Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La vera etica del capitalismo

La vera etica del capitalismo

di Michele Orsini - 07/02/2008

 

 
La vera etica del capitalismo



Il Corriere della Sera martedì 29 gennaio ha pubblicato un articolo del sociologo Francesco Alberoni dal titolo Vizi privati? Da noi diventano pubbliche virtù, la tesi principale del quale riguardava la necessità di reintrodurre il concetto di virtù poiché “una società democratica funziona solo se ha un solido fondamento morale”.
L’affermazione è condivisibile e ci suggerisce alcune domande: la regola è da estendere a ogni società, sia essa democratica o meno? Quali tipi di organizzazioni sociali sono sottese da regole morali e in che misura? Quali non lo sono?
Nei Paesi che fanno parte del cosiddetto mondo libero la democrazia è considerata la miglior forma possibile di governo, tanto che, a detta di molti, la si dovrebbe esportare ovunque e con ogni mezzo. Questo modo di pensare sembra basarsi sulla convinzione che la democrazia sia l’unica forma di governo dotata di fondamento morale e che ogni popolo, se chiamato a decidere, la sceglierebbe.
A rendere la questione ancora più ingarbugliata è il fatto che la forma di democrazia diffusasi nelle società occidentali è quella liberale, dove gli individui sono riconosciuti autosufficienti e il potere non deve neppure tentare di far condividere un senso ai cittadini. Ma senza un senso non si può avere neppure un’etica: “se nulla è vero, tutto è concesso” ammoniva, infatti, Friedrich Nietzsche.
Alberoni ha ragione quando denuncia l’assenza d’etica pubblica in Italia, afferma che i problemi della nostra società non si potranno risolvere con un semplice cambio di maggioranza o con la promulgazione di nuove leggi, che la virtù si insegna con l’esempio.
Appare invece poco convincente l’interpretazione per la quale a fare la differenza in negativo è la diversità della nostra cultura rispetto a quella anglosassone: se si ammette che tale differenza esiste, bisogna anche dire che sta diminuendo, per una sorta di livellamento verso il basso. Il cuore del problema è un altro, Alberoni lo nomina ma non lo riconosce, quando scrive che “dalla cultura anglosassone abbiamo preso l’idea che vizi privati (come l’avidità, l’ambizione e perfino l’invidia) possano diventare pubbliche virtù perché stimolano la competizione economica e politica”; ebbene, è tale premessa ad essere capziosa, i vizi privati sono dannosi, proprio perché vanno ad erodere il senso etico degli individui e se la cultura anglosassone, grazie a sue caratteristiche peculiari, per un periodo ha potuto resistere meglio da questo punto di vista, il declino morale ne è risultato solo rinviato, non certo scongiurato. La cronaca degli ultimi anni ci mostra in modo chiaro, del resto, come neppure il mondo anglosassone sia refrattario agli scandali.
L’esaltazione strumentale dei vizi privati di cui stiamo parlando è l’essenza dell’etica del capitalismo e perciò, esportando la democrazia, si vorrebbe esportare anche un simile modo di pensare, per l’idea che il libero mercato e lo sviluppo siano la sola possibilità razionale, valida per tutte le culture e tutte le latitudini.
La democrazia da esportazione è perciò una democrazia molto specifica, non solo liberale ma anche liberista, e chi non è né liberale né liberista può essere squalificato, senza alcun problema, soltanto tacciandolo di non essere un democratico.
E’ grottesco che si insista sulla necessità di esportare, se non addirittura globalizzare, un modello che sta mostrando la corda anche nei luoghi dov’esso ha attecchito meglio.
Cina e India anni hanno abbracciato, molto più tardi dei paesi occidentali, le politiche capitalistiche, seppur declinate in modo peculiare, soprattutto per quel che riguarda il cosiddetto “comunismo aperto al mercato” dei cinesi: ebbene, i successi raggiunti da queste economie in forte crescita sono stati analizzati e spiegati in vari modi, ma di rado prendendo in considerazione il diverso tipo umano diffuso nelle popolazioni di tali Paesi.
Eppure anche nel mondo occidentale il capitalismo, come ha scritto lo psicanalista e filosofo francese Cornelius Castoriadis, “ha potuto funzionare solo perché ha ereditato una serie di tipi antropologici che non ha creato e che non avrebbe potuto creare esso stesso. Giudici incorruttibili, funzionari integri e weberiani, con la vocazione del funzionario, del servire pubblico, educatori dediti alla loro vocazione, operatori dotati di un minimo di coscienza professionale (…). Questi tipi non sorgono e non possono sorgere da soli, sono stati creati in periodi storici precedenti, con riferimento a valori allora consacrati e incontestabili: l’onestà, il servizio dello stato, la trasmissione del sapere, il lavoro ben fatto e così via”.
Queste considerazioni hanno il valore euristico di spiegare la crisi del nostro sistema, il fatto che il declino etico sia giunto in ritardo nella cultura anglosassone e, ancora, di azzardare la previsione che, prima o poi, di fronte agli stessi problemi rischiano di trovarsi anche i Paesi che in questo momento storico sembrano destinasti a un successo economico inarrestabile.