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A chi piace la recessione? Le lobby delle corporation stanno pensando di usare la crisi dei subprim

di Naomi Klein - 07/02/2008

 
Le lobby delle corporation stanno pensando di usare la crisi dei subprime per far partire una nuova ondata di privatizzazioni e crediti selvaggi. Ma la strada giusta è un'altra
L'agenzia di rating Moody's afferma che la chiave per risolvere i problemi economici che affliggono gli Stati Uniti è ridurre la spesa della Social Security. L'Associazione nazionale dei produttori sostiene che la soluzione che il governo federale dovrebbe adottare è l'elenco di suoi desiderata concernenti gli sgravi fiscali. Per l''Investor's Business Daily', la soluzione consiste nel trivellare il petrolio dell'Arctic National Wildlife Refuge, "lo stimolo all'economia forse più importante di tutti".

Tra tutte le ciniche lotte scatenatesi per confezionare da 'stimolo all'economia' i tentativi delle imprese di arraffare denaro a man bassa, il primo premio va sicuramente assegnato a Lawrence B. Lindsey, ex assistente di George W. Bush per la politica economica e suo consigliere durante l'ultima recessione. Il piano di Lindsey è semplice: consiste nel risolvere una crisi innescata da prestiti erogati su presupposti scorretti e sbagliati aumentando il credito in modo ancor più discutibile. Qualche tempo fa egli ha scritto sul 'Wall Street Journal' che "una delle cose più semplici da fare sarebbe autorizzare i produttori e le società della grande distribuzione" - per la precisione Wal-Mart - "ad aprire loro istituti finanziari, tramite i quali erogare o ottenere prestiti".

Non importa che un numero sempre più grande di americani sia insolvente, non possa far fronte ai pagamenti accumulati con la carta da credito, attinga a man bassa ai programmi pensionistici 401k e stia perdendo la casa. Se Lindsey la spunterà, Wal-Mart invece di rimetterci sul piano delle vendite potrà semplicemente occuparsi di prestare denaro ai clienti, così che questi possano tornare a fare shopping, trasformando la grande catena di negozi in una sorta di spaccio aziendale di vecchio stampo, nei confronti del quale gli americani possano indebitarsi anche l'anima.

Se vi sembra che questa crisi di opportunismi sia vagamente familiare è perché effettivamente lo è. Negli ultimi quattro anni ho indagato un'area poco esplorata della storia economica, ovvero il modo con il quale le crisi hanno spianato la strada alla marcia della rivoluzione economica di destra in tutto il pianeta. Una crisi interviene, il panico dilaga, gli ideologi irrompono nel vuoto ricostituendo le società con la massima rapidità e nell'interesse delle grandi corporation. È una manovra che ho battezzato 'capitalismo dei disastri'.

Talvolta i disastri propizi sono stati veri e propri colpi fisici inferti ai vari Paesi, come guerre, attentati terroristici, disastri naturali. Più spesso si è trattato invece di crisi economiche: spirali debitorie, iper inflazioni, shock valutari, recessioni.

Una decina circa di anni fa l'economista Dani Rodrik, allora alla Columbia University, studiò le circostanze nelle quali i governi avevano adottato politiche di libero commercio. La conclusione alla quale pervenne fu a dir poco sensazionale: "Negli anni Ottanta nessun significativo caso di riforma commerciale in un Paese in via di sviluppo ha avuto luogo al di fuori di un contesto di grave crisi economica". Gli anni Novanta hanno confermato in modo drammatico la veridicità delle sue parole: in Russia il tracollo economico ha preparato il terreno alle privatizzazioni e alla svendita di attività ormai compromesse. In seguito, la crisi economica asiatica del 1997-98 ha mandato in pezzi le 'tigri asiatiche' innescando tutta una sarabanda di acquisizioni e salvataggi fallimentari dall'estero, processo che il 'New York Times' ha ribattezzato "la più grande svendita per chiusura fallimentare al mondo".

Certo, i Paesi in condizioni disperate in genere faranno sempre tutto ciò che occorre per procurarsi un piano di salvataggio. L'atmosfera di panico oltretutto dà ai politici carta bianca, permettendo loro di esercitare pressioni per mettere in atto cambiamenti radicali che sarebbero risultati altrimenti troppo impopolari, quali la privatizzazione di servizi essenziali, l'indebolimento delle tutele dei lavoratori, gli accordi per il libero commercio. In piena crisi, dibattito e processo democratico possono essere prontamente liquidati come lussi che non ci si può più permettere.