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Una memoria (non ancora) condivisa

di Miro Renzaglia - 10/02/2008




La serenità, la buona coscienza, la lieta azione,
la fiducia nel futuro dipendono dal fatto che
si sappia tanto bene dimenticare al tempo giusto,
quanto ricordare al tempo giusto.

F. Nietzsche


Ho meditato molto un articolo di “ricordo” delle foibe. L’avevo anche scritto, chiosando la citazione in testa di Nietzsche. Poi, l’ho cestinato. Nonostante la nessuna enfasi che mi animava, avrebbero sempre potuto dire, come fa Claudio Magris nel corpo dell’articolo di cui, più avanti, è riportato lo stralcio saliente, che: “la cecità e il regressivo abuso dell'estrema destra coltiva il ricordo di quelle tragedie e di quei crimini non tanto per ricordare le vittime e condannare i precisi colpevoli e complici, bensì per rinfocolare inumani e generici rancori razzisti antislavi...”. Non è il timore di dover affrontare critiche e polemiche di questo tipo che mi ha frenato: ci sono abituato e mi sarebbe facile confutarle. Il fatto è che a me non piace fare “chiasso” sulla memoria di una tragedia che pure, ormai, dovrebbe essere condivisa e, qualora lo fosse, non potrebbe dare adito a nessun chiasso e a nessuna polemica. Ma non lo è, se non nelle menti che hanno superato il baratro della fazione partigiana che divide persino nel dolore comune. Così, ho preferito dare la parola a chi, quelli che leggerete di seguito, per sua storia personale non può essere accusato di spirito di parte o di istigazione all’odio, antislavo o anticomunista che sia...


Norma Cossetto
Medaglia d'oro al merito civile alla memoria



Claudio Magris
scrittore

La verità, diceva Gramsci, è sempre rivoluzionaria; tenerla nascosta non è solo un inganno e una truffa, ma un inquinamento che avvelena e tarpa la vita di tutti, anche di chi la reprime e prima o dopo ne paga il fio. La verità può essere soffocata in tanti modi: tacendola, alterandola, isolandola dalla vita e dalla storia in cui s'inserisce (...).

Ho scritto più volte dei crimini delle foibe (e dell'esodo istriano, fiumano e dalmata, che ha coinvolto pure persone della mia famiglia); ne ho scritto già in anni lontani, quando tanti che ora se ne sciacquano la bocca se ne infischiavano altamente. Ne ho scritto sul Corriere della Sera , giornale di una certa diffusione, e ne hanno scritto, con ben maggiore autorità, storici e studiosi, le cui opere rigorose e precise erano e sono accessibili a chiunque desideri conoscere questa verità. In quegli articoli denunciavo, come altri ben più autorevoli di me, l'oblio di quella tragedia e di quei crimini, l'indifferenza, il cinismo e l'ignoranza nei loro confronti.

Sottolineavo la viltà e il calcolo opportunista di tanta sinistra italiana, che in nome di un machiavellismo da quattro soldi, destinato a ritorcersi contro se stesso, cercava di ignorare, dimenticare e far dimenticare il dramma dell'esodo istriano, fiumano e dalmata e gli eccidi delle foibe, affinché non si parlasse di crimini commessi dal comunismo o in nome del comunismo (...).



Gino Paoli
cantautore

Mio padre, figlio di un operaio analfabeta delle ferriere di Piombino, aveva fatto l’accademia di Livorno ed era arrivato ai cantieri di Monfalcone come ingegnere navale. Là aveva sposato mia madre, che invece veniva da una famiglia benestante, i Rossi. Io sono nato nel 1934 e ho vissuto i primi mesi a Monfalcone, poi ci siamo trasferiti a Genova. Dieci anni dopo, parte della famiglia di mia madre morì infoibata. I miei parenti non erano militanti fascisti, erano persone perbene, pacifiche. Ma la caccia all’italiano faceva parte della strategia di Tito, che voleva annettersi Trieste e Monfalcone. I partigiani titini, appoggiati dai partigiani comunisti italiani, vennero a prenderli di notte: un colpo alla nuca, poi giù nelle foibe. Mia madre e mia zia non hanno mai perdonato. Mi ricordavano spesso i nomi dei loro cari spariti in quel modo, senza lasciare dietro di sé un corpo, una tomba, una memoria. Peggio: una memoria negata. Una parte della nostra famiglia è finita nelle foibe e di queste cose per decenni non si è parlato. E la sinistra porta una responsabilità culturale, perché il partito doveva coprire la connivenza dei partigiani rossi con la strategia di Tito.


Renzo Martinelli
regista

Qualche anno fa ho girato un film che si intitolava “Porzus”. Raccontava una brutta storia, la peggiore fra quelle della resistenza italiana. Un gruppo di partigiani comunisti, su ordine della federazione del Partito comunista di Udine e su pressione del Nono korpus sloveno, quindi dei soldati di Ti-to, uccise ventidue partigiani di formazione cattolica della brigata Osoppo. Il film, di cui la Rai detiene i diritti, non è mai andato in onda e non è mai stato diffuso come home video, un motivo è che la Storia la scrive chi vince e siccome in Italia culturalmente hanno prevalso i comunisti, certi fatti non si possono raccontare. Sono diventati tabù (...).

Riguardo alle foibe, la fiction tv “Il cuore nel pozzo” è stata un’occasione mancata. Si racconta la storia senza mai nominare i comunisti. Limitandosi a chiamare genericamente gli slavi “aggressori” o “titini”, come se fossero dei canarini. Quando invece stavano compiendo un genocidio comandato. Inoltre, il protagonista della fiction è uno slavo a cui viene sottratto il figlio e che per vendetta attua una strage. In questo modo, si tende a giustificare questo personaggio. Dimenticando che quello delle foibe fu un genocidio sistematico programmato dalla Jugoslavia nei confronti delle popolazioni di confine (...).

Anche la strage di Porzus avvenne al confine con la Jugoslavia di Tito. Quella zona d’Italia ha pagato la vicinanza ad essa, ritrovandosi un partito comunista foltissimo, che coprì chi aveva compiuto l’eccidio. Tutti gli autori della strage furono condannati all’ergastolo in contumacia, perché prima del processo Togliatti li aveva fatti scappare in Jugoslavia. Non ci fu un giorno di galera per nessuno.