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Un ribelle d'Abruzzo

di Davide D'Amario - 09/02/2008

 

 
Un ribelle d'Abruzzo



Prima di narrare brevemente la milizia popolare del brigante più famoso d’Abruzzo, mi preme, citare la definizione che Gabriele Adinolfi dà nel suo libro edito dalla Società Editrice Barbarossa, “Tortuga, l’isola che (non) c’è”, della dizione Briganti: “…uomini liberi che furono un po’ dei “werwolf” ante litteram. Il timbro “volk” di queste armate irregolari, di queste bande armate volontarie, non è stato considerato quasi mai nel suo insieme. A sinistra se ne è esaltata la lotta di classe, a destra lo stereotipo che li ingessa in una semplice funzione controrivoluzionaria che probabilmente nemmeno conoscevano…”, nell’odierno panorama storico-culturale, questa definizione oltre ad essere provocatoria, ma intelligente, ne determina bene la natura, lasciando la sua parte oscura al dubbio benefico, e soprattutto ne mette in forse la funzione prettamente controrivoluzionaria, con la quale certe cordate di cattolicesimo reazionario vorrebbero legare una milizia e una letteratura in bilico, bisogna dirlo tra il reale e la leggenda.
Altro merito, va anche alla pacatezza e per certi versi alla figura, che esce dal libro di Valentino Romano “Brigantesse” edito da Controcorrente, dove trova una serie di analisi, fatte attraverso biografie minime, che segnano un carattere più sociale e comportamentale delle guerrigliere del sud. Quindi, dopo questa breve introduzione, passo a delineare il “re della campagna”, Marco Sciarpa, che in Abruzzo “è il brigante”, il suo nome è il brigantaggio.
Come tutte le figure ammantate da magia e passione comunitaria, la sua identità di nascita è dibattuta, e in fondo, questo non ci dispiace, Castiglione Messer Raimondo o Valle Castellana, cosa importa? è un ribelle che unisce le comunità…
Di certo e definito, rimane la sua azione collocata durante la dominazione spagnola, verso la fine del XVI secolo alla testa di una milizia popolare di briganti, che raggiunse il numero di 800 unità, nelle vicinanze di Civitella del Tronto dove trovò rifugio. Le ridotte, le comunità guerriere, i covi erano le grotte di Sant’Angelo, nelle vicinanze delle Gole del Salinello (consiglio a coloro che visitano la provincia teramana, di percorrere questi tragitti naturali).
Nelle viscere di quelle grotte, i briganti, trovarono sicurezza e baldanza, trovarono collegamenti ideali, con altre bande (i dolciniani?), che nella storia dovettero ritirarsi a vivere in grotte e anfratti, e trasformare le loro vite al ritmo della fauna e della flora di ineguagliabili scenari.
Altro caposaldo ribelle si dimostrò Castel Manfrino, a suo tempo fatto ricostruire dal più famoso re Manfredi, vera e propria “vedetta naturale” che fungeva quasi da confine, luogo eccezionale di congiunzione tra cielo e terra, che servì a Sciarra, da Torre di avvistamento. I briganti di Sciarra, ma generalizzare non è difetto, erano uomini e donne, non cavalieri e damigelle, quindi ad atti di bontà e eroismo, indipendentismo e comunitarismo, esprimevano anche violenza, arbitrio, presunzione e atti omicidi, anche verso contadini e popolani (questo quasi sempre, per sostentamento di cibo, acqua e riscaldamento).
Quindi, riconoscendo questo, già si rida dignità alla loro memoria, troppe volte costretta da certa storiografia o ad essere tutto il male possibile o tutto il bene. Quindi era gente del popolo, e questo basta a collocarli nel campo dell’onore.
Il brigante Sciarra, fu ritenuto, tanto pericoloso, che il Regno di Napoli inviò quattromila uomini a capo dei quali fu posto certo Carlo Spinelli, con l’ordine di catturare vivo o morto il noto ribelle. Ciò non riuscì, e Marco Sciarra, si permise il lusso di far risparmiare la vita al capo nemico, così non fu, a Lucera dove il popolo infuriato, al grido di “Viva Marco nostro re”, portò all’uccisione del vescovo Scipione Capace Bozzuto.
Per far comprendere ulteriormente il carattere alterno della bontà e dell’ira di Sciarra, ricordo, un episodio che è tramandato dalla credenza popolare, e cioè che trovatosi dalle parti di Ripattone di Bellante (paese dove vivo), si imbatte in un corteo nuziale, scese da cavallo, salutò lo sposo, baciò la mano della sposa e poi pose mano alla borsa, e regalò una manciata di monete d’oro agli sposi… altro episodio narrato, da prendere con le molle, è l’incontro con il grande Torquato Tasso, ma che rende l’idea della popolarità del brigante.
La fine arriverà, nel sonno, la sua gola squarciata dal coltello di tale Battistello, annoverato nella cerchia dei suoi fedelissimi, probabilmente un omicidio su commissione, questo intorno al 1595.
Quello, che ci piace sottolineare, è la poca rilevanza data, a questo importante ribelle, dalla storiografia di matrice cattolica tradizionalista, forse perché il brigante Marco Sciarra ha vissuto prima dell’unificazione (o invasione) piemontese? Forse, perché lottava anche contro Napoli? Non era addomesticabile dal papato?
Semplici domande… rimane che il nome di Marco Sciarra è ancora vivo nelle feste e nei ricordi delle genti delle montagne teramane e no.