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Il mestiere dell'antropologo

di Marco Managò - 06/02/2008

 

Il mestiere dell'antropologo



Il piccolo trattato pubblicato da Bollati Boringhieri Editore, opera del professor Marc Augé (corredata da una seconda sezione del collega Marco Aime), è un’interessante speculazione riguardo le figure dell’etnologo e dell’antropologo, con una valida dissertazione finale sugli sviluppi delle società moderne.
Innanzitutto la chiarificazione della storicità delle scienze sociali, pervase nel midollo da trasformazioni e progressi, al contrario delle scienze naturali, e contraddistinte da una storia “interna”, quella dei metodi e dei codici, e una “esterna”, applicata al contesto sociale. Un divenire continuo che naturalmente relativizza le scienze sociali.
Gli etnologi, spiega l’autore, alle prese con i costumi e le tradizioni alla base delle varie culture, hanno compreso come, oggetto del loro studio dovesse essere lo spazio, ma anche il tempo, sia attraverso il rituale e ciclico svolgersi, sia per l’uso che le società tradizionali ne fanno, accettando la storia e mirando a una stabilità che avversi l’avvenimento; nulla di meno, in sostanza, delle moderne società occidentali, attentissime a prevenire e a cavalcare il rischio e l’imprevisto.
Il meccanismo di difesa e di conservazione del gruppo sociale è continuamente in funzione e, in una sorta di antropologia locale, si accentua nei casi di morte di un componente.
L’esistenza della persona in quanto tale, ma soprattutto elemento di un corpo sociale nel quale è legato e si sublima, è efficacemente descritto come “… appartenenza a stirpe agnatizia, a stirpe uterina, rapporti di filiazione e di alleanza, posizione nella fratria, appartenenza a una classe d’età…”.
Aggiunge Augé: “Gli etnologi hanno ratificato l’esistenza di “culture” in questa doppia dimensione intellettuale e istituzionale, interessandosi ai rapporti di filiazione, alleanza o potere, ma anche ai miti e ai riti, tutte realtà antropologiche che impongono agli uomini in società di sottomettersi al tempo per accettare la morte, e di reinventarlo per vivere insieme”.
Negli anni lo studio antropologico ha perso la sua iniziale connotazione, di ricerca delle società in estinzione, per rivolgersi a qualunque rapporto tra il senso sociale e la libertà individuale, in società più aperte al cambiamento e altre più radicate nel loro conservatorismo.
Per quanto lo sforzo dell’antropologo sia quello di immedesimarsi, il più possibile, nel tessuto culturale e sociale di una comunità, sottoponendosi anche a riti locali, il risultato sarà sempre quello di un innesto artificioso, in grado di condizionare le interazioni col gruppo. Una fusione totale nel gruppo, pur rinunciando alle proprie abitudini, rimane, per l’antropologo, una mera illusione.
Il rischio di soffermarsi sull’osservazione dall’esterno di una comunità, oscilla tra uno strisciante senso di poter dominare ciò che si osserva e una distaccata rinuncia a voler descrivere altre situazioni, proprio perché impossibile compenetrarsi del tutto.
Il carattere originario dell’antropologia, fondato su base missionaria e religiosa, permeato da un inevitabile desiderio di universalismo e privo di senso scientifico, cozza, inevitabilmente, con il pluralismo culturale (che, puntualizza l’autore, può esser sostituito addirittura col termine di transculturalismo) proprio per le continue interazioni tra genti diverse, più che sistemi tra loro non comunicanti.
L’antropologo moderno, e non missionario, riveste un ruolo che soltanto da un secolo è vera e propria professione. La sua esigenza di schematizzare e pubblicizzare ciò che è per natura eterogeneo, deve poter sempre dimostrare la capacità critica, selettiva e obiettiva.
La letteratura, il passaggio alla forma scritta, tende verso una certa oggettivizzazione; consente, però, anche di allargare il campo d’azione nonché di fissare dati come base per nuovi sviluppi. Tacciata per questa inclinazione alla scrittura, l’antropologia più efficace e duratura sarà proprio quella scorsa attraverso i testi scritti, in cui, per dirla come l’autore “… la scrittura dell’antropologo, letteraria o meno, non ha come vocazione primaria la pretesa di esprimere la cosiddetta ineffabilità di ogni cultura: riferisce un’esperienza dove l’individuo ha la sua parte e la apre al confronto”.
L’espressione letteraria, inoltre, non deve intendersi come esclusivamente autobiografica, né tendere verso la dicotomia scienziato-romanziere.
L’antropologo moderno si muove secondo una professionalità mutevole, non codificata da leggi o corporazioni di mestiere, adattandosi a un ambiente sempre più evoluto, certo molto distante da quello delle società “primitive” all’origine dei primi studi.
Lo studioso si avvale di mezzi informatici, di mediatori culturali e di strumenti di osservazione ben diversi da quelli originari e semplici; anche l’oggetto dello studio non è più la società tribale e semisconosciuta, si aggiunge la valutazione dei micro e macrocosmi urbani e dei fenomeni di immigrazione di massa.
Aime osserva come si sia avvertita una maggiore presa di coscienza da parte dell’antropologo stesso che, forte del suo necessario ed elitario distacco, giudica spesso, con termini e freddi codici, ciò che fa parte del nostro tempo, anche se scorre con variabili diverse. Un atto di autocritica e di invito ad abbandonare stereotipi e legacci culturali. Scrive Aime: “In passato l’antropologo sembrava arrampicarsi sul muro che divideva la sua cultura da quella degli “osservati” e, appoggiato a quel muro, osservava. Con il tempo ci si è accorti che quel muro, spesso, siamo stati noi a costruirlo, grazie anche al materiale fornito dall’antropologia, e che quella barriera rigida viveva più nella nostra mente che nella realtà”.
Occorre rimarcare quanto, a fronte di un’oggettività scientifica ricercata forzosamente, l’antropologia sia, piuttosto, correlata di soggettività legata a fenomeni circostanziali, nonché a un elevato grado di casualità nella stessa scelta dei soggetti con cui sviluppare inchieste e studi. La discrezionalità di tale scelta pone numerosi interrogativi sulla scientificità della materia.
E’ importante ricordare un aspetto molto interessante: spesso gli antropologi realizzano un forte legame con la comunità con cui convivono, una sorta di alleanza che li conduce alla fama e al riconoscimento internazionale; in parecchi casi rimane forte il vincolo e la riconoscenza per il risultato raggiunto, nonché per la nomea conquistata e associata all’etnia dello studio.
Le caratteristiche ambientali su cui lavorare sono mutate negli anni e, nel periodo moderno, hanno subito decisive accelerazioni, in virtù di una globalizzazione culturale (e non solo) che annulla distanze e differenze.
Impossibile per etnologi e antropologi riproporre un quadro selvaggio o comunque molto distante dalle abitudini occidentali; si delinea, piuttosto, una situazione omogenea e indifferenziata, innaturale e sterile, sul quale provare a trovare spunti interessanti.