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La pittura di Maurice Utrillo, poeta della malinconia*

di Francesco Lamendola - 07/02/2008

 

 

 

Maurice Utrillo: chi era costui?, potremmo domandarci, parafrasando I promessi sposi allorché don Abbondio, che aveva una certa infarinatura di cultura e si faceva prestare, ogni tanto, qualche libro da leggere, s'imbatte nel none di Carneade.

In realtà, tutte o quasi tutte le persone di media cultura, e non solo quelle che hanno studiato il francese o che nutrono un particolare interesse per la cultura francese, avranno sentito parlare, almeno una volta nella loro vita, di questo pittore, nato a Parigi nel 1883 e morto a Dax, nel dipartimento delle Landes (Francia sud-occidentale), nel 1955. Però è molto probabile che ne conoscano poco più che il nome, o che abbiano visto un paio di riproduzioni delle sue tele più note, e nient'altro.

In effetti, quando si va in biblioteca (o anche su Internet) per approfondire l'argomento, si scopre che, fuori della Francia e della lingua francese, non vi è molto su questo pur conosciuto e importante artista della prima metà del Novecento. È assente, in genere, dalle collane di libri dedicati ai maestri della pittura universale; forse perché su di lui pesa, almeno in certi ambienti della critica d'arte, un giudizio restrittivo legato a una certa ripetitività dell'ultimo periodo della sua produzione; o forse, anche, per il numero imbarazzante di falsi che circolano sul mercato, prova - secondo alcuni - della sua scarsa originalità e creatività.

Ci proponiamo di mostrare che entrambi questi giudizi (o, più probabilmente, pregiudizi) sono eccessivi e ingiusti: sia quello relativo alla ripetitività e monotonia della pittura di Utrillo, sia quello della scarsa vena creativa; dato che l'uno e l'altro traggono origine da un unico pregiudizio: che l'arte del Nostro poggi su un fondo conservatore, come asseriscono certi critici dalla stroncatura facile, imbevuti di una malintesa ideologia progressista.

Si veda, ad esempio, il volume A. A. Vari, L'antiquariato, Roma, Fratelli Spada Editori, 1979, p. 176-177:

 

"Anche se appartiene al XX secolo, la pittura del maestro francese ben rappresenta il gusto postimpressionista del secolo scorso. Il fondo conservatore della sua arte è dimostrato dalla straordinaria fortuna che le arrise, e che da una parte lo imprigionò nella ripetizione delle stesse formule, dall'altra stimolò un'abbondantissima produzione di falsi."

 

A leggere un simile giudizio, sembrerebbe quasi che un artista sia "conservatore", nel senso di attardato rispetto al proprio tempo, per il semplice fatto di riscuotere "uno straordinario successo" di pubblico; ossia, in altri termini, che il successo straordinario sia di per sé un elemento di sospetto, dal punto di vista della "modernità" dell'arte.

C'è, in siffatti giudizi, un doppio malinteso.

Il primo malinteso risale al celebre aforisma di Arthur Rimbaud, il quale disse che "occorre essere assolutamente moderni", ma che non può significare, a nostro avviso, che la novità sia un valore intrinseco, tanto più che per l'arte - come già osservava il classicista Pietro Giordani, di contro alla filo-romantica Madame De Staël - non vale il principio dell'accumulo del sapere, come invece per la scienza; e quindi, a rigore, non ha senso parlare di "arte moderna", perché l'arte è sempre moderna, nel senso di attuale, e sempre classica, nel senso che contiene un elemento tendenzialmente a-storico e a-temporale. Il detto di Rimbaud, casomai, significa che l'artista non deve crogiolarsi nella tradizione, come in una comoda nicchia o in un bozzolo, ma deve  avventurarsi su strade non ancora battute, perseguendo solo la propria ispirazione profonda e originale.

Il secondo malinteso è che l'opera di qualità debba essere necessariamente, in quanto tale, opera fruibile da pochissimi. Questo è un portato dell'antica concezione aristocratica dell'arte; che, nel mondo moderno, risale a Petrarca, e che vede nel vasto pubblico un vulgus profanus, nel senso etimologico di "non sacro". Secondo tale concezione dell'arte, che potremmo anche definire "sacrale", solo gli eletti possono intenderla e gustarla; tutti gli altri (il volgo, a me sempre odioso et inimico, diceva Petrarca) non potrebbero avvicinarlesi che "profanandola", ossia compiendo una dissacrazion, un sacrilegio.

Ora, se è vero che spesso è accaduto, storicamente, che grandi artisti abbiano vissuto in mezzo all'incomprensione dei loro contemporanei (come il povero Van Gogh, che cedeva i suoi quadri stupendi per un piatto di minestra), non ne consegue, né logicamente né praticamente, che questa affermazione sia rovesciabile: ossia che tutti coloro che vivono nell'incomprensione dei propri contemporanei siano dei grandi artisti. Il corollario è che si può essere dei grandi artisti ed essere anche apprezzati dagli uomini del proprio tempo. E questo, a nostro modesto giudizio, è il caso di Maurice Utrillo, almeno per la fase più felice del suo percorso artistico, culminata negli anni a cavallo della prima guerra mondiale.

 

Era nato a Parigi, nel quartiere di Montmartre, il 26 dicembre del 1883: uno dei pochi artisti della capitale francese originari di quel quartiere, immortalato da tanti dipinti e reso celebre dalla sua caratteristica atmosfera bohémienne, difficile da esprimere a parole, ma che si avverte inconfondibilmente quando ci si trova nel cerchio magico delle sue vecchie strade e delle sue piazzette un po' trasognate, ornate da qualche stento alberello.

Il suo vero nome era Maurice Valadon. Sua madre, Suzanne Valadon (1865-1938), era una modella diciottenne che posava per alcuni tra i maggiori pittori dell'epoca; e che, in seguito, sarebbe riuscita  ad affermarsi ella stessa come pittrice di valore, creando un suo stile originale, che rielaborava suggestioni di Gauguin, Degas e Toluse-Lautrec.

Suzanne, il cui vero nome era Marie-Clémentine, non volle mai rivelare l'identità del padre del bambino; tuttavia, le ipotesi più accreditate indicano il pittore Boissy o, forse, il celebre Pierre Puvis de Chavennes (Lione, 1824-Parigi, 1898), precursore del simbolismo e ispiratore, in parte, del movimento dei Nabis. Ad ogni modo, nel 1891 il pittore e critico spagnolo Miguel Utrillo y Molins adottò ufficialmente il bambino, anche se non esiste alcuna certezza che fosse lui il padre naturale. Suzanne, frattanto, si sposò con un personaggio benestante, P. Mousis, che l'avrebbe sollevata  definitivamente da ogni preoccupazione finanziaria.

La raggiunta sicurezza economica e il ritorno dal collegio non significarono, però, un miglioramento nella vita del piccolo Utrillo, che, crescendo e divenendo adolescente, mostrò segni via via più espliciti di disagio. Non solo disertava spesso le lezioni scolastiche, ma aveva anche preso il vizio di bere, al punto da scivolare rapidamente lungo la china dell'alcolismo e da dover essere rinchiuso, a più riprese, in ospedale psichiatrico. Non è chiaro fino a che punto si trattasse di una vera e propria malattia mentale, oppure di un disordine generalizzato, frutto di un profondo malessere esistenziale, che si esplicitava attraverso l'abuso degli alcolici, oltre che in una serie continua di risse e di scandali.

Per cercare di distoglierlo dal vizio del bere, e su consiglio dei suoi insegnanti, la madre lo indirizzò verso il disegno e poi, verso la pittura. Ciò accadeva nell'estate del 1901, quando il ragazzo, appena uscito da un periodo di ricovero in casa di cura, aveva appena diciassette anni. La nuova occupazione non riuscì a guarire Utrillo dai suoi fantasmi né dall'alcool, tuttavia gli permise di estrinsecare una personalità artistica latente, dai caratteri sicuramente originali; e, probabilmente, contribuì a dargli qualche pausa di sollievo nella sua vita tormentata.

Amico di Amedeo Modigliani e di Chaïm Soutine, due fra i tanti artisti stranieri venuti a vivere nella capitale europea dell'arte, Utrillo sviluppò l'interesse per la pittura, fino a trasformarlo in una passione intensa e in una ragione di vita. Dapprima ritraeva paesaggi nei dintorni di Parigi, chiese, antiche dimore rurali; poi cominciò a prediligere la periferia della capitale e l'amato quartiere natale di Montmartre.

Egli divenne così, poco a poco, il malinconico pittore delle periferie, candido e ingenuo; ma, s'intende, "ingenuo" alla maniera di un artista colto e non come un autentico naïf. Inoltre, a differenza di Henri Rousseau, detto "il Doganiere" (Laval, 1844-Parigi, 1910), egli non spinse mai la sua "ingenuità" in direzione dell'esotico o del primitivo e, quindi, non si avvicinò mai al surrealismo o alla pittura metafisica. La sua rimase sempre, anche nei suoi momenti più felici, una vena introversa ed intimistica, aliena dalle manifestazioni clamorose, affettuosamente partecipe di una realtà suburbana in lento degrado e venata di una insopprimibile tristezza, sottolineata dalla quasi totale assenza, nei suoi quadri, della figura umana. Non fu quindi un "vedutista" degli angoli scomparsi della vecchia Parigi, tanto più che spesso lavorava a memoria o sulla base di fotografie e cartoline: per lui la realtà esteriore, oggettiva, era significativa nella misura in cui rifletteva la profonda malinconia del suo stesso animo, lo spirito dimesso e anti-eroico di una quotidiana accettazione del dolore.

I suoi soggetti preferiti non erano i luoghi celebri, anche se si cimentò anche nel ritrarre angoli "storici" di Parigi, quali il Moulin de la Galette, o edifici famosi dei dintorni, quali la cattedrale di Reims. Tuttavia, in tali opere si sente fortemente l'influenza degli impressionisti, che già li avevano ritratti (nei due esempi citati, rispettivamente da Monet, con la sua Cattedrale di Rouen, e Renoir), per cui la sua vena risulta come soffocata o imbrigliata. Le tele migliori di Utrillo sono, invece, quelle nelle quali si sofferma, con amore e nostalgia, a ritrarre le strade in salita di Montmartre, le vecchie chiese, le piazzette deserte; oppure gli alberi intristiti sotto il cielo invernale, o la prospettiva delle case dai muri un po' scrostati, sotto il velo sottile della pioggia.

Egli, insomma, è stato l'ultimo cantore di una Parigi che stava per scomparire e alla quale si sentiva legato da un vincolo profondo, più per le case ed i luoghi che per le persone. In questo senso, si può anche dire che Utrillo è stato un pittore a la recherche du temps perdu e lo si può accostare, pur con tutte le cautele del caso, a uno scrittore come Umberto Saba, che volle essere il cantore della "poesia onesta", ossia della verità essenziale delle cose e dei sentimenti, e al tempo stesso "uomo tra gli uomini", legato da un vincolo indissolubile alla sua città, Trieste, o meglio a una certa idea della sua città: umile, disadorna, eppure sognante.

Utrillo raggiunge la piena maturità artistica verso il 1908 e da allora fino al 1914 si colloca quello che i critici hanno definito il "periodo bianco" dell'artista, così chiamato non solo (come dice l'Enciclopedia Garzanti dell'Arte, edizione 2005, vol. 2, p. 1.239)

 

"per il prevalere di questo colore e di una tavolozza schiarita, ridotta a pure, struggenti campiture di tinte povere in immagini speso riprese da cartoline: Impasse Cottin (1910, Parigi, Museo Nazionale. D'Arte Moderna); Place du Tertre (19111, Londra, Tate Gallery)",

 

ma anche perché (come scrive Enrico Bona in Le Muse. Enciclopedia di tutte le arti, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1968, vol. XII, pp. 203-204).

 

"prevalgono nella sua opera le tinte chiare ottenute mescolando polvere di gesso nella biacca: Il giardino di Renoir (1909-10); Rue des abbesses (1910), Rue Ravignan (1911), Fabbriche (1911); New York, collezione Lewit), Place du Tertre (1911-1912); Londra, Tate Gallery). In queste opere la realtà più squallida e monotona (facciate di case, finestre vuote e buie che si moltiplicano a ritmo ossessivo, alberi stenti e rinsecchiti, vicoli senza uscita, ecc.) è sollevata con i mezzi più semplici e diretti ad un livello espressivo di grande respiro lirico."

 

Negli anni durante e dopo la prima guerra mondiale la critica (tra gli altri, Carco e Courthion) e il pubblico si accorgono di Utrillo; gli giungono i primi riconoscimenti importanti; le sue opere sono apprezzate sempre di più e, per conseguenza, si vendono molto bene.

L'artista si sprofonda sempre più nel lavoro, senza peraltro trovarvi la pace agognata; né lo rasserena nell'intimo il matrimonio con Lucia Valore, che pure si prende cura di lui e pone un po' di ordine nella sua vita, ancora tribolata da periodi di intensa sofferenza e che, dal 1935, per vent'anni, lo accudisce nell'isolamento di Villa Vésinet, nei dintorni della capitale.

Le opere successive al 1914-15 sono raggruppate dagli studiosi sotto la denominazione generica di "periodo del colore" e sono caratterizzate da un disegno più accurato e da un cromatismo più vario; ma, spesso, non hanno la freschezza e l'immediatezza di quelle del periodo precedente. Forse il pittore sente scemare ed esaurirsi la propria vena creativa; forse, semplicemente, è sopraffatto dall'immensa mole di lavoro che si sobbarca, pur nelle sue precarie condizioni di salute (se dipinge dal vero, è costretto a farlo dalla finestra), per soddisfare alle innumerevoli richieste che gli pervengono dal pubblico. Sta di fatto che l'ultimo periodo del suo percorso artistico mostra i segni di una crescente stanchezza e tende alla ripetitività; la primitiva ispirazione, robustamente naïf ed ingenua, cede a una maniera un po' anonima, inutilmente descrittiva e un po' "cartolinesca". Se non fosse per la scarsa presenza di figure umane, le sue vedute di Parigi di quest'ultima fase ricorderebbero, in parte, quelle di De Nittis: "colore locale", come si dice in gergo, senza una profonda rivisitazione personale.

Ci piace concludere riportando il giudizio complessivo di Enrico Bona (Op. Cit., XII, p. 203) sul periodo della produzione di Utrillo che precede il "periodo bianco", ossia quello della formazione,  dal 1901 al 1907-08. È qui, forse, che si trova la chiave per comprendere l'insieme dell'opera di questo artista; è qui, prima che la fama giungesse a trarlo dall'oscurità di una giovinezza inquieta e infelice, che si possono individuare, allo stato "puro", quegli elementi e quelle suggestioni che, poi,  avrebbe sviluppato nel "periodo bianco", emancipandosi gradualmente dall'influenza degli impressionisti, che era stata il suo punto di partenza.

 

"I dipinti del primo periodo, dagli inizi al 1907 circa, eseguiti quasi sempre su cartone e barattati spesso per una bottiglia di vino, sono strettamente connessi con la grande lezione degli impressionisti, specialmente con quella di Sisley e di Pissarro. Tuttavia l'interpretazione che Utrillo dà dell'Impressionismo è personalissima e ne costituisce in sostanza un superamento lungo una linea che di sviluppo che è propria del post-impressionismo francese fino a Cézanne. Alla dissoluzione delle forme nella vibrazione molecolare della luce e alla gioia panica propria dell'Impressionismo, Utrillo oppone la chiarezza e la solidità dell'impianto costruttivo e quel melanconico lirismo che impregna di sé tutta la sua opera. Essenzialmente pittore di paesaggi urbani, egli sceglie i suoi soggetti non per fissarne l'attimo luminoso, ma per assimilarli alla sostanza più intima e segreta della sua arte, per registrarne la muta presenza, il desolato squallore. È quindi naturale che egli prediliga le tristi viuzze della periferia, i miserabili bistrò dei sobborghi industriali, i muri gessosi e consunti, le piazzette deserte, in cui l'assenza di esseri umani diviene espressione di solitudine e di isolamento."

 

La conferenza è preceduta da una rapida, ma esauriente panoramica sulle principali correnti pittoriche europee dopo l'impressionismo, al fine di meglio inquadrare la personalità artistica e l'opera di Maurice Utrillo.

Inoltre, vengono analizzate dettagliatamente una serie di opere del pittore francese, sia sotto l'aspetto formale che sotto quello contenutistico.

 

*Questa è una sintesi della conferenza del prof. Francesco Lamendola, a Treviso, lunedì 11 febbraio 2008, alle ore 16,00, per conto della Alliance Française, presso il Palazzo dell'Umanesimo Latino, in Riviera Garibaldi, 13.