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L'arte di insultare. Arthur Schopenhauer

di Marco Managò - 05/02/2008

 

L'arte di insultare. Arthur Schopenhauer


Preceduto da un’introduzione di Franco Volpi, il volume edito da Adelphi contiene una raccolta, per argomenti, di tutte le invettive perpetrate dal grande filosofo tedesco. Si tratta di una sorta di manuale pratico dell’insulto, rivolto al mondo intero, ai suoi protagonisti e alle sue strutture; una polemica continua nei confronti soprattutto delle donne e della filosofia accademica. Le invettive verso Hegel, riportate anche nei volumi letti da Schopenhauer, si accompagnano a una forte discriminazione verso l’universo femminile.
Sorretto da un animo ribelle e da una posizione privilegiata, di distacco e di agiatezza economica, il filosofo sente di non risparmiare epiteti. Sa che l’ingiuria non è la forma consona alle buone maniere e ne deplora l’uso pur ritenendolo inevitabile, soprattutto con certi interlocutori; in specie quando si affrontano diatribe nelle quali si sta per soccombere, dinanzi alla superiorità del prossimo, e allora l’insulto diviene l’ultima strada percorribile, l’estrema risorsa.
Alcune delle prese di posizioni di Schopenhauer sembrano di buona fattura e colgono nel segno scavalcando radicati pregiudizi, altre sconfinano nell’esagerazione vera e propria senza alcun supporto, etico e razionale.
Il titolo del volume non deve ingannare, in quanto l’autore non ha composto un trattato vero e proprio, con tale obiettivo, piuttosto il pamphlet risulta un compendio di scritti editi e inediti, spulciati fra le carte del filosofo tedesco.
Tra le prime invettive riportate, è il caso di ricordare la forte critica verso l’avanzare borghese a discapito della cultura e della tradizione classica europea, iniziando dal ridimensionamento della lingua latina. Si prosegue attraverso una critica all’amore e alle sue maligne tentazioni, fonte di male e di dolore.
Per avere un’idea chiara dei toni usati dal filosofo, è opportuno citare per intero una sua precisa polemica “vi sono certi individui sul cui viso è impressa una tale ingenua volgarità e una tale bassezza del modo di pensare, nonché una tale limitatezza bestiale dell’intelletto, che ci stupisce come mai siffatti individui abbiano il coraggio di uscire con un simile viso e non preferiscano portare una maschera”.
Un’altra diatriba è rivolta nei confronti dei carrettieri che hanno la smania di far schioccare la frusta per i propri cavalli, un’abitudine odiosa, inutile e rumorosa che si aggiunge al normale frastuono quotidiano e costituisce un grave attentato all’intelletto e allo svolgersi del pensiero umano.
Notevole considerazione viene attribuita al mondo animale, spesso sfruttato dall’uomo e, soprattutto, disconosciuto dalla chiesa.
La cavalleria (intesa come sinonimo di galateo) è al centro di pesanti critiche, considerata come un feticcio anacronistico, pedante con le donne e ricambiato dall’arroganza femminile; sesso al quale il filosofo non riconosce forza e vigore ma soltanto astuzie, anche di basso profilo, pur di sfidare l’uomo. In virtù di questo nega anche la partecipazione delle donne nelle aule di giustizia e, fedele ai suoi convincimenti, tracima in una negazione dell’intelletto femminile addossandogli responsabilità sociali, umane e storiche.
L’egoismo galoppante, che tramite l’astrologia ha la pretesa di relativizzare gli eventi stellari all’uomo, si concentra su una valutazione del singolo postosi al centro di un personale universo, incline ai pregiudizi, al conformismo e ostile all’innovatore, al sano e veritiero intelletto.
Alcune affermazioni si esprimono in poche parole e costituiscono degli aforismi interessanti. “L’intelletto non è una grandezza estensiva bensì intensiva: perciò un solo individuo può tranquillamente opporsi a diecimila, e un’assemblea di mille imbecilli non fa una persona intelligente”. Il filosofo, vittima dello squallore del proprio tempo, si giudica fuori dal secolo in corso e rimanda il giudizio a un tribunale dei tempi futuri.
Un’asserzione condivisibile è quella riguardante lo studio mnemonico, utile soltanto a gravarsi di un peso che non fa crescere, al contrario di chi studia per conoscere, con intelletto, e si eleva nella scala del sapere.
Un freno alla pretesa di dominare la filosofia, da parte dei celebrati professori, è doveroso, in quanto la materia non conosce ancora spazi ben delimitati e conosciuti. In più, i cattedratici si macchiano di ridicole pretese, si destreggiano tra servilismo e piaggeria e procedono in direzione contraria alla ricerca della verità e della conoscenza. Inutile il loro tentativo di circondarsi di paroloni, di panegirici, di neologismi, di inutili sofismi, proprio come l’odiato Hegel. Facile, per questi, barcamenarsi nell’omaggio degli adulatori, così forte al punto da svuotare la parola dei pochi oppositori, quasi convertiti. La vacuità delle tesi hegeliane dovrà, nelle parole di Schopenhauer, mostrare un giorno tutto il suo limite e quindi trascinarla a soccombere nel confronto.
Una frecciata è rivolta anche ai cultori della lingua francese, considerata un ibrido tra lingua romanza e termini latini mutilati, a dispetto del più nobile italiano.
Il gioco di carte, metafora del tentativo individuale di sottrarre qualcosa all’avversario, si nutre, altresì, di un vuoto di pensieri, di priorità illogiche e, purtroppo, di una diffusione notevole.
Singolare la definizione di natura che il filosofo offre, per dimostrare la futilità del singolo, in uno dei suoi scritti La natura parla così: “L’individuo non è nulla e meno di nulla. Ogni giorno distruggo milioni di individui per gioco e per passatempo: abbandono la loro sorte nelle mani del più lunatico e capriccioso dei miei figli, il caso…”.
La disaffezione per il valore del genere umano (intriso di stoltezza e malvagità) e la condanna per le sue meschinità risultano notevoli: agli uomini non si riconoscono particolari doti intellettive, salvo il nozionismo esasperato, il saper guardare e sentire, privandosi della memoria, senza andar oltre, senza cogliere una morale costruttiva nel corso dei secoli. Il sapere non si compra, né si relativizza all’immediato: “Sarebbe bene comprare libri, se insieme si potesse comprare il tempo per leggerli, ma di solito si scambia l’acquisto di libri per l’acquisizione del loro contenuto”. Spiega il filosofo.
La salvezza umana non avrebbe seguito neanche in caso di prosperità e benessere, in quanto in tale situazione prevarrebbe, comunque, l’avidità umana, sorretta dalla noia, e volta alla sopraffazione del prossimo. Nessuna fiducia, dunque, per l’umanità, meschina e codarda, come quegli articolisti che, con la scusa di non condizionare le masse e i recensori, lasciano anonimi i propri scritti per il terrore di assumersi le responsabilità e di sostenere le tesi esposte. Troppo spesso, nella vita, si resta condizionati dalla paura del giudizio del prossimo, dall’opinione altrui.
Tra gli scrittori, inoltre, bisogna distinguere le meteore, i pianeti e le stelle fisse: un paragone che calza bene per rendere l’idea del rilievo del letterato. Coloro che si elevano al nobile rango di stelle fisse debbono sopportare (particolare interessante) il lento trascorrere del tempo affinché la propria luce, la propria parola, possa essere captata dagli altri. Poca gloria, in definitiva, per i filosofastri da quattro soldi, nonostante il loro penoso tentativo, attraverso sofismi e panegirici infiniti, di incantare gli astanti.
L’esigenza dello Stato non deriva da nobili fini, di scopi supremi del genere umano, come qualche filosofo vorrebbe far credere, piuttosto si palesa come il mezzo concreto per provare a redimere le controversie e la bestialità degli uomini. L’egoismo trionfante, in cui le donne si rispecchiano maggiormente per il loro senso istintivo più che razionale, pone gli uomini in un continuo alternarsi di distanza e vicinanza, condizionato dalla mutua assistenza e dai contrasti latenti.
Come un gruppo di porcospini, spiega il filosofo, che si unisce per proteggersi dal freddo e poi si allarga perché i componenti tra loro si urtano dolorosamente. “La vita è una continua lotta per l’esistenza, con la certezza della sconfitta finale”. Afferma Schopenhauer.
In tale contesto la vanità materiale delle donne e quella immateriale degli uomini sono meschine illusioni che, supportate dalla malvagità e dalla menzogna, non regalano alcuna speranza al genere umano. Tale resa è sublimata dalla convinzione di parlare al prossimo come un bimbo dialoga con il proprio pupazzo, conscio di non essere capito, ma gioioso nell’esprimere le proprie parole.
Scrive Schopenhauer: “Quei diavoli in sembianze umane, i padroni e i trafficanti di schiavi nei liberi Stati dell’America del Nord (che dovrebbero essere chiamati “Stati degli schiavi”), sono di regola seguaci ortodossi e devoti della Chiesa anglicana: considererebbero un grave peccato lavorare di domenica e, contando sulla loro osservanza, sulla frequentazione assidua della chiesa e su altre cose del genere, sperano nella propria salvezza eterna”.
Gli Usa, continua, si fondano su una cultura astratta del diritto, poco rispondente alla realtà dove, invece, prosperano ingiustizie, sopraffazioni e razzismo dominate dal ferreo utilitarismo.
Il pessimismo di Schopenhauer coinvolge quasi tutti gli aspetti dell’umanità, in alcuni casi rasentando anche l’esagerazione; costituisce, in ogni caso, un valido mezzo di denuncia delle istituzioni, dei benpensanti e degli accademici del tempo, contro i quali, pena la scomunica sociale, era impossibile sostenere dubbi e critiche. Supportati dalla piaggeria dell’epoca, tali imbonitori decidevano anche delle scelte culturali e filosofiche dei loro contemporanei, in una laica Inquisizione.