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Se la Coop siamo noi chi sono le Coop?

di Massimo Mucchetti - 09/01/2006

Fonte: corriere.it

La crisi al vertice dell'Unipol ha reso urgente la riforma della governance delle cooperative sia nelle proprie imprese che nelle società di capitali alle quali partecipano. Con le nomine di oggi al vertice della compagnia bolognese, le cooperative hanno preso tempo: indicando l'emiliano Pierluigi Stefanini, uomo della continuità e fautore dell'Opa su Bnl, alla presidenza di Unipol e il fiorentino Turiddu Campaini, leader degli scettici, alla guida di Finsoe, la holding di controllo, hanno stipulato un compromesso in attesa che la Banca d'Italia definisca lo scenario del 2006, dando o negando l'autorizzazione all'Opa. Solo a quel punto tutti scopriranno le carte. Ma l'onore delle coop esige altre iniziative: al di là della scalata all'ex banca del Tesoro. Le coop hanno davanti a sé due prove che non potranno superare scrivendo generici codici etici. La prima prova consiste nel fare bene, assieme agli altri, il proprio mestiere di azionista in Unipol e Finsoe. Nell'agosto del 2001 Finsoe e Unipol hanno venduto azioni Olivetti a Gnutti che le ha girate a Pirelli e Benetton senza guadagnare tutto quello che appariva possibile. Il guadagno «mancante» si aggira sui 50 milioni che equivalgono, più o meno, alla somma versata da Gnutti sui conti di Consorte e Sacchetti. Una coincidenza che ha alimentato illazioni, non certezze, di vario genere. E’ il momento di dare al mercato un’integrazione della scarna informativa dei bilanci al proposito. Delle due l'una: o le due società, all'epoca presiedute entrambe da Consorte, non avevano una scelta migliore, e allora i consigli di amministrazione dovrebbero dirlo in modo formale per difenderle da ingiusti e dannosi sospetti; oppure qualcosa non ha funzionato, e allora gli amministratori, e primi fra tutti quelli espressi dalle coop, dovrebbero avviare le azioni di responsabilità del caso. Non è la soluzione degli alti dilemmi tra etica, affari e politica, ma nessuna riforma può prescindere da un’adeguata informazione alla Borsa e ai soci.
Le coop, poi, hanno esse stesse un problema di regole. E questa è la seconda prova. Al momento, nelle grandi cooperative di consumo con centinaia di migliaia di soci, la selezione dei gruppi dirigenti avviene attraverso una serie di assemblee di zona che eleggono i delegati a quella generale. Sembrano congressi di partito. Nelle cooperative di produzione e lavoro, che hanno qualche centinaio di soci, è più facile. Ma in ogni caso il potere dei leader è pressoché assoluto: basta guardare da quanto tempo non vengono sostituiti. Molti capi-cooperativa sono bravissimi. Ma anche Consorte e Sacchetti lo erano. Il problema, dunque, è come evitare il bonapartismo e le sue degenerazioni. E non lo si risolve per via amministrativa con collegi sindacali più severi o revisori più «cattivi». La questione è politica e attiene alla formazione stessa dei consigli di amministrazione e delle decisioni.
Nelle società di capitali esistono le minoranze azionarie che possono esprimere consiglieri propri e gli investitori istituzionali che nominano gli indipendenti, ma nelle coop la proprietà delle quote, di fatto, non esiste e dunque viene a mancare il soggetto che può attivare il «diverso parere»: la grande parte del patrimonio cooperativo è congelata in riserve indivisibili che, in caso di liquidazione, vanno ad apposite società interamente controllate dalle associazioni di categoria: la Coop Fondi della Lega, per esempio. Alle associazioni nazionali, del resto, il ministero delle Attività produttive delega, per legge, il controllo. Qui, forse, c'è l'altra faccia della proprietà cooperativa che i soci hanno in uso. Da qui potrebbe venire il «diverso parere». Ma sia la Lega che la Confcooperative, ammesso che ci abbiano mai pensato, non sembrano al momento attrezzate sul piano delle risorse professionali e del peso politico per nominare consiglieri indipendenti nelle maggiori coop rosse e bianche.