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Giovinezza... I giovani vogliono il potere? Se lo prendano.

di Adriano Scianca - 05/02/2008




 


«I giovani vogliono il potere? Se lo prendano. Mostrino i muscoli, se ne sono forniti, e il loro talento, se non ne sono sguarniti. Ma basta con le lamentazioni sulla gerontocrazia inamovibile, sui vecchi che occupano ogni spazio in modo prepotente e asfissiante». La gioventù dia «l’assalto alla Bastiglia dei vecchiacci che non si schiodano da sedie e poltrone. Senza lamentazioni, però. Anzi, cercando di dimostrare di essere i più bravi (sempre che sia vero)». L’invito è di Pierluigi Battista dalle colonne di ‘Style magazine’ (Vieni avanti, ragazzino, nel numero di gennaio-febbraio 2008) e suona come una condanna non solo per la gerontocrazia che asfissia il paese, ma anche per una certa gioventù che non sa più pensarsi come tale, che non sa essere creativa né conquistatrice.

Beninteso: la mancanza di ricambio generazionale nella società e nel mondo del lavoro è un problema grave, messo bene in luce, ad esempio, nell’ultimo libro di Giovanni Floris (Mal di merito, L'epidemia di raccomandazioni che paralizza l'Italia, Rizzoli 2007). «Secondo le statistiche – si legge nel testo – la nostra società è in mano agli ultracinquantenni, con un presidio molto forte di ultrasessantenni, e la percentuale di quarantenni nella stanza dei bottoni è irrisoria: sì e no il 5%». Chi ha parlato di “paese delle caste”, in questo senso, non è certo andato lontano dalla verità, posto che il sistema castale è esattamente quello in cui la mobilità sociale e la paretiana “circolazione delle elite” si riducono a zero. Continua Floris: «In Italia è semplicissimo, conoscendo i figli, risalire al mestiere del padre. Siete con un notaio? Il padre fa il notaio. Siete con un avvocato? Il padre fa l’avvocato. Imprenditore? Padre imprenditore. Giornalista? Padre giornalista. Operaio? Padre operaio». E giù dati e percentuali per illustrare nel dettaglio la situazione di un paese bloccato, incapace di selezionare nuove classe dirigenti e di dare adeguato spazio al valore e al merito di chi si affaccia nel mondo del lavoro.

Il confronto fra le classi politiche (di destra e di sinistra) dei paesi esteri e quelle (di destra e di sinistra) italiane è in questo senso particolarmente impietoso. Nel nostro Paese comandano sempre gli stessi e sempre gli stessi, che si vinca o che si perda, si ripresentano alle elezioni. La “casta” nasce anche da qui, dall’incapacità e dall’impossibilità del ricambio generazionale nelle stanze dei bottoni. All’estero si fa politica più o meno fino a sessanta anni. Dopodichè, soprattutto in caso di batosta elettorale, ci si ritira, si fa altro, si scoprono nuovi interessi. In Italia no. Il che certo non giova alle forze emergenti del paese.

Manca proprio quel compenetrarsi organico tra le differenti classe di età che ha caratterizzato i momenti meno decadenti della nostra storia. Nell’antichità europea, ricordava ad esempio già all’inizio degli anni ’80 Guillaume Faye, «non c'era transizione fra l'infanzia e l'età adulta. A Roma, si passava in un sol colpo dalla veste pretesta alla toga virile a diciotto anni. Nel Medioevo, da quando un apprendista cominciava a lavorare, quale che fosse la sua età, era integrato nel mondo degli adulti. I generali di Napoleone Bonaparte avevano spesso tra i venti e i venticinque anni, esattamente come i comandanti della battaglia di Cunaxa, descritta da Senofonte, che conducevano in battaglia le truppe di Sparta. I valori della gioventù erano organicamente integrati all'insieme sociale, allo stesso titolo di quelli dell'età matura e della vecchiaia, che rappresentavano la riflessione e l'esperienza. Gli uni controbilanciavano gli altri, senza conflitto. […] Giovinezza significava tutto il contrario di quanto significa oggi: non una seconda infanzia prolungata, ma l'ingresso nel mondo degli uomini, nel mondo vero. Per farla breve, non c'era giovanilità, ma la “giovinezza” penetrava i valori sociali. […] Il vero adulto — il vir dei Romani, il kalòs kàgathòs dei Greci — faceva coabitare in sé una giovinezza dionisiaca e una padronanza apollinea, ma soprattutto non intendeva “restare” giovane, proprio per poter attualizzare, in quanto adulto padrone di se stesso, quella parte del suo animo che, qualsiasi cosa succedesse, restava sempre creativa e giovanile». (Gli eroi sono stanchi, in ‘L’Uomo Libero’ n° 14, aprile 1983).

Faye cita Sparta, Roma, l’età napoleonica. Eppure il giovanilismo è stato il tratto preponderante di gran parte della cultura del primo novecento. Si pensi solo alle invettive di Giovanni Papini, che nel 1914 lanciava i suoi appelli infuocati contro l’istituzione scolastica. «Ma cosa hanno mai fatto – si chiedeva l’intellettuale toscano – i ragazzi, gli adolescenti, i giovanotti che dai sei fino ai dieci, ai quindici, ai venti, ai ventiquattro anni chiudete tante ore del giorno nelle vostre bianche galere per far patire il loro corpo e magagnare il loro cervello? […] Con quali traditori pretesti vi permettete di scemare il loro piacere e la loro libertà nell'età più bella della vita e di compromettere per sempre la freschezza e la sanità della loro intelligenza?». I giovani, insomma, come “nuovi barbari” ricolmi di energia vitalistica, venuti a redimere un mondo putrescente. «Bisogna chiuder le scuole - tutte le scuole – continuava Papini –. Dalla prima all'ultima. Asili e giardini d'infanzia; collegi e convitti; scuole primarie e secondarie; ginnasi e licei; scuole tecniche e istituti tecnici; università e accademie; scuole di commercio e scuole di guerra; istituti superiori e scuole d'applicazione; politecnici e magisteri. Dappertutto dove un uomo pretende d'insegnare ad altri uomini bisogna chiuder bottega. Non bisogna dar retta ai genitori in imbarazzo né ai professori disoccupati né ai librai in fallimento. Tutto s'accomoderà e si quieterà col tempo. Si troverà il modo di sapere (e di saper meglio e in meno tempo) senza bisogno di sacrificare i più begli anni della vita sulle panche delle semiprigioni governative».

Uno spirito libertario che sembra riecheggiare le tesi situazioniste di un Raoul Vaneigem. Ma che trova interessanti attualizzazioni anche in alcuni aspetti del fascismo che neppure un santone della cultura progressista italiana come Carlo Lizzani si è sentito di criticare in toto. In una celebre intervista a “Io Donna” di qualche mese fa, anzi, il regista che curò il documentario sui funerali di Enrico Berlinguer, parlò con toni molto ispirati della sua esperienza di ventenne nei Guf mussoliniani. Erano anni, quelli, in cui anche un ragazzo poteva «sentirsi parte di un processo più ampio, cioè la modernizzazione dell’Italia operata dal fascismo. Per noi ragazzi – continuava il cineasta – si aprirono le porte di pubblicazioni come “Primato”, con Bottai e altri gerarchi che offrivano la possibilità ai giovani di scrivere per le principali riviste. Il Centro sperimentale di cinematografia, un’invenzione fascista, proiettava i film sovietici. Ci sentivamo promossi come nessun’altra generazione prima di noi. Le parole d’ordine erano “largo ai giovani” e “la borghesia la seppelliremo”, mentre i nostri padri venivano da società gerontocratiche, bloccate. I Littoriali erano grandi gare giovanili che davano ai diciottenni l’opportunità di viaggiare, uscire di casa, sentirsi autonomi rispetto alla famiglia e ai canoni borghesi».

«Noi universitari – proseguiva Lizzani – eravamo nei Guf, i Gruppi universitari fascisti. Io addirittura al liceo, quando seppi che ai Guf si proiettavano opere che in giro non si vedevano, mi infilai e iniziai a frequentarli per vedere i film di René Clair e quelli del Centro sperimentale. Nel Radioguf i giovani si esercitavano a fare la radio. Ai Teatriguf fecero i primi provini Anna Proclemer e Giulietta Masina. Si veniva catapultati, con la possibilità di cimentarsi e mettersi alla prova. Oggi i Dams non hanno gli stessi mezzi. Di Teatroguf invece ce n’erano diciotto, e non solo a Roma e a Milano». Un protagonismo giovanile che sarà invece ignoto alle generazioni successive. Che anzi – e qui torniamo al discorso di Battista – sembrano accettare la gerontocrazia, l’immobilismo, la mancanza di sbocchi con una sorta di fatalismo tutto italiano.

Non a caso l’editorialista del Corriere della Sera cita il ‘68, epoca che fu probabilmente meno splendente di quanto non dicano le agiografie dei nostalgici di turno (del resto spesso riciclatisi in puri rappresentanti della Casta), ma che rappresentò in qualche modo l’ultimo tentativo di inverare l’auspicio di Marinetti: l’avvento dei giovani al potere. Esattamente in questo senso, il capofila della Nouvelle Droite francese Alain de Benoist ricorda come nel joli mai ci fosse «qualcosa che, non potendo sollevare veramente l’entusiasmo, riscaldava il cuore. In primo luogo le manifestazioni, con quell’atmosfera elettrizzante che sempre ne sprizza. Le grida lanciati a pieni polmoni, le strade prese d’assalto una dopo l’altra, le parole d’ordine, gli scontri […]. Sì, il maggio ‘68 fu un momento esaltato, una speranza di rivoluzione. Speranza delusa, ovviamente, ma perlomeno fu uno slancio, un desiderio, delle immagini». E una rivolta generazionale, aggiungiamo. Il che forse rappresenta l’unico vero messaggio che i giovani d’oggi dovrebbero trarre da quegli anni. L’idea dell’“assalto alla Bastiglia”. Eppure è esattamente questo che si è perso.

La generazione che “ha fatto il ’68” è divenuta la depositaria delle posizioni acquisite, non il trampolino verso nuove conquiste. Chiamiamoli, se vogliamo usare un linguaggio pseudohegeliano, i sessantottini “per sé” contrapposti al ’68 “ in sé”. I figli di questa cultura sono i giovani odierni che ricercano ossessivamente la “pacca sulla spalla” paternalistica per ottenere una propria nicchia di potere e visibilità che un sistema gerontocratico come pochi altri può usare come specchietto per le allodole. L’idea, insomma, è che in Italia giovani e vecchi provino lo stesso orrore per l’assunzione di responsabilità. E che i primi abbiano voglia di conquistarsi autonomamente il futuro tanto poco quanto i secondi ne hanno di lasciarglielo. Torna in mente quel passo dello Zarathustra in cui Nietzsche descrive la metamorfosi dello spirito che da cammello, disposto ad accollarsi su di sé l’eredità di valori e modi di pensare e parlare ereditati, diventa leone, per ribellarsi orgogliosamente contro ogni imposizione. E che poi, inappagato da ogni ribellismo sterile, diviene fanciullo per creare da sé il proprio mondo. «Il fanciullo – spiega il solitario di Sils Maria – è innocenza e dimenticanza, ritorno al principio, gioco, ruota che da sé gira, movimento iniziale, sacra affermazione. Sì, per il gioco della creazione, o fratelli miei, un sacro dir di sì alle cose: ecco, lo spirito vuole la propria volontà, chi ha perduto l'universo vuole conquistare il suo universo». Ma fra molti cammelli e qualche parodia di leone, il mondo sembra aver di nuovo bisogno di una generazione di fanciulli gioiosi e ribelli che vogliano conquistare il proprio universo.