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Iraq, Ritorno a Falluja

di Patrick Cockburn - 06/02/2008



Entrare a Falluja è più difficile che in qualunque altra città del mondo. Sulla strada da Baghdad ho contato 27 checkpoint, tutti gestiti da soldati e poliziotti armati fino ai denti. "L’assedio è totale", dice il dr Kamal del Falluja Hospital, mentre elenca in modo sconsolato le sue necessità, che comprendono tutto – dai farmaci e dall’ossigeno, all’elettricità e all’acqua pulita.

L’ultima volta che avevo tentato di andare in macchina a Falluja, diversi anni fa, mi ero trovato nel mezzo di un’imboscata tesa a un convoglio americano che trasportava carburante, e avevo dovuto uscire dall’auto a carponi e stendermi al lato della strada assieme all’autista, mentre i soldati Usa e i guerriglieri si sparavano fra loro. Ora la strada è molto più sicura, ma a Falluja non è permesso entrare a nessuno che non sia della città e possa dimostrarlo attraverso un sistema elaborato di documenti di identità. La città è stata isolata dal novembre 2004, quando i Marine Usa l’hanno presa d’assalto, in un attacco che l’ha lasciata in gran parte in rovine.

A vedere le sue strade, con i muri bucherellati dai fori dei proiettili e gli edifici ridotti a un cumulo di lastre di cemento, sembra ancora come se i combattimenti fossero finiti solo da poche settimane.

Sono andato a vedere il vecchio ponte sull’Eufrate alle cui travi d’acciaio gli abitanti di Falluja avevano appeso i corpi carbonizzati di due agenti di sicurezza privati americani uccisi dai guerriglieri – l’incidente che provocò la prima battaglia di Falluja. Il ponte a una sola corsia è ancora lì, dominato dai resti di un edificio bombardato o colpito dall’artiglieria, il cui tetto sfondato sovrasta la strada, e le cui lastre in cemento sono tenute a posto da una rete di ferro arrugginita.

Il capo della polizia di Falluja, Colonnello Feisal Ismail Hassan al-Zubai, stava cercando di mostrare che la sua città sta migliorando.

Mentre guardavamo il ponte, si era radunata una piccola folla, e un uomo anziano con un cappotto marrone ha urlato: "Non abbiamo elettricità, non abbiamo acqua".

Altri hanno confermato che a Falluja c’è un’ora di elettricità al giorno. Il Colonnello Feisal ha detto che non c’è molto che possa fare per l’acqua o l’elettricità, anche se ha promesso a un uomo che una recinzione di filo spinato affilato fuori dal suo ristorante sarebbe stata rimossa.

Può darsi che Falluja sia meglio di prima, ma deve ancora fare molta strada. I medici dell’ospedale confermano di ricevere poche vittime di sparatorie o di esplosioni da quando il movimento del Risveglio ha cacciato dalla città al-Qa'ida, negli ultimi sei mesi, ma la gente ancora cammina per strada guardinga, come se si aspettasse che da un momento all’altro scoppi una sparatoria.

Il Colonnello Feisal, un ex ufficiale delle Forze speciali di Saddam Hussein, ammette allegramente che, prima di fare il capo della polizia, "combattevo gli americani". Il fratello, Abu Maruf, un ex comandante della guerriglia, controlla 13.000 combattenti del movimento del Risveglio anti-al-Qa'ida a Falluja e nei dintorni. Il colonnello sottolinea che le strade di Falluja adesso sono totalmente sicure, ma il suo convoglio andava a tutta velocità, aperto da un poliziotto in cima a un veicolo, col volto nascosto da un passamontagna bianco, che impugnava una mitragliatrice facendo cenno freneticamente ai veicoli in arrivo di scansarsi.

La stazione di polizia è grande e protetta da barriere in cemento e terra. Proprio una volta arrivati nel cortile interno, abbiamo visto segni che la battaglia contro al-Qa'ida può essere finita, ma gli arresti continuano. Da un’altra parte dell’edificio è spuntata una fila di 20 prigionieri, ciascuno dei quali aveva gli occhi coperti da una benda bianca, e si aggrappava agli abiti del prigioniero che lo precedeva. I prigionieri mi hanno fatto ricordare alcune fotografie di uomini accecati dal gas nella Prima guerra mondiale che barcollavano dietro un solo uomo che vedeva, e che, in questo caso, era una guardia carceraria.

Sulla strada principale ci sono nuovi edifici. Di solito mangiavo in un ristorante di kebab chiamato Haji Hussein, che era uno dei migliori in Iraq. In seguito, mentre l’occupazione continuava, avevo cominciato ad attirare molti sguardi fissi ostili. Il gestore suggerì che forse sarebbe stato più sicuro se avessi mangiato al piano di sopra in una stanza vuota, e poco dopo il posto è stato distrutto da una bomba americana. Adesso è stato ricostruito con colori pacchiani, e sembra che stia facendo buoni affari.

Una volta Falluja aveva una popolazione di 600.000 abitanti, ma nessuno dei funzionari cittadini sembrava sapere quanti ce ne siano adesso. Il colonnello Feisal spera negli investimenti, e ci ha portato in un edificio nuovo, bianco, chiamato Falluja Business Development Centre, che era stato in parte finanziato da un ramo del Dipartimento di Stato Usa. Soldati americani alti stavano di guardia a una conferenza sullo sviluppo delle imprese. "Finora ha attratto un investitore americano", dice fiduciosamente un consigliere americano in divisa. "Mi chiamo Sarah e mi occupo di operazioni psicologiche", dice un altro ufficiale statunitense e ci accompagna orgogliosa a vedere una “radio Falluja” creata da poco.

All’altro capo della città, attraversiamo il ponte di ferro costruito all’incirca nel 1930 che adesso è l’unico collegamento con il lato opposto dell’Eufrate. Mezzo miglio a valle c’è un ponte moderno, ma ne ha preso possesso l’esercito americano che, dice la gente del posto, lo utilizza come parcheggio per i veicoli. Dall’altra parte del ponte, oltre le zone di alti giunchi, dove avevano cercato nascondiglio coloro che fuggivano dalla città durante gli assedi del 2004, su un lato della strada c’è un edificio sventrato dalle bombe. Dall’altro lato c’è l’ospedale, i cui funzionari i comandanti statunitensi accusavano di esagerare sistematicamente il numero delle vittime dei bombardamenti americani.

Quando ho chiesto che cosa mancava all’ospedale, il dr.Kamal ha risposto esausto: "Medicine, carburante, elettricità, generatori, un sistema per il trattamento delle acque, ossigeno, e attrezzature mediche". E’ stato difficile non pensare che gli aiuti americani sarebbero potuti andare all’ospedale invece che al centro per lo sviluppo delle imprese.

Il colonnello Feisal diceva che le cose stanno migliorando, ma gli si sono affollate attorno donne vestite di nero dalla testa ai piedi che urlavano che i loro figli non erano stati curati.

"Ogni giorno qui muoiono 20 bambini", ha detto una. "Sette proprio in questa stanza".

I medici dicevano di fare il meglio possibile per prendersi cura dei loro pazienti. "Gli americani non ci danno niente", ha detto una madre che stava cullando un bambino. "Ci portano soltanto distruzione".


 
(Traduzione di Ornella Sangiovanni)

Articolo originale

The Independent