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Le ipocrisie dell'imperialismo britannico nella lucida analisi di John A. Hobson

di Francesco Lamendola - 10/02/2008

Forse è un errore considerare il fenomeno storico dell'imperialismo come una categoria unitaria e sostanzialmente omogenea. Forse lo storico dovrebbe essere più umile, meno desideroso di emulare le generalizzazioni che sono proprie delle scienze naturali e limitarsi a studiare gli eventi e i processi uno per uno, riconoscendo in essi non solo e non tanto quanto v'è di generale, bensì quanto v'è di specifico e particolare.

Non l'imperialismo, dunque, ma gli imperialismi (né il fascismo, per fare un altro esempio: ma i fascismi; e così via). Ciascuno con le sue caratteristiche, con le sue dinamiche, con le sue motivazioni, vere o presunte. Già: perché ogni imperialismo ha avuto le proprie motivazioni "ufficiali", il proprio paravento ideologico, la propria giustificazione filosofica o morale; e non se ne trovano due perfettamente identici; anzi, non se ne trovano due che si assomiglino quanto basta da autorizzare a parlare di un unico fenomeno.

Prendiamo il caso dell'imperialismo classico, dell'imperialismo "per eccellenza", fra quelli del mondo moderno: ossia quello britannico, quando (alla vigilia della prima guerra mondiale) circa un quarto delle terre emerse del globo vivevano all'ombra dell'Union Jack, e a tanti bambini africani si insegnava che la regina Vittoria era il sovrano più potente del mondo - né si andava molto lontano dal vero.

Gli uomini politici, la stampa e gli ambienti della finanza e dell'industria che avevano interessi di espansione coloniale giustificavano la politica imperiale britannica come una missione di civiltà: il famoso white man's burden, "il fardello dell'uomo bianco", caro alla retorica imperialistica di letterati come Rudyard Kipling. Essi affermavano che tale missione si esplicava attraverso l'imperialismo non solo perché esso era lo strumento necessario per diffondere il cristianesimo, l'ordine e la pace fra i "selvaggi"; ma anche - e qui l'ipocrisia toccava il vertice - per preparare quelle popolazioni all'autogoverno e alla democrazia, ossia per "elevarle", sia pure in un domani non meglio definito, verso gli istituti politici propri della madrepatria, e felicemente collaudati in secoli di storia (in particolare, a partire dalla Glorious revolution del 1688, che aveva stabilito la monarchia parlamentare).

E questo giustificava tutto.

Lo sterminio dei Tasmaniani e degli aborigeni australiani, cacciati come belve feroci (mentre erano miti e assolutamente inermi); l'asservimento e lo sfruttamento dell'antichissima civiltà indiana; la guerra spietata contro i liberi coloni boeri dell'Orange e del Transvaal, con tanto di campi di concentramento per vecchi, donne e bambini; e così via: tutto appariva giustificato alla luce della nobile missione di estendere ai popoli "primitivi" i vantaggi dell'autogoverno e degli istituti della democrazia rappresentativa.

Tuttavia, che si trattasse di slogan ipocriti e del tutto privi di credibilità, alcuni inglesi dallo sguardo acuto lo avevano capito benissimo; e, fra essi, l'economista John Atkinson Hobson (1878-1940), mente lucida e anticonformista, che criticava l'imperialismo non per motivi astrattamente umanitari, ma perché lo considerava un duplice errore, politico e finanziario. Politico, perché avrebbe spinto la Gran Bretagna sulla via di un crescente militarismo, che avrebbe minacciato la democrazia all'interno, e la pace all'esterno, provocando urti e tensioni con le altre potenze imperialiste; finanziario, perché i costi dell'apparato militare necessario a sostenerlo si sarebbero abbattuti sulle classi lavoratrici, avrebbero provocato una perdita del loro potere d'acquisto e, quindi, avrebbero avviato una spirate deflazionistica, con grave danno per tutta l'economia.

Saggista assai prolifico, il suo libro Imperialism. A study, venne pubblicato a Londra nel 1902, ossia poco dopo la vittoria sui Dervisci del Sudan, a Omdurman, quando lord Kitchener aveva fatto disseppellire le spoglie del Madhi per spedirne la testa in  Inghilterra; e all'indomani della guerra anglo-boera, che aveva dato alla Gran Bretagna il dominio incontrastato del Sud Africa e aveva scatenato scene di frenetico entusiasmo popolare per le vie della capitale britannica (come nella famosa "notte di Makefing"), quando i poveri operai dei sobborghi industriali si erano uniti ai borghesi in un esaltante sentimento di amore patriottico. E tutti, proletari e borghesi, si erano dimenticati che l'Impero britannico non stava combattendo per la vita e per la morte contro una grande potenza che ne minacciava l'esistenza, ma contro due minuscole repubbliche di contadini europei, poveri, senza mezzi finanziari e senza appoggi internazionali (tranne che a parole), i quali erano migrati lontano dalla Colonia del Capo, qualche decennio addietro, proprio per vivere liberi e indipendenti dal giogo britannico.

La vittoria sui Boeri, in particolare, aveva permesso alla Gran Bretagna di realizzare quasi interamente l'ambizioso progetto imperialistico "dal Cairo al Capo" (con la sola, fastidiosa interruzione dell'Africa Orientale Tedesca), caro a uomini come Cecil Rhodes e Winston Churchill, che poneva nelle sue mani tutte le vie d'acqua strategiche intorno al continente: dallo Stretto di  Gibilterra, al Canale di Suez, al Bab-el-Mandeb, al Capo di Buona Speranza. E aveva poderosamente rafforzato l'orgoglio nazionale; tanto che molti storici, a proposito di questa caratteristica mescolanza di imperialismo della sterlina e di coinvolgimento sentimentale di tutte le classi sociali, hanno adoperato l'espressione "imperialismo popolare", che è un fenomeno unico nella storia degli imperialismi (con la sola analogia, forse, degli Stati Uniti d'America, che però rappresentavano una situazione quasi diametralmente opposta a quella inglese: mentre nell'Impero britannico la madrepatria era, per superficie e numero di abitanti, una piccolissima frazione  dell'insieme, in quello americano era vero il contrario).

È curioso il fatto che il libro di Hobson abbia dovuto attendere circa un secolo prima di essere tradotto in lingua italiana. Lo ha fatto la Casa editrice Newton Compton di Roma, nel 1996, con una versione dall'originale inglese di Luca Meldolesi e Nicoletta Stame, in una edizione molto economica, dalla quale citiamo alcuni passaggi chiave (pp.  135-155).

 

"La singolare ignoranza che oggi domina riguardo alle caratteristiche politiche e alle tendenze prevalenti dell'imperialismo non potrebbe essere meglio illustrata che dal seguente passo, tratto da una dotta opera intitolata La storia della colonizzazione (di H. C. Morris): «(…) Una sola regola fissa sembra esistere; è quella di promuovere al massimo gli interessi della colonia, di sviluppare il suo sistema di governo il più rapidamente possibile e alla fine di elevarla dalla posizione di inferiorità che essa occupa a quella di associazione. Sotto il fascio di questo spirito generoso i principali possedimenti della Gran Bretagna hanno acquistato una libertà sostanziale, sena dissolvere i oro legami nominali con la madrepatria; gli altri possedimenti ancora subordinati vi aspirano, mentre, d'altra parte, questo privilegio della indipendenza locale ha permesso all'Inghilterra di assimilare con facilità molti Stati feudali nel corpo politico del suo sistema».

"Ecco qui che i britanni, al pari dei romani, sono una razza dotata del genio di governo, e che la nostra politica imperiale e coloniale è animata dalla volontà di diffondere in tutto il mondo le arti del libero autogoverno di cui godiamo in patria, e che effettivamente stiamo svolgendo questo lavoro.

"Ora, senza discutere i meriti o i difetti della teoria e della pratica inglese dell'autogoverno rappresentativo, affermare che la «nostra regola fissa d'azione» è stata quella di educare i nostri possedimenti a questa teoria e a questa pratica è la più grossa deformazione possibile della reale politica coloniale e imperiale perseguita dal nostro paese. Alla vasta maggioranza dei popoli del nostro potere noi non abbiamo attribuito alcun vero potere di autogoverno, né abbiamo alcuna seria intenzione di farlo, né d'altra parte crediamo seriamente che sia possibile farlo.

"Dei trecentosessantasette milioni di sudditi che vivono fuori dalle isole britanniche, non più di undici milioni, ossia uno su trentaquattro, hanno una qualche forma di autogoverno per quanto riguarda la legislazione e l'amministrazione.

"La libertà politica, e la libertà civile che da essa dipende, semplicemente non esistono per la stragrande maggioranza dei sudditi britannici. Soltanto nelle colonie autonome dell'Oceania e del Nord America  il governo rappresentativo responsabile è una realtà, e perfino là la presenza di considerevoli popolazioni straniere, come nell'Australia occidentale, o del lavoro servile, come nel Queensland, annacquano il valore genuino della democrazia. Inoltre nella Colonia del Capo e nel Natal gli avvenimenti testimoniano come siano deboli le radici delle libere istituzioni britanniche, sia nella forma sia nello spirito, in quegli Stati in cui la maggioranza della popolazione  sempre stata esclusa ai diritti politici. Il diritto di voto, e tutti i diritti civili che esso porta con sé, rimangono virtualmente un monopolio bianco in queste due cosiddette colonie autonome in cui la popolazione di colore era nel 1903 in un rapporto rispettivamente di quattro a no e di dieci a uno con i bianchi.

"In certe altre nostre colonie di più vecchia data esiste un elemento i rappresentatività nei pubblici poteri. (…)

"La popolazione totale di queste colonie della Corona [ossia Giamaica, Trinidad, Barbados, Bahamas, Guiana Britannica, Isole Sopravento, Bermude, Malta, Maurizio, Ceylon] ammontava a 6 milioni e 700 mila nel 1898 Ma la stragrande maggioranza dei sudditi dell'impero britannico sono sotto il governo coloniale della Corona, o sotto protettorati. In nessun caso essi godono di alcuno degli importanti diritti politici dei cittadini britannici; in nessun caso essi vengono educati all'arte delle libere istituzioni inglesi. Nelle colonie della Corona la popolazione non esercita alcun diritto politico. Il governatore, che è designato dall'Ufficio Coloniale, ha poteri assoluti tanto per la legislazione che per l'amministrazione, aiutato da un consiglio di residenti locali normalmente scelti da lui o dalle autorità della madrepatria; ma le funzioni di questa istituzione sono meramente consultive, e i suoi consigli possono essere ignorati, e frequentemente lo sono. Nei vasti protettorati che abbiamo conquistato in Africa e in Asia non vi è nemmeno l'ombra di un governo britannico rappresentativo; il nostro intervento consiste in atti arbitrari di ingiustificata interferenza nei governi locali. (…)

"Dove vi è un vero governo britannico, esso non porta né libertà né autogoverno; dove porta una certa quantità di libertà e di autogoverno, non  è un vero governo effettivo. Nemmeno il cinque per cento della popolazione del nostro impero è in possesso di una porzione significativa delle libertà politiche e civili che sono alla base della civiltà britannica. Se si escludono gli undici milioni di sudditi britannici del Canada, dell'Australia e della Nuova Zelanda, nessun gruppo significativo ha un pieno autogoverno nelle questioni più vitali, né viene« elevato dalla posizione di inferiorità a quella di associazione».

"Questo è il fatto più importante per chi studia il presente e il probabile futuro dell'impero britannico. In queste piccole isole britanniche ci siamo assunti la responsabilità di governare grandi aggregai di razze inferiori [sic] in tutte le parti del mondo, con metodi che sono antitetici a quelli che consideriamo più positivi per noi.

"Qui la questione non è se noi governiamo queste colonie o teniamo sotto controllo questi popoli bene e saggiamente, meglio di come essi potrebbero governarsi se lasciati a se stessi, o meglio di come un'altra nazione imperialista europea potrebbe governarli, ma se gli stiamo insegnando quelle arti di governo che noi consideriamo il nostro bene più prezioso. (…)

"L'attuale natura dei governi sotto i quali vive la vasta maggioranza dei nostri concittadini dell'impero è eminentemente non britannica, poiché è basata non sul consenso dei governati, ma sulla volontà dei funzionari imperiali; questa natura si manifesta in una grande varietà di forme, che tuttavia trovano un punti di incontro proprio in una non libertà di fondo. E non è nemmeno vero che qualcuno dei nostri più illuminati metodi di amministrazione impiegati nelle colonie sia diretto a mutare questa natura. Non solo in India, ma anche nelle Indie Occidentali, e dovunque esiste una grande preponderanza di popolazione di colore, non solo l'opinione pubblica inconsapevole ma anche quella illuminata è tendenzialmente contraria a un governo veramente rappresentativo sl modello britannico. Si pensa infatti che in questi casi esso sia incompatibile con l'esercizio di una autorità economica e sociale da parte di una razza superiore.

Quando l'autorità britannica è stata imposta con la forza su popolazioni razza e colore diversi dalla nostra, con abitudini di vita e di pensiero che non si armonizzano con le nostre, si è rivelato impossibile piantare i teneri germogli del governo rappresentativo e al tempo stesso preservare l'ordine pubblico. In pratica dobbiamo scegliere tra un ordine pubblico e una giustizia amministrata autocraticamente secondo lo stile britannico da un lato e dall'altro la promozione di esperimenti di autogoverno di tipo britannico che si sono rivelati delicati, costosi, di dubbio valore e disordinati; abbiamo praticamente ovunque deciso di adottare la prima alternativa. (…)

"Alla luce di questa analisi, rivolta all'impero nel suo complesso, come consideriamo allora il nuovo imperialismo? Quasi la totalità delle nuove acquisizioni, come abbiamo visto, consiste di territori tropicali o sub-tropicali, con popolazioni di selvaggi [sic] o di 'razze inferiori'; solo una piccola parte di esso potrebbe, anche nel futuro più lontano, aumentare l'area della vera vita coloniale. Nei pochi posti in cui i coloni inglesi possono stabilirsi, come in alcune parti degli Stati sudafricani, essi saranno così inferiori numericamente rispetto alle popolazioni negre da rendere impossibile l'adozione di un libero governo rappresentativo.

"In una parola, il nuovo imperialismo ha aumentato l'area del dispotismo inglese: e ciò supera di molto l'avanzamento in popolazione e in effettiva libertà che si è avuto nelle poche colonie democratiche dell'impero.

"Il nuovo imperialismo non si è adoperato per propagare le libertà britanniche e per diffondere le nostre arti di governo. (…)

"I decenni dell'imperialismo sono stati prolifici di guerre; molte di queste guerre sono state motivate direttamente dall'aggressione delle razze bianche sulle 'razze inferiori', e si sono concluse con la conquista con la forza del territorio. Ogni passo dell'espansione in Asia, Africa e nel Pacifico è stato accompagnato da spargimento di sangue; ogni potenza imperialista mantiene un esercito sempre più grande pronto per missioni all'estero; rettificazione delle frontiere, spedizioni punitive, e altri eufemismi usati al posto della parola guerra, sono stati in continuo aumento. La pax britannica, che era sempre stata una impudente falsità, è divenuta un grottesco mostro di ipocrisia; lungo le nostre frontiere indiane, nell'Africa occidentale, in Sudan, in Uganda,in Rhodesia i combattimenti non sono quasi mai cessati. Sebbene le grandi potenze imperialiste non abbiano ancora combattuto l'una contro l'altra salvo quando l'impero nascente degli Stati Uniti trovò una conveniente occasione nella caduta dell'impero spagnolo, l'autolimitazione è stata costosa e precaria. La pace come politica nazionale ha trovato un antagonista non solo nella guerra, ma anche nel militarismo, un male anche più grave. (…)

"L'affermazione della scuola del si pacem vis para bellum secondo cui solo gli armamenti costituiscono la migliore sicurezza per la pace, è basata sull'assunzione che esiste un vero e duraturo antagonismo di interessi tra i vari popoli che sono chiamati a subire questo mostruoso sacrificio.

"La nostra analisi economica ha mostrato che vi è antagonismo solo tra gli interessi delle cricche concorrenti degli uomini d'affari investitori, imprenditori che lavorano su commesse statali, esportatori di manufatti, e certe classi professionali; essa ha mostrato che queste cricche, usurpando la volontà e la voce del popolo, usano le risorse pubbliche per far avanzare i loro interessi privati, e spendono il sangue e il denaro del popolo in questo vasto e disastroso gioco militare, simulando antagonismi nazionali che non hanno base nella realtà. )…)

"La guerra, tuttavia, non rappresenta il successo ma il fallimento di questa politica, il cui frutto più normale e pericoloso non è la guerra, ma il militarismo. Finché si permetterà che questa espansione competitiva per i territori e i mercati stranieri venga gabellata per 'politica nazionale', l'antagonismo di interessi sembrerà reale, e la gente dovrà faticare, sudare e sputar sangue per mantenere una macchina di guerra sempre più costosa.

Se la logica fosse applicabile in questi casi, la nozione che quanto maggiore è la preparazione alla guerra tanto minore è la probabilità che essa scoppi apparirebbe subito una reductio ad absurdum del militarismo, poiché essa significa che l'unico modo di assicurare un'eterna pace mondiale è concentrare tutte le energie di tutte le nazioni sulle arti della guerra, che così si renderebbe impossibile in pratica. (…)

"se vogliamo tenerci tutto quello che ci siamo presi dal 1870 in poi e competere con le nuove nazioni industriali nella ulteriore spartizione degli imperi o delle sfere di influenza in Africa e in Asia, dobbiamo essere pronti a combattere. La teoria che noi potremmo essere costretti a combattere per la sopravvivenza stessa del nostro impero contro qualche alleanza di potenze europee, teoria che è ora usata per spaventare il paese e spingerlo a un capovolgimento definitivo e irreparabile della sua politica commerciale e militare, non significa altro che l'intenzione degli interessi imperialisti di continuare la loro temeraria politica di annessioni.. (…)

"L'imperialismo, sia consista in un'ulteriore politica di espansione, sia che riguardi il mantenimento sena eccezione di tutte quelle vaste terre tropicali che sono state contrassegnate come sfere di influenza britannica, porta con sé militarismo oggi e guerre rovinose nel futuro. Qusta verità è messa per la prima volta nuda e cruda davanti agli occhi del paese. I regni della terra saranno nostri a condizione che noi ci inginocchiamo e adoriamo Moloch.

"L'ordine e il progresso della Gran Bretagna durante il diciannovesimo secolo sono stati ottenuti coltivando e praticando le normali virtù civiche e industriali. Favoriti da certi vantaggi di risorse naturali e da opportunità storiche. Siamo oggi pronti a sostituire ciò con un codice etico militare o a sconvolgere la mentalità e la condotta del paese, con un conflitto perpetuo tra due principi contrastanti, l'uno che vuole l'evoluzione del buon cittadino, e l'altro l'evoluzione del buon soldato? (…)

"Tutti questi pericoli per il presente e per il futuro sono frutti del nuovo imperialismo, che così si palesa come nemico mortale e implacabile della pace e dell'economia. (…)

"Con l'antagonismo rispetto alla democrazia entriamo nel cuore del problema dell'imperialismo come principio politico. L'imperialismo non viene solo usato per frustrare quelle riforme economiche che noi ora riconosciamo come essenziali ad un efficace lavoro di tutta la macchina del governo popolare; esso opera proprio per paralizzare il lavoro di quella stessa macchina. Le istituzioni rappresentative sono inadatte all'impero, sia per quanto riguarda gli uomini sia per i metodi. È impossibile che il popolo riesca a conoscere e a controllare il modo in cui un grande ed eterogeneo miscuglio di razze inferiori [sic] viene governato da parte di funzionari ministeriali che stanno a Londra e di emissari da loro nominati. I ministri degli Esteri, delle Colonie e delle Indie nel Parlamento, i funzionari permanenti dei ministeri, i governatori e la burocrazia che rappresentano il governo imperiale nei nostri possedimenti, non sono controllati direttamente ed effettivamente dalla volontà popolare né potrebbero esserlo. Questa subordinazione del legislativo all'esecutivo e la concentrazione del potere esecutivo nelle mani di un'autocrazia sono conseguenze necessarie del predominio della politica estera su quella interna. Questo processo è accompagnato da una decadenza dello spirito e dell'azione di partito e dalla pretesa dell'autocrazia, sia essa un Kaiser o un governo, che ogni seria critica proveniente da un partito non è patriottica e porta al tradimento."

 

Straordinariamente lucida questa analisi di Hobson il quale, come si vede, non critica l'imperialismo dall'esterno ma, per così dire dall'interno.

Non solleva questioni di etica politica, e mostra di condividere la base culturale e ideologica della borghesia industriale britannica, compresa l'esistenza di razze inferiori e superiori, tra le qual, ultime, naturalmente, è la propria.

Invece, fa notare che l'imperialismo conduce a un inevitabile stravolgimento della fisionomia politica, economica e militare della nazione, sovvertendo i valori tradizionali del liberalismo e del governo rappresentativo, dei quali i suoi compatrioti andavano tanto fieri e con i quali, incredibilmente, cercavano di giustificare la conquista di sempre nuovi territori e la sottomissione di intere popolazioni. Inoltre, egli mostra come l'imperialismo danneggi gli interessi reali dell'economia, perché accresce a dismisura le spese militari e favorisce unilateralmente settori assai ristretti della società, particolarmente le industrie che lavorano per le commesse statali, quelle orientate all'esportazione di prodotti finiti, nonché una cerchia di funzionari e amministratori coloniali.

Da ultimo, con saggezza profetica, ricorda ai suoi concittadini, esaltati dalle facili vittorie sui Boeri del  Sudafrica e su eserciti indigeni male armati e male equipaggiati, come i Mahdisti del Sudan, che, a lungo andare, l'espansione imperialistica determinerà conflitti insanabili con le altre potenze (com'era avvenuto con la Francia al tempo dell'incidente di Fashoda, sull'alto Nilo), che verranno  presentati all'opinione pubblica come necessari per difendere gli interessi vitali della nazione, mentre ciò non corrisponde affatto a verità. E qui par già di sentire avvicinarsi, in lontananza, il rombo delle artiglierie della prima guerra mondiale, che sarebbe stata scatenata proprio da quell'esasperato militarismo e da quella selvaggia competizione internazionale, finanziaria prima ancora che politica e coloniale, che l'imperialismo aveva alimentato, sconsideratamente, per interi decenni.

Hobson non è un marxista, né un rivoluzionario; e nemmeno un nemico della borghesia. Egli ragiona, in un certo senso, come un conservatore illuminato che possiede lo sguardo acuto e vede nell'imperialismo posteriore al 1870 una degenerazione di una "sana" politica coloniale. Pertanto la sua proposta è che la Gran Bretagna non proceda ad ulteriori annessioni coloniali, anzi abbandoni una parte dei domini acquisiti nell'ultimo trentennio, perché il loro mantenimento sarebbe troppo dispendioso e sarebbe fonte di continui pericoli di guerra con le altre potenze europee (allora quasi nessuno pensava al Giappone in tali termini, cioè come un pericoloso concorrente e come una agguerrita minaccia potenziale).

I suoi ragionamenti, sorretti dalle cifre dell'economia, che dimostrano l'immenso sperpero di risorse necessario ad estendere, o anche solo a conservare, un impero di quelle dimensioni, sono in genere basati sul puro e semplice buon senso; e, se dovettero apparire rivoluzionari, è solo perché, all'epoca, sia l'opinione pubblica, sia la maggioranza degli intellettuali prendevano per buone le fandonie dei circoli imperialisti, prima fra tutte quella che la Gran Bretagna governava i popoli africani ed asiatici nel loro interesse, per avviarli verso forme di autogoverno e verso istituzioni  rappresentative. Essi sfruttavano cinicamente la sensibilità emotiva delle masse, a loro volta suggestionate dalla stampa, e avevano sempre una "buona" causa, in genere di tipo umanitario, da presentare come paravento delle loro mire espansioniste.

Tipico esempio di questa politica spregiudicata, basata sulla disinformazione, era stata la vicenda del generale Gordon a Khartoum, nel 1884-85: iniziata come operazione "umanitaria" per mettere in salvo i cittadini europei residenti nella capitale del Sudan, si era poi trasformata in una spedizione di soccorso allo stesso Gordon; e, da ultimo (dopo la morte di questi), in una pura e semplice guerra per la "civiltà" e contro la "barbarie" dei Mahdisti.

È impressionante osservare quante analogie esistano fra l'impero britannico agi albori del 1900, descritto con tanta lucidità e disincanto da Hobson, e l'impero americano nei primi anni del 2000, la cui politica follemente avventurista è stata denunciata con coraggio e lungimiranza da intellettuali come Noam Chomsky.

Impero e democrazia possono coesistere temporaneamente, ma alla fine l'uno divorerà l'altra. Questa è la lezione della storia e ha ormai duemilacinquecento anni: è giù evidente nell'Atene di   Pericle e nel disastro annunciato della guerra del Peloponneso, che ha avuto anch'essa il suo lucido e spassionato testimone: Tucidide, il più grande storico del mondo antico.

Speriamo che non ci sia bisogno di un altro Tucidide per descrivere il disastro annunciato della guerra di civiltà, verso il quale gli irresponsabili dirigenti della Casa Bianca e del Pentagono stanno sospingendo l'intera umanità, con perseveranza degna di una migliore causa, da circa un ventennio, ossia da quando è terminata la "guerra fredda" con l'ex superpotenza sovietica.