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Graham Greene

di Stenio Solinas - 12/02/2008

 

Accorgersi che a volte un dittatore indigeno non è meglio di un governo imposto; sostenere
l’autodeterminazione dei popoli, ma rendersi conto che alcuni possono farlo e altri no…

Mentre in Inghilterra
le lettere di Graham
Greene diventano un
libro (A Life in Letters,
Little Brown,
446 pagine, 20 sterline)
da noi Mondadori
ha l’intelligente idea di pubblicare, l’uno
accanto all’altro, Un caso bruciato, uno
dei suoi due romanzi africani, e l’autobiografico
Caccia al personaggio, ovvero il diario
da lui tenuto durante il suo viaggio nell’allora
Congo Belga devastato dalla lebbra e
dagli ultimi conati del colonialismo. È una
lettura in parallelo e trasversale interessante,
perché pochi autori come Greene rimasero
così intrinsecamente inglesi nel loro andare
su e giù per il mondo, e molta della sua passione
per le rivoluzioni, le cause perse e i
«dannati della terra» si deve a una mistica
kiplinghiana rovesciata, più che a una lettura
ideologica e/o politica delle forze in campo.
In sostanza, Greene non credeva al «fardello
dell’uomo bianco» grazie al quale l’impero
britannico travestiva da filantropica la propria
egemonia di potenza, ma avrebbe voluto
per quei popoli che lottavano per l’indipendenza,
quel combinato disposto di leggi,
costumi e abitudini che facevano dell’Inghilterra
un modo di essere più che una nazione.
C’era molta contraddizione in questo atteggiamento,
ma lungo tutta la sua vita e le sue
opere Greene fu uno scrittore contraddittorio,
cattolico, ma più affascinato dal peccato
che dalla grazia, fedele servitore del suo
Paese, ma senza che questo aspetto impedisse
una fedeltà alle amicizie che andava oltre
i «tradimenti» e le scelte di campo, ostile al
colonialismo, ma consapevole di quanto
sudore e di quanto amore avesse finito per
trasmettersi in quei «bianchi d’oltremare»
che la decolonizzazione avrebbe spazzato
via.
In maniera superficiale Greene è stato spesso
considerato uno scrittore di avventure e di
spystories. Il décor dei suoi romanzi è esotico,
Cuba e il Messico, Haiti e l’America latina,
l’Indocina e i Balcani, i suoi protagonisti
sono giornalisti e diplomatici in crisi, uomini
d’affari sull’orlo del fallimento, sacerdoti
senza più religiosità. L’aver lavorato a lungo
e con successo nel mondo del cinema ha, se
così si può dire, aggravato la sua posizione,
facendo scambiare la leggibilità delle sue
storie per facilità, e il montaggio quasi visivo
delle sue trame per trucchi da mestierante.
Si tratta di giudizi ingenerosi e basta fare
un paragone con uno scrittore a lui contemporaneo
e a lui spesso accomunato, Eric
Ambler, l’autore del fortunato Topkapi di cui
Adelphi sta ripubblicando le opere, per rendersene
conto. Anche Ambler ambienta i
suoi romanzi in scenari particolari, il Medio
Oriente, l’Europa orientale prima e dopo la
«cortina di ferro», anche Ambler ha per protagonisti
eroi disillusi, anche Ambler utilizza
colpi di scena e tecnica cinematografica per
dare ritmo alle sue trame. Ma in lui l’elemento
di forza è la storia in sé, il suo sviluppo,
mentre Greene è ossessionato dai personaggi,
dalla loro interiorità. Ambler è un
scrittore d’azione e di atmosfere, laddove
l’altro è sempre e comunque uno scrittore di
psicologie. Ciò che nei romanzi del primo
rimane è l’intreccio, mentre in quelli del
secondo a prevalere sono i caratteri. Noi non
ricordiamo Il nostro agente all’Avana, Il
nocciolo della questione, L’americano tranquillo,
per la storia che li riguarda, un finto
agente speciale segreto, un traditore per
nobili motivi, un giornalista cinico e innamorato,
ma proprio per ciò che essi impersonano,
le loro illusioni e le loro delusioni, le loro
crisi di coscienza, la capacità di riscatto.
Ambler è un bravo scrittore, ma Greene è
qualcosa di più, è uno che ti pone dei problemi,
che ti obbliga a riflettere su ciò che hai
letto.
Nel presentare su Repubblica i due testi pubblicati
da Mondadori, Bernardo Valli, che è
uno dei più grandi inviati speciali italiani, ha
avanzato un parallelo fra Hemingway e
Greene interessante e su cui vale la pena soffermarsi.
È un parallelo che ha molto a che
fare con la professione giornalistica, e non
per niente entrambi i romanzieri esordirono
come reporter, furono corrispondenti di guerra
e Greene arrivò sino ad essere vice-direttore
del Times... Scrive Valli che fra gli anni
Cinquanta e i Settanta, per molti dei suoi colleghi
Greene fu un dio, ciò che in fondo essi
sarebbero voluti essere. Per la generazione
precedente, il dio era stato Hemingway, «del
quale piaceva, affascinava l’attitudine aperta,
generosa, l’impegno pratico, la limpidezza
dello sguardo», un fascino che però era andato
in seguito appassendo perché nei suoi libri
e nella sua vita c’era anche una sorta di turismo
cruento, di vitalismo esasperato e spesso
compiaciuto, comunque fine a sé stesso. L’oscurarsi
di quella divinità, aggiungiamo noi,
era anche legato al fatto che il mondo sorto
dopo la Seconda guerra mondiale era troppo
confuso e contorto perché la semplicità
hemingwayana potesse trovarvi posto. Non
era più sufficiente, insomma, restare fedeli a
sé stessi perché la vita non ti sporcasse
comunque, e le implicazioni e le complicazioni
della politica e dell’impegno rendevano
quella fedeltà alla scrittura che Hemingway
aveva rappresentato nell’Europa fra le due
guerre, un qualcosa di difficile attuazione,
perché troppe erano le contaminazioni, i dubbi,
le alleanze di comodo, i compromessi.
Nota giustamente Valli che molti fra quelli
che per mestiere raccontavano il mondo e
cercavano di mettere la
propria penna
al servizio
di qualcosa, un partito, una fede politica, una
certa idea della dignità umana, trovarono in
Greene il nuovo dio da adorare proprio perché
era pieno di dubbi, era anti-eroico, roso
dai sensi di colpa. I suoi protagonisti «erano
ambigui, incerti, in preda a sentimenti e passioni
che rendevano difficili le scelte cui lui
li sottoponeva. Non erano avventurosi e le
avventure subite avevano come teatro i luoghi
familiari dove prevale l’egoismo, insieme
ad altri aspetti meschini, negativi della
natura umana, quali l’indifferenza e la codardia.
Nonostante la loro debolezza capitava
che gli antieroi sapessero superare la prova e
diventassero così eroi, rispettosi sino al sacrificio
del valore essenziale pudicamente esaltato
da Greene».
Rispetto alla semplice limpidezza dello
sguardo di Hemingway, quello di Greene era
opaco, nebbioso, perché opaco e nebbioso
era del resto ciò che lo circondava: un mondo
bipolare dove l’alleato della guerra precedente
aveva posto sotto sequestro mezza
Europa, a partire da quella Polonia per la cui
libertà, si diceva, era cominciato quello stesso
conflitto; il processo di decolonizzazione
che si accompagnava alle infiltrazioni rivoluzionarie;
l’accorgersi che un dittatore indigeno
non era necessariamente meglio di un
governo imposto dall’esterno, il difendere i
diritti all’autodeterminazione dei popoli, ma
il rendersi conto che in nome della geopolitica,
certi popoli potevano autodeterminarsi e
altri no; il dover constatare che dietro un
movimento di liberazione spesso e volentieri
si celava
l’ombra di
un potente
straniero di
turno pronto
a imprigionarli
in altro
modo...
Il fascino dei
romanzi di
Greene sta
proprio in
questo, nella
complessità
del mondo che
racconta, che
non è più un
mondo in bianco
e nero, i buoni
da una parte, i
cattivi dall’altra,
nella complessità
delle psicologie
che lo animano,
tutta gente che ha
alle spalle almeno
una cosa di cui
vergognarsi: un
amore tradito, una
passione politica spenta,
un senso di inutilità, l’aver mancato ai propri
ideali. Un caso bruciato è, sotto questo profilo,
esemplare, perché Quarry, il protagonista,
è un architetto di fama giunto a un punto
morto della propria esistenza, lì dove ogni
passione è spenta. Finisce in Congo più spinto
dal caso che dalla volontà, e si stabilisce in
un villaggio devastato dalla lebbra dove il
suo nome non è conosciuto. Non essendo più
in grado di provare nulla, neppure la sofferenza,
è un «caso bruciato», come appunto
vengono definiti i lebbrosi che prima di guarire
hanno perso le dita dei piedi e delle
mani... Così come la scelta di Quarry è fortuita,
in quel microcosmo di dolore non tutte
le scelte sono pure e motivate, ovvero anche
il voler fare del bene, il proselitismo religioso,
l’ansia civilizzatrice, coprono tensioni,
insicurezze, mascherano fallimenti, delusioni,
imbrogli. Greene ci racconta per quello
che siamo, dei condannati a morte che si
comportano come se la loro vita non dovesse
avere mai termine e che raramente accettano
di vedere la realtà per quella che è, e ora si
aggrappano a una donna, ora a una fede, in
un dio, in una ideologia, ora buttano tutto a
mare e ora si illudono, ancora e sempre, di
ricominciare... Non è cinico l’occhio narrativo
di Greene, è sofferto. Anche per questo
vale la pena di rileggerlo