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Il comunitarismo e la virtù prima di MacIntyre

di Mario Ricciardi - 12/02/2008

Fonte: farmindustria

 

 

Nell’ambito della ripresa del comunitarismo, l'espressione "etica delle virtù" è in genere associata al lavoro di Alasdair MacIntyre. Tuttavia egli ha tirato le fila della riflessione di numerosi filosofi del dopoguerra. Ricostruendo questa genealogia si introducono alcune delle idee che sono sullo sfondo dell'etica delle virtù: quella di "fioritura umana", del legame che essa ha con la natura degli esseri umani come membri di una specie animale, e del rapporto che lo sviluppo delle virtù ha con il fatto che gli esseri umani sono animali sociali.

Negli ultimi anni si è parlato molto di "etica delle virtù". Che questa espressione sia divenuta familiare anche al lettore non specialista si deve in buona parte al successo avuto dai lavori di Alasdair MacIntyre, il filosofo che più di ogni altro viene associato al ritorno delle virtù tra i temi "caldi" della discussione etica. Meno noti al lettore comune sono invece i lavori di altri autori che, ben prima di MacIntyre, si sono occupati dello stesso tema. A pensarci, la cosa è strana perché, senza le premesse teoriche poste da Elizabeth Anscombe, Peter Geach, Georg H. von Wright, Iris Murdoch e Philippa Foot, la ricomparsa della nozione di virtù nella riflessione etica contemporanea sarebbe stata difficile. Basta guardare le date e i conti tornano: il primo passo lo muove Elizabeth Anscombe con il saggio Modern Moral Philosophy del 1958 (1). Nel 1963 il suo esempio è seguito da Georg H. von Wright, che dedica un intero capitolo del suo libro The Varieties of Goodness alla nozione di virtù (2). Nel 1970 esce The Sovereignty of Good di Iris Murdoch che riprende il tema sviluppandolo (3). Nel 1977 è la volta di Peter Geach che a The Virtues dedica un intero volume (che riprende le sue "Stanton Lectures" del 1973-74) (4). Nel 1978 Philippa Foot conclude la serie pubblicando una raccolta di saggi dal titolo Virtues and Vices (5). Ma si potrebbe continuare: la lista dei precursori e compagni di strada di MacIntyre non è completa senza menzionare almeno Stuart Hampshire, John McDowell e Rosalind Hursthouse.

Se c’è stato un ritorno delle virtù, esso è avvenuto a partire dalla fine degli anni Cinquanta e non dal 1981 (anno di pubblicazione di After Virtue di MacIntyre) (6). La puntigliosità di questa precisazione cronologica non è dovuta solo all’attenzione per la consapevolezza storica (su cui lo stesso MacIntyre ha tanto insistito). Non c’è dubbio che la nostra consapevolezza sarebbe arricchita interrogandoci su questa strana lista che comprende diversi allievi di Wittgenstein e una curiosa mescolanza di cattolici e agnostici (7). Si tratta di autori le cui posizioni non sono riconducibili a una "scuola" e che sono talvolta in dissenso su questioni anche rilevanti, ma che sono uniti dalla comune caratteristica di essere dei critici del conseguenzialismo e dell’etica di ispirazione kantiana che sono stati predominanti nel dibattito di filosofia morale dal dopoguerra a oggi.

Ma non è solo questo il punto. Personalmente sono convinto che ci sono buone ragioni per sostenere che la lettura critica di quanto c’era prima di MacIntyre potrebbe rivelarsi utile sul piano teorico per il contributo che può dare a una migliore comprensione di noi stessi. Per capire perché, può essere utile richiamare la distinzione tra teoria delle virtù e etica delle virtù introdotta da Julia Driver e ripresa da Roger Crisp (8). Per teoria delle virtù si intende quella parte della filosofia morale che si occupa della nozione di virtù cercando di chiarirne le caratteristiche e le implicazioni. Si tratta di un lavoro di chiarificazione concettuale che ha a oggetto in primo luogo il linguaggio delle virtù. Ovviamente, questo tipo di analisi comporta una certa attenzione a vari aspetti del linguaggio ordinario. Parlare di virtù vuol dire parlare anche di azioni, intenzioni, motivi, carattere, ragioni. Quindi l’affermazione che la teoria delle virtù si occupa del "linguaggio delle virtù" va presa con una certa cautela.

Il linguaggio delle virtù è più ampio degli usi di "virtù" nel linguaggio ordinario. Esso ha diverse connessioni con il linguaggio dell’azione e, più in generale, dell’intenzionalità. Nel saggio precedentemente richiamato, Anscombe sosteneva che fare filosofia morale presuppone un’adeguata psicologia morale (cioè il tipo di cose di cui si occupavano Aristotele o David Hume e che molti filosofi morali contemporanei trascurano) (9). Che ciò non avvenga è sorprendente visto che questa non è una raffinata tesi teorica, ma la banale cautela che dovrebbe spingerci, prima di premere i bottoni di uno strano ordigno, a essere ben certi che abbiamo capito di cosa si tratta. Il lavoro cui allude Anscombe è un tipo di ricostruzione concettuale, una descrizione. La teoria delle virtù si occupa di questo. Solo una volta capito come funziona l’ordigno si può valutare se sia il caso o meno di usarlo e di consigliare alle persone a noi care di fare altrettanto. Questo è l’oggetto dell’etica delle virtù: dopo aver capito cosa sono le virtù, scegliere se si debba essere virtuosi.

La parola "virtù" viene impiegata per tradurre il termine greco areté che significa qualcosa come "eccellenza" o "bontà" di un certo oggetto. Aristotele usa questo termine per parlare di oggetti di ogni tipo, dagli argomenti agli artefatti, fino agli esseri umani. Si può quindi dire che l’idea stessa di virtù ha a che fare con quella di "forma" nel senso che essa ha un significato se si assume che esistano delle caratteristiche essenziali che tipi di oggetti hanno e manifestano in misura maggiore o minore. Parlare di particolari virtù come la temperanza o il coraggio ha senso se si assume che ci siano delle caratteristiche essenziali dell’essere umano, qualità che ogni essere umano deve possedere in una certa misura se vuole condurre una vita soddisfacente. Ciò ci conduce al secondo termine che consente di comprendere cosa sono le virtù: si tratta di una parola un po’ buffa, "fioritura", che è stata proposta da Anscombe come traduzione del greco eudaimonia usato da Aristotele. Che si tratti di una traduzione felice è stato confermato dal fatto che il termine è ora impiegato da buona parte degli studiosi di Aristotele, e comincia a entrare anche nell’uso italiano (10).

Cos’è la fioritura di un essere umano? Come quella delle piante, la fioritura di un essere umano consiste nel fatto che egli sviluppi le potenzialità che sono tipiche della specie vivente cui appartiene, riuscendo a condurre una vita soddisfacente. La felicità intesa come lo stato d’animo che si può provare quando accade qualcosa che ci rende particolarmente contenti e che migliora il nostro umore, ha un legame solo indiretto con la fioritura. Direi che è ragionevole pensare che una persona che riesce a "fiorire" sia una persona che riesce anche a essere felice in molte circostanze, ma ciò non vuol dire che scopo della virtù sia promuovere la felicità in quanto tale. L’ideale delle virtù si distingue, da questo punto di vista, dall’utilitarismo. Una vita virtuosa comporta anche una certo esercizio, un’attenzione al proprio corpo non meno che alla propria mente, e il perseguimento di modelli di comportamento che non sono sempre riconducibili alla realizzazione della felicità. Si pensi, ad esempio, alla felicità che si accompagna a un comportamento sconsiderato. Il senso di ebbrezza di chi guida in modo spericolato ha a che fare con la felicità, ma non con la virtù. Una persona virtuosa è una persona che ha imparato a comportarsi in modo morigerato, e ciò si realizza anche attraverso la disciplina.

Si tratta di un ideale che pone l’accento sul fare, piuttosto che sull’essere. Una persona virtuosa è una persona che agisce in un certo modo, non solo facendo ciò che è appropriato nelle diverse circostanze della vita, ma anche facendolo nel modo giusto, cioè con un’adeguata disposizione d’animo. La virtù non consiste semplicemente nell’osservanza di doveri, ma nel fatto che si compiano le azioni appropriate con lo stato d’animo di chi ha assimilato il comportamento virtuoso trasformandolo in una abitudine. Per fare un esempio, pagare i debiti è giusto. Ma è possibile farlo nel modo sbagliato. Se una persona molto ricca paga il suo debito nei confronti di una persona molto povera gettando il denaro a terra con disprezzo, la sua azione è criticabile anche se ha adempiuto a un dovere.

A pensarci bene, sono proprio considerazioni come queste che possono aiutarci a distinguere in modo più adeguato gli obblighi di giustizia e i doveri giuridici dal modo in cui si comporta una persona virtuosa. Il comportamento virtuoso eccede le massime unicuique suum tribuere e neminem lae-dere perché si manifesta attraverso l’azione compiuta con l’intenzione appropriata da chi agisce in un certo modo non perché deve, ma perché quello è il modo in cui è abituato ad agire. Con questo non voglio dire che le virtù non abbiano nulla a che fare con il diritto positivo. Uno degli errori più gravi di buona parte della teoria del diritto contemporanea consiste nel fatto di non aver visto quanto siano importanti nell’esperienza giuridica gli standard di comportamento virtuoso, dalla "buona fede" del contraente al comportamento del "buon padre di famiglia", che sono richiamati da testi di legge proprio allo scopo di indicare modelli di azione.

Dopo aver cercato di chiarire che tipo di caratteristica sia una virtù, possiamo tornare al quesito formulato nel paragrafo iniziale. Possiamo fare a meno delle virtù nel descrivere la nostra esperienza morale? A questo proposito è necessaria una precisazione per non dar luogo a equivoci. Nel formulare la questione nel paragrafo iniziale ho utilizzato le espressioni "moralità positiva" e "esperienza morale" a ragion veduta. Volevo che fosse ben chiaro che quando uso il termine "morale" non alludo a procedure idealizzate di decisione dei nostri dilemmi etici. Non ho in mente il tipo di lavoro diventato popolare in filosofia dopo John Rawls. Il problema che pongo si colloca nella prospettiva della vita quotidiana in cui ognuno di noi è chiamato a rispondere alla domanda: come dovrei vivere?

Si tratta dell’interrogativo che sorge spontaneo ogni volta che bisogna decidere quale carriera intraprendere, se fermarsi a un semaforo rosso o interrompere un’attività interessante per portare soccorso a qualcuno. Siamo al livello di ciò che Daniel C. Dennett ha chiamato il Manuale di Pronto Soccorso Morale. Capita di continuo di dover decidere come agire in situazioni in cui abbiamo a disposizione informazioni limitate, condizionati come siamo dalla nostra storia e dai nostri pregiudizi, senza poter sospendere il giudizio per valutare fino in fondo le conseguenze delle nostre azioni. Secondo l’opinione prevalente questo non è il tipo di cose di cui si occupa la filosofia morale. La tesi di Dennett, che condivido, è che questo atteggiamento è frutto di un errore nel valutare le nostre capacità cognitive nel campo dell’etica. Non solo, come ricordava Anscombe, non abbiamo ancora un’adeguata psicologia morale; ma, aggiunge Dennett, non siamo nemmeno vicini all’elaborazione di sistemi etici persuasivi che siano trattabili computazionalmente per risolvere problemi nel mondo della vita (11). C’è una consonanza di fondo tra le osservazioni di Dennett e Anscombe che potrebbe stupire i fanatici delle catalogazioni che collocano il primo sotto l’etichetta "filosofo-scienziato darwinista e alfiere dell’intelligenza artificiale", e la seconda sotto quella di "filosofa della mente wittgensteiniana e cattolica rigorosa". Personalmente non sono eccitato dai cataloghi e quindi proseguo senza curarmi ulteriormente della perplessità dei "compilatori" per sottolineare che entrambi gli autori criticano uno dei "Mantra" più noti della filosofia analitica che recita che "non è possibile derivare il dover-essere dall’essere". Si tratta di una questione su cui sono state scritte migliaia di pagine senza arrivare a una soluzione.

A pensarci bene, questa non è una sorpresa. Il nostro mondo è fatto anche di valori. Si pensi alla parola "buono", che ricorre spesso nel discorso sulle virtù. Essa non è affatto un termine prescrittivo. L’aggettivo "buono" ha infatti quella che Peter Geach chiama una funzione attributiva, come l’aggettivo "rosso" nell’espressione "un libro rosso" che non può essere scomposta in due diversi atti di predicazione come l’enunciato "questo libro è rosso". Ciò significa che se qualcuno dice "una buona motocicletta", l’enunciato non può essere scomposto in due atti uno dei quali predica di una sostanza che essa è una motocicletta e l’altro che essa è buona. In questo caso l’uso di "buono" è inseparabile da quello di "motocicletta" (come avviene per le funzioni in matematica) perché per comprendere l’enunciato bisogna sapere cosa sia una motocicletta e quindi perché essa sia una buona motocicletta (12). Bisogna fare attenzione a non fraintendere questa caratteristica di "buono" come fanno quelli che pensano che esso sia solo un modo per dire che qualcosa dovrebbe essere scelto. Nel linguaggio ordinario usiamo "buono" dicendo che "x è un buon A" senza che ciò sia una condizione sufficiente o anche solo necessaria del fatto che dovremmo scegliere x. Nel caso di parole come "coltello" c’è una connessione strettissima con la funzione dell’oggetto. La stessa connessione con la funzione c’è in una serie di parole che vengono usate per designare funzioni istituzionali, come "prete" o "padre". Un buon padre è uno che si comporta in un certo modo. In questi casi cosa conta come un buon A dipende da cosa è un A, che a sua volta dipende dal significato di "A". Un buon coltello non è un coltello che dovremmo scegliere se per caso ci serve un soprammobile; come non dovremmo per forza scegliere un buon padre se ci serve un complice in una rapina. Qualche volta le cose non sono così semplici. Per esempio, c’è da dubitare che sceglieremmo di farci trapiantare la dentatura di un cavallo anche se si tratta di una buona dentatura. Scegliere non è sempre qualcosa che possiamo fare in piena libertà come quando ci si chiede di prendere una carta a caso nel mazzo. Di solito si sceglie un oggetto per farci qualcosa e non è affatto detto che il criterio in base al quale un coltello è un buon coltello è lo stesso in base al quale dovremmo sceglierlo. Dipende dalle circostanze. Quindi che un coltello sia un buon coltello non è una condizione sufficiente del fatto che dovremmo sceglierlo. Non è nemmeno una condizione necessaria visto che possiamo parlare di un coltello come di "un buon coltello" in modo del tutto disinteressato, senza alcuna connessione con lo sceglierlo (13). A ben vedere, come ho accennato nel primo paragrafo, la stessa idea che ci siano delle parole che costituiscano il linguaggio della morale è una semplificazione del modo in cui funziona il nostro linguaggio.

Abbiamo certamente un’esperienza morale, ma lo studio di questa esperienza implica l’analisi di una porzione ampia (e dai confini molto sfumati) del nostro linguaggio ordinario. Questo non esclude ovviamente che ci siano dei testi normativi (come sanno i giuristi), ma l’esser normativo di un testo non dipende dal vocabolario che in esso è utilizzato. La normatività dei testi, per esempio di una legge, dipende dall’autorità degli autori dei testi stessi. Ciò spiega perché i tentativi di isolare un linguaggio del diritto falliscono se sono condotti solo utilizzando indici di tipo linguistico. C’è un linguaggio del diritto, ma esso è il linguaggio che viene impiegato da persone dotate di autorità che svolgono una funzione di produzione di norme all’interno di un’istituzione. Uno dei meriti della teoria degli atti linguistici è stato di aver aperto la strada a un’adeguata comprensione di come funzioni il linguaggio all’interno di istituzioni che hanno a che fare, in modo diretto o mediato, con l’organizzazione della forza e con l’uso di sanzioni per assicurare la conformità alle norme emesse dall’autorità da parte di un gruppo di persone.

Che una cosa sia considerata buona o meno non dipende dagli atteggiamenti soggettivi dei parlanti, ma dal fatto che la cosa in questione sia più o meno vicina a un modello ideale, a una forma, a ciò che individua il tipo cui essa appartiene. Gli argomenti di Anscombe e di Dennett richiamati in precedenza si connettono proprio a questa considerazione elementare. Anche gli esseri umani sono un tipo di oggetto: un essere vivente di una certa specie. Ciò significa che essi hanno alcune caratteristiche naturali, la potenzialità di svilupparsi in certi modi, che possono essere incoraggiate o scoraggiate dall’ambiente in cui si trovano. La possibilità degli esseri umani di "fiorire", di sviluppare cioè le proprie potenzialità, dipende dal fatto che essi acquisiscano e coltivino certe virtù.

La "fioritura" degli esseri umani, come degli altri animali, non può essere compresa se non si guarda al loro sviluppo dalla prima infanzia all’età adulta, fino alla vecchiaia. Nel corso di questo processo gli esseri umani diventano persone, capaci di razionalità pratica e di autonomia, ma passano anche attraverso diverse fasi di dipendenza (come bambini, malati, anziani) che li rendono particolarmente vulnerabili e bisognosi di assistenza. Questo è il terreno di coltura in cui si manifestano e si sviluppano quelle disposizioni ad agire in maniera appropriata che chiamiamo virtù. Quindi una vita ben vissuta è anche una vita vissuta in diversi rapporti, di dipendenza e di assistenza, con altri esseri umani. Le virtù che riusciamo a sviluppare dipendono in buona parte dai genitori e dagli insegnanti che abbiamo, e condizionano fortemente la nostra capacità di essere a nostra volta genitori e insegnanti. Una vita ben vissuta è quindi anche una vita che è stata adeguatamente curata quando ne aveva più bisogno, nelle diverse fasi dell’esistenza in cui non siamo autonomi ma dipendenti dagli altri (14). Su questo sfondo naturale si vede chiaramente quali aspetti della fioritura umana dipendono dalla nostra natura animale, che una concezione intellettualistica delle virtù tende ad oscurare.

Riflettere sulla natura sociale dell’ambiente in cui gli esseri umani possono sviluppare le capacità che hanno può aiutarci a vedere quale sia l’importanza dell’appartenenza a una comunità per la fioritura di esseri che sono fatti come noi. Ciò è particolarmente evidente se si pensa alle comunità nazionali. Molte delle attività che svolgiamo quotidianamente sono rese possibili dal fatto che ci sono altre persone con le quali interagiamo, coordinando i rispettivi piani in modo da renderli realizzabili. Comprare una casa, studiare, lavorare, divertirsi, sono tutte attività che richiedono uno sfondo di regole e una sofisticata abilità nel coordinare le azioni di ciascuno per realizzare i propri scopi. Michael Bratman ha individuato tre condizioni perché tale cooperazione sia possibile: ogni partecipante (i) deve reagire nel modo appropriato alle azioni e alle intenzioni degli altri; (ii) deve condividere lo scopo dell’attività svolta in comune (anche se non necessariamente per le stesse motivazioni); (iii) deve impegnarsi a collaborare perché gli altri partecipanti possano realizzare i propri scopi (15). Le tre condizioni mostrano immediatamente quale sia l’importanza delle attitudini che si hanno nei confronti delle altre persone per lo svolgimento di una attività cooperativa. Se l’identità di una persona costituisce un ostacolo nella realizzazione dei suoi progetti perché condiziona la sua capacità di rapporto con gli altri, è ovvio che la capacità di fiorire della persona in questione sarà seriamente messa in pericolo. Se non posso comprare una casa, o studiare, o divertirmi come gli altri perché vengo discriminato in virtù della mia identità nazionale, la mia vita sarà certamente miserabile. Stare bene "con se stessi", sentirsi "a proprio agio", questi sono modi di dire che si impiegano per esprimere quella sensazione di appartenenza a una comunità nazionale che rende l’apprendimento dei modi appropriati di comportarsi più agevole. Il senso di condivisione di una identità è una importante risorsa motivazionale che rende più facile da sopportare la disciplina che è indispensabile per imparare a comportarsi in modo virtuoso. Il coraggio o la generosità sono dei buoni esempi di virtù che è più facile acquisire e sviluppare all’interno di una comunità nazionale. C’è sicuramente un’analogia tra i fattori che condizionano l’identità nazionale e il tipo di influenze ed esperienze che sono chiamate in causa nel raccontare la vita di una persona. Ciò è particolarmente evidente quando una persona racconta la propria vita. In un certo senso, quando si viene chiamati a spiegare il proprio modo di intendere la propria identità nazionale è difficile sfuggire alle modalità dell’autobiografia. Non c’è dubbio che l’identità nazionale sia una parte dell’identità di una persona. Dove però quel che è interessante non è tanto ciò che rende la propria esperienza unica, ma invece proprio ciò che la rende in qualche modo tipica, esemplare di un gruppo di esseri umani che hanno almeno alcuni tratti della propria storia e di quella delle proprie famiglie in comune. Ognuno di noi è la persona che è anche perché manifesta nel proprio comportamento alcuni dei tratti caratteristici di un’identità nazionale che lo accomuna ad alcuni e lo distingue da altri. Aver imparato le stesse storie, aver cantato le stesse canzoni, aver sofferto delle stesse privazioni (chi più e chi meno) è ciò che rende delle persone, per altri aspetti diverse e distanti per istruzione o posizione economica, dei "connazionali". Tutto ciò ha molto a che fare con il senso di essere parte della stessa storia, avere una origine in parte comune e un destino condiviso, cioè venire dallo stesso luogo e andare nella stessa direzione. Non è un caso che l’apprendimento delle caratteristiche di un comportamento virtuoso avviene spesso attraverso la narrazione. Le diverse modalità in cui essa si manifesta, dalla storia propriamente detta, alle favole, al mito, ai detti popolari, rafforzano il senso di identità di una comunità mentre contribuiscono a coltivare le potenzialità dei membri più giovani.

Il fatto che io abbia usato l’esempio di una comunità nazionale, non deve indurre nella tentazione di pensare che le virtù abbiano qualcosa a che fare con il nazionalismo "aggressivo" che oggi viene indicato come una delle cause di molti dei mali che affliggono le nostre società. Lawrence Blum ha mostrato in modo persuasivo che l’appartenenza a una comunità, nel caso specifico un villaggio a maggioranza protestante in Francia, è stata essenziale nel dare agli abitanti le risorse motivazionali per compiere azioni eroiche durante l’occupazione nazista. Gli abitanti del villaggio di Chambon hanno salvato un numero molto alto di ebrei dai rastrellamenti tedeschi, e lo hanno fatto in buona parte perché hanno trovato nel loro essere membri di una comunità che aveva conosciuto storicamente la persecuzione per motivi religiosi. Trovarsi in una situazione in cui altri esseri umani avevano bisogno del loro aiuto li ha spinti a dare a tale richiesta una risposta che non era frutto di una adesione a una particolare concezione della giustizia, ma una naturale reazione a un problema che metteva in discussione l’immagine che essi avevano di se stessi come membri di una comunità di cristiani particolarmente devoti e rigorosi. Molti degli abitanti del paese non avevano affatto simpatia per gli ebrei, ma non volevano comportarsi in un modo che non sarebbe stato adeguato alla loro idea di se stessi (16).

A questo punto vale la pena di sottolineare che insistere su questa dimensione pubblica delle virtù non deve essere inteso nel senso di una fondazione comunitaria dell’etica. Se c’è qualcosa come una fondazione dell’etica, cosa di cui non sono convinto, essa viene interpretata nella prospettiva di una serie di beni che sono le cose di cui ha bisogno un certo tipo di vita per fiorire. Alcuni di questi beni corrispondono a caratteristiche fisiologiche dell’animale della cui fioritura ci si occupa. Ma altre, quelle che ci interessano di più perché sono presenti in modo particolare negli esseri umani, hanno una natura culturale o istituzionale. La fioritura umana non ha solo bisogno di cibo o di riparo dal freddo, ma anche di modi per creare degli obblighi, vincolare gli altri senza dover ricorrere alla forza, rendere possibile lo scambio di prodotti della terra con oggetti che servano anche per quantificarne il valore, e di tutte le altre cose che rendono le nostre società sempre più complicate. Le virtù si collocano su questo sfondo naturale su cui diversi tipi di cose diventano dei beni per esseri come noi e orientano le ragioni che abbiamo per agire (17). Nel suo libro più recente, molta attenzione è stata dedicata da Alasdair MacIntyre proprio all’idea di bene e all’analisi dei diversi sensi in cui usiamo il termine "buono". Ciò che è bene per un delfino non lo è necessariamente per un idraulico, ma entrambi possono fiorire solo se sono cresciuti e vivono nell’ambiente adatto. Anche se ci sono dei punti in cui MacIntyre spinge le analogie tra gli animali oltre il punto in cui riescono a essere persuasive, come quando discute le ragioni per agire, non c’è dubbio che i suoi argomenti siano ben presentati e degni di riflessione (18). L’importanza di questi ultimi sviluppi del pensiero di MacIntyre consiste nel fatto di aver riconosciuto che l’etica delle virtù può collocarsi in modo adeguato anche all’interno di una visione del mondo che non assuma alcuna garanzia trascendente dell’etica, e consideri gli esseri umani come una specie animale tra le altre, dotata ovviamente di proprie caratteristiche distintive. Il riferimento a MacIntyre ci consente di tornare al tema dell’etica delle virtù. Nel dibattito recente essa è stata spesso connessa a prospettive autoritarie o tradizionaliste e, in politica, al comunitarismo. Ci sono buone ragioni per ritenere che l’etica delle virtù non sia compatibile con le forme più estreme del liberalismo (in particolare con l’anarchismo), ma non si vede perché essa non possa convivere con un sistema di istituzioni liberali. Anzi, se l’autonomia è indubbiamente una virtù per il cui possesso lodiamo gli esseri umani, è facile vedere come delle istituzioni liberali (e un certo livello di giustizia redistributiva) possano fare molto per promuovere almeno uno dei tratti di un comportamento virtuoso. Che non sia l’unico è evidente, ma è sufficiente per mostrare che non c’è alcun legame necessario tra un governo autoritario e lo sviluppo di un’etica delle virtù. Per il resto, come diceva H. A. Prichard, non possiamo far altro di notare che proprio dalla riflessione su temi come la virtù si può giudicare di quanto la filosofia morale sia vicina alla vita (19).

 

 

 

Note


(1) G. E. M. Anscombe, Modern Moral Philosophy, in Ead., Ethics, Religion and Politics. Collected Papers, vol. III, Blackwell, Oxford, 1981: pp. 26-42.

(2) G. H. von Wright, The Varieties of Goodness, Routledge, London, 1963: pp. 136-54.

(3) I. Murdoch, The Sovereignty of Good over other Concepts, in Ead., Existentialists and Mystics, Penguin, London, 1999: pp. 363-85.

(4) P. Geach, The Virtues, Cambridge University Press, Cambridge, 1977.

(5) P. Foot, Virtues and Vices, Blackwell, Oxford, 1978.

(6) Il lavoro di MacIntyre ha ricevuto molta attenzione. Per un’informazione sugli orientamenti critici, si consultino almeno P. McMylor, A. MacIntyre: Critic of Modernity, Routledge, London, 1994; J. Horton e Susan Mendus (a cura di), After MacIntyre. Critical Perspectives on the Work of Alasdair MacIntyre, Notre Dame University Press, Notre Dame, 1995; M. Fuller, Making Sense of MacIntyre, Ashgate, Aldershott, 1998. Essenziale il sito curato da W. Hughes dell'Università di Guelph (Ontario), che contiene una bibliografia completa di MacIntyre aggiornata alla fine degli anni Novanta e una bibliografia, ancora in costruzione, dei lavori su MacIntyre (www.uoguelph.ca/philosophy/macintyre).

(7) Per una ricostruzione della "sfortuna" della virtù nel pensiero etico contemporaneo, vedi J. B. Schneewind, The Misfortunes of Virtue, in R. Crisp e M. Slote (a cura di), Virtue Ethics, Oxford University Press, Oxford, 1997: pp. 178-200. Sui rapporti tra Wittgenstein e alcuni dei promotori del ritorno alle virtù, vedi P. Donatelli, Wittgenstein e l'etica, Laterza, Bari 1998: pp. 115-7 e 159.

(8) J. Driver, The Virtues and Human Nature, in R. Crisp (a cura di), How Should One Live? Essays on the Virtues, Oxford University Press, Oxford, 1996: p. 111; e R. Crisp, Modern Moral Philosophy and the Virtues, in R. Crisp (a cura di), op. cit., p. 5.

(9) G. E. M. Anscombe, op. cit., p. 38.

(10) Su punto, vedi J.M. Cooper, Reason and Human Good in Aristotle,Hackett, Indianapolis, 1986: pp. 89-90

(11) Vedi D. C. Dennett, The Moral First Aid Manual, in "The Tanner Lectures on Human Values", vol. VIII (1988): pp. 122-31.

(12) Sul punto, vedi P. Geach, Good and Evil, in P. Foot (a cura di), Theories of Ethics, Oxford University Press, Oxford, 1967: pp. 64-73.

(13) P. Foot, Goodness and Choice, in Ead., Virtues and Vices and Other Essays in Moral Philosophy, Blackwell, Oxford, 1978: pp. 132-47.

(14) A. MacIntyre, Dependent Rational Animals, Duckworth, London, 1999: pp. 63-79.

(15) M. E. Bratman, Shared Cooperative Agency, in Ead., Faces of Intention, Cambridge University Press, Cambridge, 1999: pp. 93-108.

(16) L. Blum, Community and Virtue, in R. Crisp (a cura di), How Should One Live? Essays on the Virtues, Clarendon, Oxford, 1996: pp. 231-50.

(17) P. Foot, Natural Goodness, Clarendon, Oxford, 2001: pp. 25-51

(18) A. MacIntyre, op. cit., pp. 63-79.

(19) H. A. Prichard, Does Moral Philosophy Rest on a Mistake?, in Ead., Moral Obligation. Essays and Lectures, Clarendon, Oxford, 1949: p. 12, n.1. Sul punto, vedi W. Frankena, Prichard and the Ethics of Virtue, in "The Monist", vol. LIV (1970): pp. 1-17.