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Capitalismo come Truffa

di Sauro Ripamonti - 09/02/2008

 

Capitalismo come Truffa



In un passato relativamente recente il termine “capitalismo” si basava sull’esistenza di proprietari di beni, capitani d’industria, proprietari di manifatture, mezzi per la compra-vendita di merci o la fornitura di servizi, in altre parole il termine significava sfruttamento di uomini, di risorse o speculazione economica.
Con l’evolversi nel tempo della società e lo svilupparsi delle contrattazioni si verificarono i primi fallimenti. Crac finanziari nel corso dell’ottocento andarono diffondendosi a macchia d’olio creando così i primi dubbi sul capitalismo già ritenuto da una larga parte di popolazione pericoloso e autodistruttivo.
Iniziarono a diffondersi allora quelle dottrine politiche anti-capitaliste: socialismo, comunismo, anti-liberalesimo, che miravano ad un ribaltamento della situazione con una rivoluzione dei ceti meno abbienti contro quelle forze che sostenevano e difendevano grandi gruppi industriali e finanziari che andavano affermandosi e operavano con ingenti capitali.
Le successive crisi economiche, che provocarono nuovi fallimenti, crolli azionari nelle borse valori e vari dissesti, contribuirono a rendere il termine capitalismo inviso a molti ed in particolare a quei risparmiatori che, avendo creduto nei facili profitti ottenuti dagli investimenti nell’industria, avevano perso capitali e fiducia; da qui il passaggio alla definizione di capitalismo come truffa ebbe facile presa fra un numero considerevole di persone.
Poiché questo termine era ormai compromesso e veniva accettato con difficoltà, in particolare da coloro che per tradizione si ritenevano investitori, il termine venne sostituito con “mercato”. Questo termine da tempo immemorabile rappresentava garanzia per la sovranità del compratore che era il solo a poter decidere sul valore delle merci, cosa acquistare e che cosa rifiutare, determinando così l’affermarsi o l’esclusione di investimenti ritenuti poco favorevoli o sgraditi.
In questa nuova realtà il consumatore e gli investitori si sentivano padroni di ogni loro azione; ma il nuovo termine favorì la nascita e lo sviluppo di una iniziativa collaterale, la pubblicità.
La pubblicità aveva la funzione di facilitare e incrementare le vendite, di favorire la commercializzazione dei prodotti per l’industria, ma nel contempo contribuiva a manipolare e a condizionare la sovranità del consumatore indirizzando le scelte di questo verso prodotti non sempre utili ma interessanti per il guadagno dell’industria.
Sotto certi aspetti rappresentava gli stessi pericoli del passato ed esercitava pressioni economiche ed anche politiche che da molti venivano considerati un nuovo sistema truffaldino.
Ma la spirale “produzione, mercato, pubblicità” aveva iniziato il suo cammino inarrestabile anche se a volte rappresentava delle incognite in particolare per i piccoli investitori che venivano assorbiti o fagocitati dai maggiori investitori che disponevano di capitali e mezzi per determinare gli andamenti del mercato.
Con l’espandersi delle aree di commercio e di nuovi centri nei quali collocare i prodotti e con l’incremento dell’occupazione si ebbe un sensibile miglioramento dei redditi. Questo permise ad una esigua parte di popolazione una maggiore disponibilità finanziaria e aumentò, di conseguenza, le vendite e la produzione, le offerte di merce e di prodotti. Attraverso la pubblicità venivano creati nuovi bisogni per i consumatori, spesso superflui, allo scopo di legare questi sempre più al mercato.
Il consumatore, per soddisfare le nuove esigenze, si vedeva costretto ad aumentare i ritmo ed il tempo di lavoro per ottenere così maggiore ricchezza con la quale assicurarsi una esistenza di comodità ed assaporare i piaceri di una pausa di riposo di un fine settimana libero e lontano dalla fatica, dalla noia e dalla routine del lavoro e della produzione. Ecco come il capitalismo era riuscito a porre in uno stato di dipendenza il consumatore e l’investitore nel mondo occidentale, perché nella realtà orientale le cose andarono in modo diverso, almeno fino ad un recente passato.
In India, una società occidentale che aveva avviato un ciclo produttivo, considerando che la resa dei lavoratori non era ottimale, decise di aumentare loro i compensi con il risultato che la produttività si abbassò ulteriormente perché i lavoratori, che ora ottenevano più di quanto avevano in passato, ritenevano inutile lavorare più di quanto era necessario per la loro sussistenza.
In occidente la società moderna ha organizzato il lavoro secondo una struttura piramidale alla quale tutti tendono a dare la scalata per raggiungere la vetta, ma sono veramente pochi coloro che riescono a raggiungere le posizioni più elevate e non sempre sono i migliori.
Per la maggioranza il lavoro viene sempre considerato un mezzo per vivere o sopravvivere ed il padrone della produzione rimane sempre il capitalista sfruttatore.
In passato l’impresa veniva fondata e gestita dal produttore in modo paternalistico; egli lavorava personalmente nell’attività coadiuvato da familiari e dipendenti ed era il solo responsabile dei suoi successi o insuccessi; i dipendenti avevano un rapporto umano con la dirigenza dell’azienda con la quale potevano trattare ed ottenere benefici anche senza controversie.
Nell’impresa moderna le funzioni dell’imprenditore, del fondatore o del proprietario vengono trasferite ad una vasta compagine di personaggi che rivestono diverse qualifiche e a capo dei quali emerge il “manager” responsabile dell’organizzazione, della produzione e dell’intera gestione aziendale.
Così il vecchio capitalista ha abdicato nel nuovo corso al “management” e al controllo della burocrazia, il che attribuisce alla proprietà una rilevanza meno apparente.
In questo sistema economico la complessità delle operazioni passa dalla proprietà ad un corpo amministrativo complesso e non sempre trasparente, che può arrivare ad analizzare e a decidere le scelte della politica dell’impresa. In tale nuova situazione eventuali dissesti e tracolli non hanno più un responsabile ma vengono attribuiti a cause esterne, come variazioni di mercato, politiche finanziarie nuove tecniche di lavorazione. In altri termini si tratta di una truffa che colpisce indistintamente il dipendente, l’investitore e tutti coloro che in quella realtà produttiva avevano riposto i loro capitali e la loro fiducia e, con la retribuzione del loro lavoro, la speranza di una tranquilla sopravvivenza.