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La lunga notte della palestina: Habash, un combattente, un uomo

di Ugo Gaudenzi - 11/02/2008

 

 
La lunga notte della palestina: Habash, un combattente, un uomo

A Beirut Ovest, negli anni crudeli della guerra civile e dell’invasione israeliana, soltanto un palazzo, soltanto un quadrato di case, rappresentavano il vero simbolo della resistenza nazionale palestinese. Era, quello, il quartier generale del Fronte popolare di liberazione palestinese, il movimento di resistenza fondato e guidato da George Habash. Vigilato dai suoi fedayin e da miliziani di ogni nazionalità. Da latino-americani e giapponesi, da giovani tedeschi ed italiani.
Nulla a che spartire, lì, con “quelli dell’Hamra”, quei vertici palestinesi, cioè, che trattavano e sospendevano i negoziati, li riprendevano, cercavano compromessi e poi si spaccavano e frantumavano in mille rivoli. Con tutta la stima per il combattente Jibril – peraltro anche lui, come Hawatmeh, come Bassam, come tanti altri, passato tra i ranghi del Fplp di Habash – o per il combattente Abu Mussa, Georges Habbash “era” la Palestina in esilio.
Habash, vittima della nakba, della catastrofe del 1948 quando i sionisti, sostenuti dalla decisione di Jalta e dalla delibera delle Nazioni Unite – si badi bene: fu una precisa scelta di Roosevelt, Stalin e Churchill quella di sequestrare la Palestina e di trasformare la Cisgiordania, Gerusalemme e Gaza in una terra per gli ebrei profughi dall’Europa – si impossessarono delle terre, delle case e delle vite del popolo palestinese che da millenni lì risiedeva; Habash forzatamente esiliato dalla sua patria, costretto a diventare ospite scomodo di altre nazioni; Habash, il combattente, fino alla morte, per la causa della liberazione nazionale del suo popolo; Habash, il “dottore” – la sua famiglia cristiana lo aveva avviato nella professione di medico – l’intellettuale, il socialista, il nazionalista.
Chi scrive ebbe modo di intrattenersi con lui. Non fu un’intervista. L’esercito israeliano premeva ormai a due passi dai quartieri dove erano asserragliati i palestinesi. Arafat aveva già negoziato la sua fuga altrove: prima a Tripoli quindi a Tunisi. Habash dichiarò soltanto che sarebbe rimasto vicino al suo popolo, a Damasco, dove la comunità dei palestinesi era ancora forte e organizzata. Il colloquio diventò più personale. Ripercorse quarant’anni della sua vita di combattente per la patria. In un lungo monologo, confessò – eppure si dichiarava “marxista”… - l’ineluttabile richiamo del suo sangue e della sua terra. Si lasciò prendere da attimi di disperata lucidità su quello che l’avvenire riservava di certo a lui – costretto ad un continuo esilio, costretto a rinunciare anche alle sue “seconde patrie” (come stava accadendo in quelle ore con Beirut), costretto a soffocare i sogni di vivere una vita “con un po’” di libertà, “con un po’” di giustizia – e purtroppo a tutto il suo popolo, offeso, deriso, rapinato dai “grandi della Terra”.
Un uomo solo, pur se tra migliaia di suoi sodali, di suoi amici, di suoi fratelli di lotta.
Con un sorriso triste ricordò ad un tratto che in gioventù la sua famiglia lo aveva indirizzato verso la cultura, il sapere, la logica… ma come, presa coscienza della coltellata alla schiena data al suo popolo dai “liberatori”, dai vincitori della seconda guerra mondiale, la sua scelta fu l’azione, con tutte le sue conseguenze. “E ora ci cacciano anche da questa nostra piccola, seconda, patria”, Beirut, “dove il mio popolo aveva ritrovato, tra gli aranceti e le antiche vestigia della comune storia araba, con i giardini coperti di rose e con le dolci canzoni di Feruz, la voglia di vivere”… Troncò il discorso. La notte era lunga. Qualche ora più tardi George Habash e i suoi fedayin sarebbero stati gli ultimi a lasciare la capitale libanese. Non era giusto cullarsi nel passato, nella memoria…
Ecco: lo ricordo così. Un combattente, un uomo.