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I rifiuti che abitano nel nostro frigorifero

di Carlo Petrini - 08/02/2008


Aprite il vostro frigorifero e guardate cosa c’è dentro. Quanta carta, cartone, pellicola e plastiche 
per alimenti? Quanti cibi scaduti o prossimi alla condanna della pattumiera? 

 

Aprite il vostro frigorifero e guardate cosa c’è dentro. Quanta carta, cartone, pellicola e plastiche per alimenti? Quanti cibi scaduti o prossimi alla condanna della pattumiera? Ci sono moncherini di salumi stantii o proliferazione incontrollata di muffe tra i pezzetti di formaggi che non pensavate più di avere in casa? Dove giacciono gli avanzi inutilizzabili, che non avete mangiato perché non consumate un pasto in casa da giorni?

Chissà che cosa contiene, nei suoi strati più profondi, il ronzante ed enorme congelatore che alberga in cantina: carni e verdure incastonate nel ghiaccio manco fossero specie preistoriche giunte fino a noi dall’era glaciale. Quasi vengono le vertigini se si riflette bene a quanta spazzatura pro-capite produciamo per mangiare: la gran parte dei 538 chilogrammi annuali che ci assegnano le statistiche europee.

Un tempo l’arte di conservare il cibo in casa era una questione vitale: oggi la nostra opulenza e l’aver delegato questo compito alla pur evoluta tecnologia ci hanno trasformato in sfrenati produttori di rifiuti. La vecchia saggia scuola dell’economia domestica è diventata un optional nel momento in cui ci siamo trasformati in homo usa-e-getta. Non è un caso che l’economia domestica non si insegni più: adducendo motivi di discriminazione sessuale, visto che si impartiva per lo più nelle scuole femminili, è sembrato più semplice eliminarla piuttosto che insegnarla anche ai maschi.

Non bisogna andare tanto in là con la memoria per ricordarsi del periodo in cui la nostra società, presa da un vortice di benessere e di accelerazione vertiginosa delle proprie dinamiche ha eretto il prodotto usa e getta a proprio simbolo.

In futuro una più matura – anche se ancora carente – coscienza ecologica e le immagini ormai semestrali delle montagne di rifiuti ammassate agli angoli di quella terra meravigliosa che è la Campania , forse renderanno un po’ più cauti i pubblicitari nel magnificare sfavillanti confezioni sempre più complesse e inutili, ma per ora i dati ci raccontano sempre la stessa realtà: il 40% dei rifiuti è composto da imballaggi – vetro, plastica, carta e cartone – e il 10% da altri prodotti usa e getta. In termini di volume questi occupano dal 60 al 70% dello spazio nei cassonetti e il resto è composto quasi elusivamente da materiale organico, come gli avanzi di cucina, di frigorifero o di ronzante congelatore da cantina.

Guido Viale, che certo non si offenderà se lo indico come uno dei massimi esperti italiani di spazzatura, già nel 1994, nel suo libro fondamentale, “Un mondo usa e getta”, citava una delle “città invisibili” di Italo Calvino per figurare la deriva da discarica della nostra modernità: “La città di Leonia rifà se stessa tutti i giorni […] Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti della Leonia d’ieri aspettano il carro dello spazzaturaio […] L’opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove. Tanto che ci si chiede se la vera passione di Leonia sia davvero come dicono di godere delle cose nuove e diverse, o non piuttosto l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricorrente impunità”. Leonia sarà sommersa da una valanga dei propri scarti che “cancellerà ogni traccia della metropoli sempre vestita a nuovo”.

Possiamo fare molto per creare meno rifiuti, addirittura già a monte del processo produttivo: da un lato come dicevamo servirebbe un ritorno della sana economia domestica e dall’altro la collaborazione tra produttori, distributori e consumatori (non necessariamente in quest’ordine). La società usa e getta  dovrebbe diventare definitamene un brutto ricordo: la stessa frenesia di Leonia è quella che ci ha portato a dimenticare la saggezza popolare che non solo ci insegna a produrre meglio, a immettere meno anidride carbonica nell’atmosfera, a rispettare la biodiversità, ma anche a non sprecare. Come quando era da pazzi non fare le conserve visto che c’è abbondanza di prodotti freschi in stagione: ora spesso e volentieri quei prodotti li buttiamo. Magari non noi direttamente: non oso immaginare cos’è il retro di un supermercato che deve vendere il fresco tutti i giorni e ha i suoi scaffali sempre pieni. Noi però, senza puntare il dito, impariamo da parte nostra a fare la spesa, a non comprare più del necessario e non a piegarci alla logica delle porzioni dei prodotti pre-confezionati. Sono cose che facevano parte dell’economia domestica, come il saper conservare in maniera corretta i cibi: pare che il nostro frigorifero sia il luogo più a rischio per beccarsi intossicazioni alimentari di varia entità.

Non invoco il passato tout court, invoco il buon senso che lo animava. Non finirò mai di plaudire quelle scuole materne in alcune regioni italiane che giorni fa hanno fatto notizia perché servono ai propri scolari l’acqua del rubinetto invece che quella imbottigliata. Lo fanno soprattutto per risparmiare, ma pensate alla follia di massa che ci accomuna: ci spacchiamo la schiena per portarci in casa quintali di acqua in bottiglie di plastica, che sarebbe interessante calcolare quante probabilità hanno di essere poi realmente riciclate, quando nella maggioranza delle città italiane esce dai nostri rubinetti domestici acqua non soltanto potabile, ma ottima da bere. I nostri bisnonni, che attingevano con relativa scomodità acqua dal pozzo o da qualche fonte, ci riderebbero dietro, insieme ai popoli del Sud del mondo.

Quanta carta e plastica potremmo lasciare direttamente al supermercato appena superate le casse, senza pregiudicare i prodotti che contengono: il polistirolo e la pellicola che avvolgono troppe mele per un single e troppo poche mele per una famiglia; tutto il cartoncino e i vasetti di plastica per lo yogurt. Soprattutto all’estero, molte catene di supermercati hanno cominciato a vendere prodotti sfusi: i contenitori li portano da casa i clienti. Si tratta di comportamenti virtuosi che infine indurrebbero anche i produttori a ragionare in termini più eco-compatibili sui loro inutili packaging. Io credo che tutto ciò genererebbe grandi risparmi da parte di tutti, e non soltanto una minore produzione di rifiuti. Le cuoche italiane, esperte di economia domestica che dovevano nutrire la famiglia con poche risorse, hanno creato molti dei nostri gioielli gastronomici tradizionali a partire dagli avanzi che avevano in cucina. Non si buttava via niente, come del resto la saggezza popolare ci insegna in tema di suini. Gli avanzi rientravano in un modo di concepire l’esistente in cui il vecchio era un saggio e non un problema da nascondere in case di riposo, le cose usurate mantenevano in sé la memoria del proprio utilizzo in famiglia ed era sempre quasi doloroso separarsene, se ne rimandava il più possibile la sostituzione; uno spreco qualsiasi era un delitto. Oggi se parliamo di una cosa avanzata ci viene istintivo pensare si tratti dell’ultimo ritrovato della tecnica, di una cosa “avanti”. Gli avanzi non si trasformano più in squisitezze nelle mani di donne esperte di economia domestica: si buttano, si nascondono ogni giorno come a Leonia.