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Fiera del libro: dietro le quinte c'è la Palestina

di Stefano Sarfati Nahmad - 06/02/2008

 

Un articolo sul quotidiano israeliano Haaretz del 6 agosto 2007 spiega che dietro questo gran via vai di scrittori israeliani in giro per il mondo e dietro un certo numero di traduzioni di loro libri in diverse lingue, c’è una persona che si chiama Dan Orian capo del settore letteratura al DCSA (Division for Cultural and Scientific Affaire) una divisione del Ministero degli Esteri israeliano. Spiega la giornalista Shiri Lev-Ari: «Gli scrittori cercano di promuovere il loro lavoro all’estero e il Ministero degli Esteri vuole utilizzarli per mostrare la faccia più attraente e sana di Israele»; «Dan Orian - scrive la giornalista - vede la letteratura israeliana come una parte del lavoro di public relations». Dice Dan Orian: «Siamo percepiti come un paese aggressivo, che impone chiusure sui territori, ma improvvisamente appare una scrittrice che parla di relazioni familiari, con una scrittura molto “non politica”. Questo può cambiare l’intera percezione della società israeliana».

Questo per dire cosa c’è dietro le quinte del dibattito sulla Fiera Internazionale del Libro di Torino, sul cui sito ufficiale, si legge: «Sarà Israele il Paese ospite d’onore alla Fiera 2008. In occasione della ricorrenza del 60° anniversario della sua fondazione, Israele ha scelto Torino come la vetrina più adatta per far conoscere e discutere la propria identità culturale». Israele ha scelto la vetrina più adatta… per le sue public relations.

Uno degli scrittori che pare sarà presente alla Fiera del Libro sarà Aron Appelfeld, deportato insieme al padre in un campo di concentramento in Ucraina quando aveva appena 8 anni, dopo aver sentito l’urlo di sua madre che veniva ammazzata. Miracolosamente sopravvissuto, nel 1946 immigra in Palestina. Di lingua madre tedesca (il suo diario al tempo del suo arrivo in Palestina è «un mosaico di parole in tedesco, yiddish, ebraico e ruteno»), Appelfeld decide di scrivere in ebraico, anche se il primo libro in questa lingua lo compra quando aveva già 25 anni. Nel suo capolavoro assoluto che è Storia di una vita (edizioni Giuntina) racconta tra le altre cose del recinto Keffer dove i tedeschi nel campo di concentramento di Kaltschund tenevano cani feroci e dove buttavano i bambini, inutili per il duro lavoro di fondere metalli e produrre armi. Una volta uno ne uscì, ma non parlava più, abbozzava un latrato.

Ditemi adesso, come posso io dire a questo signore, che ha scritto un libro che conservo come un tesoro, che è testimone vivente della Shoah, di non prestarsi al gioco delle public relations? Eppure dovrei, devo trovare le parole per mettere di seguito al suo nome, alla sua esperienza, quella dei palestinesi che hanno dovuto lasciare la terra dove abitavano per far posto a lui e alla nascente società israeliana. Ma non ne sono capace, preferisco allora riportare alcune parole di una donna Israeliana, Nurit Peled, pronunciate durante un discorso tenuto il 28 dicembre 2007 intitolato: La mamma ebrea sta scomparendo.

«Voglio dedicare le mie parole ai bambini della Striscia di Gaza, che si stanno lentamente consumando per fame e malattia, e alle loro mamme che continuano a portare bambini in questo mondo, a nutrirli e a educarli in modo meraviglioso. Oggi, il tasso di alfabetizzazione nella Striscia di Gaza è al 92%, tra i più elevati al mondo, e questo nel più terribile campo di concentramento sulla terra, i cui abitanti vengono soffocati mentre il mondo civilizzato guarda in silenzio. Nello Stato di Israele, la mamma ebrea è in via di estinzione. La mamma ebrea di oggi è segregata in quartieri come Mea Shearim; lì le madri proteggono i figli dall’esercito, ma fuori da quei quartieri non si sente la voce della mamma ebrea tranne che in organizzazioni come le Donne in Nero che la società in generale condanna e diffama. Lo Stato di Israele condanna e diffama la voce della mamma ebrea che è la voce della compassione, della tolleranza e del dialogo. Lo Stato di Israele fa tutto quel che può per rendere quella voce muta per sempre. Pochi sono i genitori in Israele che ammettono a loro stessi che a uccidere bambini, distruggere case, sradicare ulivi, avvelenare i pozzi sono nessun altro che i loro bellissimi figli e figlie, i loro ragazzi che in questo posto sono stati educati, negli anni, alla scuola dell’odio e del razzismo. I ragazzi che hanno imparato per 18 anni a temere e disprezzare lo straniero, ad avere sempre paura dei vicini, dei gentili, ragazzi che sono stati cresciuti nella paura dell’Islam - una paura che li prepara a essere soldati brutali e discepoli di assassini di massa. E non solo questi ragazzi uccidono e torturano, lo fanno col supporto di mamma, con la piena approvazione di papà, incoraggiati da tutto il Paese, che davanti alla morte di un bambino, di un anziano, di un disabile non fa molto più che alzare un sopraciglio. Un Paese che manda in giro piloti d’aereo che non sentono nulla, se non una leggera scossa d’ala, quando sganciano bombe su intere famiglie e le schianta a morte».

Torno a usare le mie parole e mi chiedo: ha senso, oggi, parlare di Israele senza parlare di Palestina? La cecità politica di una classe dirigente accecata dalla brama dell’espansione territoriale, ha portato oggi a una situazione sul terreno tale da rendere impossibile la soluzione dei due Stati a meno di enormi cambiamenti. Oggi Israele è già un paese che, potenza economica regionale, potenza militare mondiale, si estende dal Mediterraneo al Giordano, con al suo interno isole sigillate abitate da una popolazione «altra». Oggi Israele è uno Stato che pratica l’apartheid.

Possiamo anche divertirci a vedere «la faccia più attraente e sana di Israele» ma questo non cambia la realtà di quello che oggi Israele è. Non so cosa pensare del boicottaggio, penso solo che se fossi uno scrittore palestinese ci penserei due volte prima di accettare l’invito ad andare a Torino a rendere credibile il «prodotto Israele», nella celebrazione dei suoi sessant’anni.