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Il ritorno della grande storia

di Leopoldo Fabiani - 06/02/2008

Gli sviluppi della storiografia negli ultimi sessant’anni e il rapporto fra ricerca storica e formazione dei valori nella nostra società sono gli argomenti al centro dell’intervista di Leopodo Fabiani al modernista Rosario Villari. L’opinione di Villari è che la “nuova storia” delle Annales, basata sulle strutture di lunga durata teorizzate da Fernand Braudel, da un lato sia stata utile perché ha permesso di descrivere la complessità del mondo, ma dall’altro abbia bloccato in strutture quasi immobili gli aspetti particolari e individuali della storia umana. Villari è convinto che i grandi cambiamenti del mondo contemporaneo spingono verso una nuova trasformazione della ricerca storica. Essa si caratterizzerà sia per l’allargamento dei temi da indagare sia per la comparazione fra nazioni, civiltà e religioni di tutto il mondo.

«Le comunità in cui la conoscenza della storia è più radicata e diffusa hanno qualche vantaggio rispetto a quelle in cui prevale la strumentalizzazione politica, la visione retorica o il culto integralista del passato. Purtroppo, però, queste ultime sono più numerose delle altre». Il ruolo del sapere storico nella formazione dei valori di una società è da tempo al centro dell’attenzione di Rosario Villari, storico di fama internazionale, autore di fodamentali studi sul Seicento e di opere di sintesi che abbracciano vasti periodi. Dalle sue riflessioni è scaturita una ricostruzione dell’evolversi di questa disciplina negli ultimi anni, con giudizi per nulla scontati e che non mancheranno di fare discutere.

Professor Villari, la produzione di opere storiche è molto ricca, la divulgazione anche televisiva conosce una grande fortuna, eppure la storia come disciplina sembra incidere sempre meno nel dibattito pubblico, nella riflessione sul presente dove invece occupano la scena filosofi, sociologi, antropologi, scrittori. È d’accordo? E come lo spiega?
«Per comprendere lo stato attuale della storiografia il punto di partenza è la “rivoluzione storiografica” [...] della seconda metà del secolo scorso. La scoperta della storia sociale ha comportato un decisivo allargamento degli orizzonti. La vecchia storia di sovrani, ministri, generali, cardinali, ambasciatori, grandi dame, e il connesso eurocentrismo sono stati in gran parte superati. La storia è stata “spazzolata contropelo”, come aveva scritto Walter Benjamin. La cosiddetta “nuova storia” si è proposta di inserire tra le forze creative o tra le testimonianze decisive anche le classi popolari e subalterne, donne, emarginati, schiavi, popolazioni coloniali. Il suo obiettivo ideale era la “storia totale”».

Obiettivo molto ambizioso.
«Un ideale a cui tendere sapendo che non si può raggiungere. Ad ogni modo il movimento rinnovatore ha avuto un grande successo. Ma gli stessi fattori del successo contenevano elementi di contraddizione e di crisi. L’indiscriminata moltiplicazione degli argomenti di ricerca, la svalutazione degli avvenimenti, il disinteresse per la storia politica, l’ideologismo, l’occasionalità delle scelte tematiche hanno prodotto una grande frammentazione e una rigida chiusura settoriale».

L’opera di Braudel sul Mediterraneo nell’epoca di Filippo II è tipica di questa storiografia?
«È una delle grandi opere che hanno preparato la cosiddetta rivoluzione storiografica ma è anche destinata a sopravviverle. Fondata sulle strutture di lunga durata, l’ambiente geografico, la mentalità, i condizionamenti naturali dei sistemi economici, è ricchissima di immagini multiformi che descrivono la grande complessità di un mondo. Ma è una storia quasi immobile. La volontà creativa di singole personalità, di comunità e di gruppi più o meno organizzati rimangono nell’ombra, ai margini. A mio avviso, invece, la storia è essenzialmente movimento».

C’è anche stata una reazione a questa storia “strutturale”.
«Tra le diverse esperienze revisionistiche c’è stata anzitutto la tendenza a riprendere, rinnovandoli, alcuni caratteri propri della storiografia tradizionale: la narrazione storica di contro alle disumane raccolte di dati statistici fatte dagli oltranzisti della “storia quantitativa”; un rinnovato entusiasmo per le biografie; il riconoscimento del ruolo della personalità nella storia; una concezione più complessa e più aperta della storia politica. Anche eminenti collaboratori delle Annales, la rivista che è stata il principale centro di promozione della nuova storia, sono stati tra i protagonisti più brillanti di questa revisione. Ma più popolari sono stati, tra i vari revisionismi, il rovesciamento meccanico dei giudizi tradizionali, i processi di tipo giudiziario a personaggi e decisioni del passato, le disinvolte concessioni allo spettacolo. Sul versante più alto della ricerca, Carlo Ginzburg è stato il promotore e l’esponente più illustre della cosiddetta microstoria. Il suo volume Il formaggio e i vermi ha avuto meritatamente un successo mondiale. Ma anche la pratica diffusa della microstoria ha dato il suo apporto alla frammentazione ed alla trivializzazione della storiografia. La ricerca di nuovi fondamenti metodologici ha seguito infine la via di un ripensamento del rapporto tra fatti e linguaggio».

A cosa si riferisce?
«Mi limito ad un esempio. Nel 1982 ho partecipato, insieme agli amici Arno Mayer e Robert Tucker, ad una conferenza di Hayden White, il teorico della Metastoria, nell’Università di Princeton. Si discuteva allora sulla stampa la questione del grado di conoscenza che Hitler aveva dell’entità e dei caratteri della Shoah. A queste discussioni, da lui ritenute inutili, White oppose una spiegazione “metastorica” dell’episodio più terribile della storia del mondo contemporaneo. Nel mio ricordo è rimasta forse qualche forzatura. Ebbi comunque l’impressione che, ferma restando l’idea della responsabilità del nazismo, egli suggerisse la necessità di considerare anche la propensione dello stesso popolo ebraico all’autopunizione ed alla negazione di sé. La dimostrazione? Nelle pagine del Vecchio Testamento».

Siamo in una crisi molto profonda.
«Non credo che la storia stia perdendo la sua centralità culturale. L’influenza del modello “nuova storia” delle Annales è in decadenza. La microstoria è diventata evanescente. La spettacolarizzazione e l’abuso politico della storia, invece, tengono il campo. Ma in generale assistiamo ad una fase di apertura, dinamismo e vitalità degli studi storici e ad una più ampia presenza della riflessione storica nella comunicazione di massa. Gli ottimisti, o nostalgici, pensano perfino ad una nuova epoca d’oro della concezione storicistica della conoscenza. Le grandi trasformazioni del mondo contemporaneo, l’unificazione europea, l’interdipendenza tra le varie parti del mondo, l’enorme espansione della comunicazione e la globalizzazione contribuiscono a sostenere il rinnovamento della ricerca storica. Il risultato è, da una parte, un illimitato arricchimento di temi particolari e, dall’altra, una più intensa comparazione tra le nazioni, tra i continenti, tra diverse civiltà e religioni, l’acquisto di un punto di vista più ampio nel tempo e nello spazio. Gli esempi di una storia compatta e articolata, che non rinnega le conquiste del passato cinquantennio e non cade nelle angustie del settorialismo e della frammentazione o nel revisionismo subordinato, non sono pochi». [...]

C’è insomma una rinnovata attenzione ai massimi sistemi.
«Il problema non è la dimensione dell’argomento ma il modo di affrontarlo. Ho appena cominciato a leggere un libro che riguarda un piccolo oggetto, la frusta. Seguendo la sua storia dal Medioevo ai nostri tempi, l’autore, Niklaus Largier, affronta grandi problemi della spiritualità e della sensibilità umana: l’intreccio tra sofferenza fisica e beatitudine spirituale nel cristianesimo medievale e moderno; la critica settecentesca della flagellazione religiosa fino alla ripresa in chiave erotica del rapporto tra pena e godimento nell’opera del marchese de Sade; la lunga storia del “vizio inglese” e i complicati percorsi dei tormenti amorosi nelle opere di Proust e Joyce». [...]