’ideologia imperiale romana, politeista, militare e schiavista, generò la controcultura cristiana, monoteista, antischiavista e pacifista. E dunque in linea di principio antisistemica (cioè sorvolando sui successivi e concreti sviluppi storici del cristianesimo).
Pertanto quando si parla del Sessantotto, occorre sempre distinguere tra la sua valenza controculturale, in termini di critica sistemica economica e sociale del capitalismo e la sua “cultura”, sovrastrutturale, dei diritti civili, facilmente tradottasi nelle successive subculture del consumo, anche "giovaniliste", interne al sistema, e perciò funzionali al sistema stesso. Mai confondere la prima con la seconda.
In altri post abbiamo distinto tra il Sessantotto dei diritti civili e il Sessantotto economico e sociale. Pertanto, e semplificando, nelle subculture segnate da un indiviudalismo spicciolo, (tradottosi in divertentismo di massa), che può essere riassunto in un impolitico " vivi come vuoi, purché tu non metta in discussione il sistema", si può scorgere il prolungamento strumentale, in termini di un fai da te", della cultura dei diritti civili. Quel “vivi come vuoi” emblematizza una certo agire culturale, come conseguimento individuale - ecco il punto interessante - del massimo di libertà, in chiave appunto di diritti civili, ma all’interno del sistema economico-sociale capitalistico.
Quanto alla controcultura come critica “sistemica” del capitalismo, all’epoca fortemente presente sia nei gruppi a “sinistra” del Movimento Sociale che a sinistra del Partito comunista, oggi in una società che celebra il neoliberismo, ne è rimasta traccia solo in alcune culture politiche, comunque molto attive, della destra e della sinistra radicale. Nonché nei cosiddetti movimenti di base ecologisti e in alcuni gruppi politici che rifiutano di riconoscersi nella destra e nella sinistra. Ma si tratta, per ora, di frange politicamente minoritarie.
Attraverso al sua valenza individualistica, la cultura dei diritti civili si è ben saldata “subculturalmente” con il neoliberismo (quale “subcultura” economica funzionale al capitalismo), in quanto entrambe dipendevano e dipendono da quell’individualistico, anche in senso economico, “vivi come vuoi, purché tu non metta in discussione il sistema”. Il ritorno al privato degli anni Ottanta, come prevalenza pre-politica di un diritto soggettivo alla felicità, di derivazione individualistico-sessantotttina (ma si potrebbe andare anche più indietro di qualche secolo...), non poteva non costituirsi come un dato subculturale e strutturale al tempo stesso. In che modo? Mescolando insieme, in chiave di sacro individualismo culturale, flessibilità contrattuale della famiglia e flessibilità lavorativa: libero accoppiamento e libero licenziamento.
Detto questo, restano oggi due possibilità. O quella di accontentarsi delle celebrazioni di maniera che impongono di scorgere nel Sessantotto solo una subcultura dei diritti civili, nel senso qui illustrato. Oppure tentare di unificare le due culture, cosa che però non riuscì neppure ai “sessantottini” profondamente divisi al loro interno proprio sul rapporto tra libertà formale, individualistica (i diritti civili) e sostanziale, collettivistica ( i diritti economici e sociali). E qui si pensi solo ai difficili rapporti all'epoca tra studenti ( a prevalenza sociale borghese, nelle sue varie sfumature fino all piccola borghesia) e operai (di estrazione proletaria).
Alcune conclusioni.
In primo luogo, crediamo si debba tornare a studiare seriamente il Sessantotto, soprattutto evitando le strumentalizzazioni ideologiche (riformiste e non). Esorcizzarlo o celebrarlo non serve a nulla. Anzi nella crisi attuale rischia di assumere il valore di un atteggiamento politico, comunque, incapacitante. Bisogna - ripetiamo - "mettersi" a studiare. "Applicarsi", e duramente.
In secondo luogo, riteniamo si debba accettare il fatto che esistono due Sessantotto, quello dei diritti civili e quello dei diritti economici e sociali. Il primo sistemico, il secondo antisistemico. Il primo riformista, il secondo potenzialmente rivoluzionario. Pertanto è totalmente sbagliato, ripetiamo, rifiutare “en bloc” il Sessantotto. Andrebbe invece individuato, diremmo "scientificamente", quel punto di discrimine fondamentale, interno al Sessantotto, tra individualismo e olismo ( o comunitarismo se si prefersice). Dal momento che il primo, può essere ricondotto all’individualismo borghese, sempre pronto a trasformarsi, come è regolarmente avvenuto in libertinismo collettivo e in conseguente e obbligato neoliberismo per tutti. Mentre il secondo a un collettivismo (o comunitarismo) antiborghese, dalle sfumature molto diverse secondo le differenti interpretazioni ideologiche e politiche dall’estrema destra all’estrema sinistra.
In terzo luogo, individuare le differenze e le ragioni per cui i due Sessantotto non si fusero, può essere importante per capire errori, differenze fondamentali, nonché per cercare di recuperare - e qui esprimiamo alcuni giudizi personali - la critica economica e sociale del Sessantotto al capitalismo. Una critica autenticamente ribelle e, se ci si passa l’espressione desueta: antipadronale. E quindi anticapitalista.
Viva il Sessantotto! Quello vero, rivoluzionario!