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Si può parlare di una filosofia africana? E qual è la visione del reale ad essa sottesa?

di Francesco Lamendola - 09/02/2008

 

 

 

Inguaribilmente malati di etnocentrismo, noi Occidentali pensiamo di essere i soli depositari del sapere vero, ossia del sapere scientifico e filosofico. La nostra visione del mondo passa attraverso questo pregiudizio, che ci ha spinto a vedere ogni cosa come attraverso una lente deformante. Perfino la nostra idea fisica del pianeta Terra è deformata dal nostro etnocentrismo; e, fino a quando il mappamondo del tedesco Peters - negli ultimi anni del Novecento - ha ripristinato un po' di equilibrio, le nostre stesse carte geografiche rappresentavano i nostri pregiudizi di superiorità, ad esempio facendo apparire l'Europa, che è tre volte più piccola dell'Africa, come se fosse più grande di quella: conseguenza delle proiezioni basate sul mappamondo di Mercatore.

Nel campo della filosofia, è ormai ben radicata la favola della sua nascita "miracolosa" nella Grecia del VII secolo a. C.; o meglio, nella parte dell'Asia Minore colonizzata dai Greci; ma, insomma,  presentandola come una improvvisa "creazione" del genio ellenico. Quasi tutti i manuali (occidentali) di filosofia presentano le cose in questo modo, con qualche lodevole eccezione; il che è sbagliato sotto due punti di vista.

Il primo riguarda il travisamento puro e semplice dei fatti. Non è vero che in India, in Mesopotamia, in Egitto - per non citare che tre delle maggiori civiltà antiche - non esistevano ricerche del tipo che noi definiamo "filosofico"; e non è vero che tali tradizioni non ebbero alcun peso nel fiorire della prima scuola filosofica greca, quella di Mileto, illustrata dai grandi nomi di Talete, Anassimandro, Anassimene.

Il secondo sbaglio riguarda la domanda su che cosa sia la filosofia; che non può limitarsi al Logos di Platone e, soprattutto di Aristotele: non più di quanto si possa limitare la storia dell'arte mondiale alla tradizione greca, che culmina con Fidia, Policleto e Prassitele. Esistono altri modi di interrogarsi sulla realtà in senso generale, ricercando le cause ed il fine di essa, oltre al ragionamento di tipo logico-matematico, ai principio di identità e di non contraddizione, al metodo deduttivo; modi che non sono irrazionali per il solo fatto che non assolutizzano la ragione calcolante e strumentale; ma, semmai, sovra-razionali.

Il concetto che l'ultimo intelligibile deve essere di natura sovra-razionale è profondamente radicato sia in civiltà antichissime, come l'indiana e la cinese, sia nelle culture cosiddette tribali e prive di scrittura. Inoltre, sia presso le une che le altre il pensiero, l'arte e la scienza non sono concepiti come un "progresso" o una "conquista", né come il frutto della somma di tanti sforzi individuali. Studiando la filosofia cinese o quella indiana, ad esempio (e lo stesso discorso vale per l'arte, la scienza e perfino il pensiero religioso) si stenta a trovare delle individualità isolate e orgogliose, ciascuna delle quali proceda in una sorta di competizione con tutte le altre, come avviene, invece, nella cultura occidentale. Anche quando esistono, le notizie biografiche intorno a poeti, artisti, scienziati e pensatori sono spesso vaghe ed incerte; perfino le maggiori personalità culturali, ad esempio nel caso dell'India, subiscono oscillazioni cronologiche che possono variare di alcuni secoli.

Perciò, mentre da noi lo studio della filosofia si riduce a una successione di singoli pensatori (così come per la storia letteraria o per quella artistica o per quella della musica), in Asia è vero il principio contrario: quello che conta sono gli sviluppi delle idee, dei temi, delle forme e degli stili; non è tanto importante sapere quale nome proprio si debba porre, come una specie di copyright o brevetto esclusivo, su determinate manifestazioni del vero, del bello o del giusto.

Le culture orientali, così come quelle "primitive", non sono ossessionate dalla smania dell'ego.  Forse è per questo che, in Asia, non è nata una specifica attività scientifico-sportiva come l'alpinismo. Non c'è nessuna vetta da conquistare; e anche la meravigliosa montagna del Kailash - la montagna sacra per centinaia di milioni di buddhisti - non è oggetto di scalate, ma di pii pellegrinaggi tutto intorno al suo perimetro.

L'importante non è sottomettere la natura, bensì sottomettere la parte egoica di se stessi; e il pensiero esasperatamente razionale può essere, né più né meno, una simile manifestazione di egotismo infantile.

 

Queste riflessioni ci venivano alla mente allorché ci siamo imbattuti nei libri di un valoroso pensatore di origine angolana, il professor Pedro F. Miguel, da molti anni residente in Italia e che ha lavorato parecchio per stabilire un dialogo interculturale, sulla base di una conoscenza, da parte del pubblico europeo, della cultura e del pensiero africani. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Kijila. Per una filosofia bantu (Bari, Edlico, 1985); Mwa Lemba. Per una teologia Bantu (Edlico, 1987); Honga. Guida per una immersione felice tra i Bantu dell'Africa Nera (Troia, provincia di Foggia, ed. Nuova Specie, 1994).

Già il solo fatto che, in Occidente, sia possibile porsi una domanda come quella circa l'esistenza, o meno, di una filosofia africana, la dice lunga sulla boria culturale dell'Occidente medesimo, abituato a concedere, o no, patenti di "civiltà" a tutti gli altri popoli e a tutte le altre culture, basandosi sulla propria definizione delle categorie culturali di arte, filosofia, scienza, ecc. In ciò risiede l'operazione ideologica, nel senso deteriore del termine, che da sempre l'Occidente conduce nei confronti degli altri modelli di cultura: dapprima elabora una propria definizione delle categorie universali del pensiero e dell'attività umana; poi, sulla base di tali definizioni unilaterali, stabilisce chi si possa considerare degno di avvicinarsi al raggiungimento di tali categorie; che sono - invece - frutto di una sua percezione della realtà.

A suo tempo abbiamo avuto modo di occuparci dell'incredibile presunzione e della crassa ignoranza con le quali uno dei maggiori filosofi europei, Hegel, nelle sue applauditissime Lezioni di filosofia della storia, si è accostato alla realtà del mondo africano (nel precedente articolo intitolato Quando un filosofo farebbe bene a tacere: Hegel e l'Africa). Ed Hegel (che, forse, a torto è considerato uno dei pilastri del pensiero europeo) non era affatto un'eccezione. Il suo modo di pensare rivela  perfettamente il tipo di approccio che è stato caratteristico della cultura europea, fin dagli albori del suo incontro con le culture altre.

Dunque, posto che ogni civiltà e ogni cultura esprimono una loro filosofia, ossia una loro visione della realtà, possiamo chiederci quale sia l'aspetto fondante di quella africana. Certo, l'aggettivo "africana" è un molto estensivo; allora limitiamoci alla più numerosa delle culture africane, quella dei Bantu, diffusi tra il margine meridionale del Sahara e gli altopiani del Sud Africa, sia pure con delle discontinuità dovute allo stanziamento di altre popolazioni, in genere più antiche (dai Nilotici ai Cusciti, ai Pigmei, ai Boscimani e Ottentotti, ecc.).

Nel suo libro Kijila, Pedro F. Miguel delinea le caratteristiche generali della filosofia dei Bantu (Op. cit., pp. 20-28).

 

"Nel suo famoso libro La Philosophie Bantoue, Placide Temples realizza la prima sintesi filosofica e getta i principi di comprensione del pensiero bantu.

"L'Autore pone al centro della sua elaborazione sistematica la 'Forza Vitale, che egli identifica con l'Esser aristotelico, ed il 'Muntu' (persona) quali perni attorno ai quali girano tutti i valori umani e cosmici.

"L'ontologia di P. Temples ha trovato oppositori anche tra i Bantu, per esempio B. Kiami che critica l'idea di 'Forza Vitale', perché non crede che sia 'primordiale', come invece predica Tempels. (…)

"Queste brevi osservazioni sulla esistenza di una filosofia Bantu ci permettono, a nostro avviso, prima di esporre la nostra posizione specifica della filosofia Bantu, di chiarire dove vogliamo arrivare con la domanda: «Esiste una filosofia Bantu?».

"Con essa, in effetti, on intendiamo riferirci alla esistenza di biblioteche di opere filosofiche scritte da uomini e donne con la Carta di Identità o con il Passaporto Bantu. Vogliamo, invece, vedere se nella sua visione del mondo esistono per il Bantu principi costanti ed irriducibili che fanno sì che il Bantu sia tale, e attraverso i quali gli individui si guidano, nella loro soggettività, alla ricerca, o meglio, all'ascolto di quella voce del sangue, a cui abbiamo già fatto cenno a proposito del linguaggio.

"È su questi principi, infatti, che si fondano ed innalzano gli spalti criteriologici, psicologici, sociologici ed etici.

"P. Temples ha dimostrato che la criteriologia Bantu riposa sull'evidenza esterna, sull'autorità, saggezza e sulla Forza Vitale degli Antenati, ma anche sulla evidenza interna, cioè sulla esperienza ella natura e dei fenomeni vitali.

"Secondo Tempels il Bantu identifica l'Essere con la Forza Vitale. Le idee, il comportamento, tutta la cultura , non si svolgono secondo i principi di identità, di non contraddizione e sulla nozione di essere come atto, bensì sulla nozione di 'Forza Vitale', che ha valore di principio.  (…)

"Tutte le manifestazioni socio-religiose  perseguono lo stesso fine, quello di acquistare vigore, di vivere con esuberanza, di rafforzare la vita ed assicurare senza interruzione la sua perennità nella discendenza. (…)

"Questa realtà ontologia si applica a tutto: malato è chi non ha forza. Intelligente è chi ha forza.

"La salute è la forza del corpo. Tutta la natura, il clima, il suolo, i fenomeni, le piante, gli animali ed i minerali  non possono spiegarsi da se stessi, come dice il proverbio Kimbundu: (…) «Il topo non scende dalla palma  se prima non vi è arrampicato».

"In altre parole, non vi è effetto senza causa.

"Le cose conservano infinite virtualità nascoste  che l'uomo non conosce con esattezza. Ed è frugando in questo 'arcano' che il pensiero Bantu espleta le sue mansioni. La forza vitale è misteriosa ed  è mantenuta da un sistema invisibile di energie e forze le cui relazioni reciproche  non sono tutte chiare. (…)

"Vivere, dunque, per l'uomo  non è solo muoversi ed avere delle attività, ma è apparire  con forma umana, occhi che captano, udito attento, freschezza, vigore, sensualità, per raccogliere le infinite onde della Vita. (…)

"Cerchiamo ora di vedere il principium operationis della forza vitale.

"Essa è, come dice Agostinho Neto, «una Forza che trasforma», rendendo gli uomini coscienti della stessa forza che circola in loro e negli altri esseri.

"Grazie a questa, continua Neto, i Bantu Kimbundi possono dire: «Noi siamo!». Essa è personificata nello 'Amico Mussunda' che colui al quale si deve la nostra ragione di essere.

"A chi vuol sapere su quali principi si regge Mussunda, o alla domanda «chi fonda il fondante», A. Neto risponde puntualissimo: (…)

"«Quello è Kaluga che lo ha creato,

quello è Kaluga, proprio lui che lo ha creato».

"Se Mussunda è il fondante fondato, Kalunga è il fondante non-fondato, l'Assoluto.

"la parola Kalunga significa mare, con tutte le connotazioni d'ordine spazio-temporale psicologiche che il mare implica: immensità, forza, sorgente di vita.

"Presso i bantu, però, Kalunga connota anche la vita 'al di là' e questo divenne, in seguito alla tratta di milioni di negri deportati come schiavi e che sparivano per sempre nel mare, il significato dominante. (…)

"La forza vitale è, pertanto, una «Forza che trasforma»., Questa trasformazione è la caratteristica  che accompagnerà la fase gnoseologica, sulla quale si baseranno l'Ontologia, la Psicologia, la Religione e l'Etica Bantu: «Noi siamo!».

"Il passaggio dalla coscienza di sé, dalla propria forza vitale a quella del mondi esterno, non è un passaggio indolore. Intendiamo dire che, per il Bantu, la conoscenza avviene attraverso una lotta, un patimento, che avrà maggiore o minore successo in funzione  della stessa forza vitale esercitata.

"Il Bantu Kimbundi conosce le cose trasformandosi, trasmutandosi in esse; il soggetto conoscente, senza mai cessare di essere tale, subisce una modificazione, non si limita a ricevere una 'informazione', come accade nel processo astrattivo e nel sillogismo aristotelico degli Analytica Posteriora.

"Nel caso dell'informazione, infatti, il sentire comporta  una cessazione del senziente che si trasforma tutto nel sentito; nella modificazione di sé, invece,  la coscienza è autocoscienza e questa è, a sua volta, coscienza: perché il trasmutarsi nelle cose  viene percepito, a sua vola, come tale e quel che si sente in realtà, non è la cosa ma la modificazione di se stessi, provocata in noi dalla cosa  e da questa modificazione si arriva alla realtà.

"Nella comunicazione, quindi, non c'è spazio per l'informazione, i sillogismi, ecc., ma soltanto per la trasmissione delle vibrazioni attinte dal conosciuto: la comunicazione è la forza vitale partecipata."

 

Questi sia pur brevi cenni di filosofia bantu ci permettono di stabilire da un lato, nel concetto di "Forza Vitale", delle interessanti analogie con le filosofie dell'India e della Cina e, in particolare, con i cncetti di Prana e di Tao; dall'altro, di riconoscere, nel principio della trasformazione che diviene, sempre, auto-trasformazione, dei suggestivi richiami alla filosofia europea dell'esistenzialismo e specialmente ad alcuni aspetti di quella del suo precursore: Sören Kierkegaard.

Opponendosi all'astrattezza e alla verbosa inconcludeza della dialettica hegeliana, che risolve tutto a parole ma non risolve niente sul piano della precisa condizione esistenziale degli individui, Kierkegaard ha rivendicato la necessità di elaborare una filosofia-per-me che offra una concreta e reale prospettiva di chiarificazione e di trasformazione del nostro esserci qui-e-ora. Ebbene il concetto bantu di una autocoscienza che non è la cosa (il cogito cartesiano), ma la modificazione di se stessi provocata in noi dalla cosa, ci sembra sostanzialmente in linea con le acquisizioni più feconde del pensiero kierkegaardiano; così come lo è la conclusione che noi possiamo giungere alla realtà non per via astratta, di razionalizzazione e assolutizzazione dell'esperienza, ma per via interna e immediata, di una modificazione operata su noi stessi.

Tutto questo è molto stimolante, molto moderno e molto lontano dai rozzi luoghi comuni che circolano in Occidente intorno alla supposta "assenza" di una filosofia africana e di una attitudine filosofica da parte degli africani. La verità è che nessun essere umano è sprovvisto di una sua visione del mondo, cioè di una sua filosofia; e che, di conseguenza, nessun popolo e nessuna cultura o civiltà, possono essere privi di un proprio pensiero filosofico e di un proprio atteggiamento filosofico nei confronti della realtà.

E questo vale, ovviamente, anche per i popoli e le culture africane.

Se certi filosofi europei, come Hegel, invece di leggere senza alcun senso critico le relazioni di qualche viaggiatore e missionario, si fossero accostati a quella realtà in atteggiamento di ascolto e con un minimo di apertura e benevolenza, forse lo avrebbero compreso. Ma, per poterlo fare, è necessario mettersi un poco in discussione: cioè, appunto, trasformarsi. Non nella triade dialettica, e astratta (perché universale), della tesi, dell'antitesi e della sintesi; ma nella propria esistenza concreta, qui e adesso.

Il che risulta faticoso, se si è abituati a dare sempre e soltanto la pagella agli altri.

Perché, per una volta, bisogna imparare a darla anche a se stessi.