Ruspe e polizia: lo chiamano progresso
di Giovanni Carrosio - 09/01/2006
Fonte: decrescita.it
"Coloro che esercitano il potere aggiustano sempre le cose in modo tale da dare alla loro tirannia l'apparenza di giustizia"
Ormai non si ci può più fidare delle parole. Chi ha più forza le prende, le trasforma nel significato, le ricolloca nel lessico politico e poi te le scaraventa addosso, senza che tu possa obiettare l'utilizzo che ne viene fatto. È sempre stato così. Da guerra che vuol dire pace, a tolleranza che sta per repressione.
È così per compassione, parola bellissima, che evocava il senso di appropriazione della sofferenza altrui, ti vedo soffrire e voglio anch'io provare la sofferenza per capire che senso abbia la tua disperazione. Una parola rivoluzionaria, perché se davvero provi a caricare sul tuo corpo la rabbia e la disperazione di un popolo oppresso, la vergogna e la solitudine di un senza tetto, la nostalgia e la schiavitù di un migrante, la spoliazione e la voglia di volare di un prigioniero, allora il peso diventa troppo grande perché tu non cominci a gridare, e, dopo aver gridato, qualcosa lo devi fare, a guardare non ci puoi stare più. Ma poi la parola compassione è stata disinnescata, tutto è cominciato con il suo connubio con la parola carità. È bastato il proferire di un cardinale perché compassione si tramutasse nel suo opposto, nella voglia di tenere lontana dai nostri occhi la sofferenza che sta altrove, facendo sì che qualche soldo scaraventato in malo modo fosse sufficiente per alleviarla.
E così quante le parole espropriate del loro senso, democrazia, eguaglianza, scuola, salute. Il problema non è soltanto nel significato attribuito, ma nelle conseguenze che il significato porta con sé. Il significato ha un aspetto fortemente normativo, se pace vuol dire pacificazione, allora ben venga la guerra, e così guerra prende il posto di pace, tanto che soldato diventa portatore di pace e pacifista rima bene con terrorista. Questo è il potere. Già La Fontaine nel 1668 scrisse che chi esercita il potere riesce a mascherare talmente la realtà, che trova sempre un modo per far apparire l'esercizio di forza come esercizio di giustizia. E il celebre fanno un deserto e lo chiamano pace risale a tempi molto più remoti (Tucidide, storico ateniese, 416 a.C.).
Progresso è una parola ambigua, già di per sé problematica. Un tempo appannaggio esclusivo della sinistra, che non per altro aveva l'ambizione di unire tutte le forze così dette progressiste, e oggi terreno di tutti, ormai intrisa di nuovi significati e tutt'uno con modernizzazione. Un tempo parola del proletariato che rivendicava diritti e liberazione dallo sfruttamento del lavoro salariato, sinonimo di pace, lavoro, giustizia, oggi parola del potere, snaturata, progresso come idolatria del novum, corsa folle verso il traguardo dell'illimitatezza. Progresso come idolatria del produttivismo, dove l'accrescimento degli scambi commerciali e del volume dei beni prodotti sono un valore di per sé, al di là della qualità del bene, delle conseguenze sulla socialità, sull'ambiente, sul nostro vivere quotidiano. Il progresso è diventato la credenza del potere, la sua religione privilegiata, con i suoi riti e le sue pratiche quotidiane: espropri e soprusi, distruzione delle risorse naturali e sospensione della democrazia.
Ma già, anche democrazia ha perso il suo senso, tant'è vero che la sua sospensione è oggi interpretata come funzionale al suo mantenimento. Gli accadimenti di questi giorni in Valle Susa ci narrano di tutto questo. Non sia mai che quattro bifolchi montanari fermino il progresso soltanto perché vogliono decidere loro che cosa fare della loro terra! Spetta a noi decidere, solo noi siamo legittimati, a noi è stato delegato il potere! E allora via a sospendere i diritti elementari di una valle, scaraventare miglia di poliziotti a presidiare il territorio, impedire ai giornalisti di entrare e raccontare, obbligare gli abitanti ad esibire documenti di riconoscimento in casa loro.
Forse bisogna ripartire dalla riappropriazione delle parole, ridare loro il significato originario, caricarle di nuovo di una grande spinta ideale. Oppure lasciamole perdere, ormai sono state plasmate sui futili giochi del potere. Usiamone altre, più fresche, non ancora espropriate. Il nostro progresso chiamiamolo decrescita, la nostra democrazia chiamiamola omnicrazia, la nostra compassione chiamiamola compresenza. E questa volta non lasciamocele strappare. Se c'è un modo per difenderle è cominciare a praticarle.