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La razzìa dei mari affama il Mozambico

di Marina Forti - 12/02/2008

 

 

Quando c'era la guerra civile, spiega un pescatore della provincia di Inhambane, nel Mozambico meridionale, il mare era pescosissimo ma era impossibile raggiungere i mercati urbani e entrare nel giro delle esportazioni. La guerra è finita (nel '92) e non ci sono più limitazioni ai movimenti. «Ora si può fare molti più soldi con la pesca. Ma proprio ora, il pesce sta scomparendo», dice il signor Lucas Antonio Matibe (all'agenzia Irin News, pubblicata dall'ufficio affari umanitari delle Nazioni unite), pescatore di gamberi: «Non saprei dire dove è finito, ma ogni anno ne troviamo sempre meno».
Dove è finito il pesce, una volta tanto abbondante nei mari del Mozambico? La risposta sta in una parola che ricorre sempre più spesso nei rapporti delle Nazioni unite o delle istituzioni ambientaliste: overfishing, sovrasfruttamento della pesca. A pescare troppo però non sono i pescatori come il signor Matibe, i circa 90mila «pescatori artigianali su piccola scala» censiti in Mozambico - su una popolazione di appena 20 milioni di abitanti, essenzialmente rurale, di cui il 40% vive con meno di un dollaro al giorno. Anche se poi sono proprio loro a soffrire le conseguenze più dirette del rapido spopolamento dei mari. Con «pescatori artigianali» si intende persone che pescano sottocosta, con barche e reti, magari piccolissimi pescherecci a motore. Una piccola industria di autosussistenza che alimenta l'economia locale, nulla a che vedere con la pesca industriale delle grandi flotte hi-tech, reti che spazzano grandi zone di mare prendendo virtualmente tutto, impianti per trasformare e congelare il pescato prima ancora di tornare a terra, spesso attrezzate con sonar e apparecchiature che segnalano la presenza di banchi di pesce: vere e proprie macchine da guerra.
Il censimento della pesca fatto nel 2002 dal governo mostra che appena il 3% delle 24mila barche da pesca usate nel paese ha un motore che permette di lavorare in acque profonde. Il governo ha un «piano strategico» per sviluppare la pesca artigianale, dare ai pescatori accesso al credito, sviluppare trasporti, infrastrutture per lo stoccaggio e conservazione del pescato e migliorare l'accesso ai mercati: tra il 2007 e il 2011 il ministero della pesca conta su una crescita del 30%. Però stenta a raccogliere i 54 milioni di dollari necessari al suo piano (una recente donazione di 4,2 milioni di dollari del governo italiano ha aiutato, ma il budget è ancora incompleto).
Il problema di fondo però resta: la scomparsa del pesce. Il sovrasfruttamento della pesca nell'oceano Indiano sud-occidentale è stato ben analizzato nel 2006 da un rapporto alle Nazioni unite: diceva che solo un quarto degli stock di pesce nella regione erano ancora commercialmente utilizzabili, e che nelle zone costiere gran parte delle specie erano vicine a esaurimento. Quel rapporto elencava diversi problemi. Parlava della mancanza di gestione delle risorse ittiche, e puntava il dito sulla pesca illegale da parte delle flotte pescherecce occidentali.
Mentre il governo di Maputo cerca di meglio attrezzare la pesca su piccola scala, infatti, i mari vengono razziati da grandi flotte commerciali. Secondo il rapporto pubblicato nel novembre 2007 dall'Institute of Security Studies (Iss, che ha sede in Sudafrica), la pesca illegale al largo dell'Africa meridionale e orientale è vicina a provocare danni permanenti all'ecosistema marino. I mari africani sono razziati da flotte pescherecce europee, russe e asiatiche, e la pressione aumenta: nel suo rapporto (The crisis of marine plunder in Africa), l'Iss stima che la pesca illegale sia ormai un'industria da un miliardo di dollari l'anno; «in Mozambico, la pesca illegale fa all'incirca 38 milioni di dollari». Per fermare la razzìa il governo mozambicano deve istituire un censimento degli stock ittici e controllare le flotte straniere: ma per sorvegliare 2.700 chilometri di costa servono mezzi e risorse, che Maputo non ha. Così la razzìa continua.