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Il ritorno della comunità

di Luca Pesenti - 12/02/2008

Fonte: farmindustria

 

 

 

Il comunitarismo non rimette in discussione il paradigma della modernità, ma ne fornisce una versione contestualizzata, ridando dignità alle appartenenze capaci di formare identità e di generare reticoli di protezione sociale. Il comunitarismo propone una nuova società civile, autonoma e originaria rispetto allo Stato, ma contestualmente non assoggettata alle logiche di mercato e al primato dell’ordine etico utilitarista.

 

Nel 1943, poco prima di morire, Simone Weil scrisse: “Il bisogno di avere radici è forse il più importante e il meno conosciuto dell’anima umana. Difficile definirlo.

L’essere umano ha le sue radici nella concreta partecipazione, attiva e naturale all’esistenza di una comunità che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti dell’avvenire” (1).

Dopo quasi cinquant’anni in cui qualsiasi riferimento al tema delle identità collettive era stato progressivamente estromesso dal dibattito delle idee, riducendo l’ampiezza semantica del termine “comunità” nello spazio ristretto della “comunità locale” (2), nel 1990 un gruppo di una quindicina di docenti e studiosi nel campo dell’etica, della filosofia e delle scienze sociali, si ritrovarono nella capitale degli States su invito di Amitai Etzioni, professore di sociologia presso la locale George Washington University, e del suo collega William Galston. All’ordine del giorno i problemi cronici degli Stati Uniti e di tutte le moderne società occidentali: disgregazione sociale, individualismo radicale, anomia, erosione del concetto di responsabilità sociale, egoismo, pericoli di teledemocrazia, scomparsa di una qualsiasi nozione di bene comune capace di bilanciare la pluralità degli interessi particolari, declino della famiglia, violenza, e si potrebbe continuare all’infinito.

A monte, quello che il gruppo di intellettuali di cui parliamo ritiene il pericolo maggiore: la progressiva scomparsa della comunità dalla vita sociale del paese.

I partecipanti decisero allora di darsi il nome di Communitarians, per enfatizzare così il fatto che era giunto il tempo di tenere fede alle responsabilità nei confronti dei principi e delle persone con cui tutti noi, sostengono, abbiamo qualcosa a che spartire: la comunità.

Fino a quel momento, buona parte del pensiero politico liberale aveva interpretato il fatto comunitario alla stregua di un fenomeno residuale, progressivamente sostituito dalle burocrazie statali e dai mercati globali. Tramonto della comunità significa, per l’ideologia liberale, maggior libertà e benessere riorganizzando la società in forma razionale e atomizzata.

Ma cosa intendono questi intellettuali quando parlano di ricostruire la comunità?

Innanzitutto, occorre fare una precisazione: negli Stati Uniti il termine assume connotazioni diverse rispetto all’originaria definizione fornita dalla sociologia classica. Dobbiamo a Ferdinand Tönnies la prima formulazione del binomio comunità/società come grammatica generale per leggere la società nella sua struttura e nei suoi progressivi mutamenti. Nel suo famoso Gemeinschaft und Gesellschaft del 1887 (3), Tönnies introduce questa coppia concettuale nel lessico sociologico attribuendo al primo dei due termini (la comunità) caratteristiche di “organismo vivente” nel quale, sia esso nella forma di famiglia, di vicinato, di parentela, di amicizia, o di comunità locale, si trova il calore dell’affettività, dell’interazione face to face, la presenza rassicurante di opinioni condivise tipiche del mondo della “socialità primaria”. Sul versante opposto, la società, “aggregato meccanico”, assume la fisionomia del regno della mediazione, cui ci si mette in relazione attraverso strumenti come il denaro, il potere. Mentre è soprattutto il cuore che, secondo Tönnies, ci lega alla comunità, l’unica fedeltà di cui si può essere capaci in un contesto societario è quella basata sul calcolo strumentale; se da una parte prevale il sentire comune e reciproco, dell’altra il pluralismo è caratteristica. Una rappresentazione dicotomica classica, che ha trovato variazioni sul tema nell’opera di Weber, in Rimmel, in Durkheim, in Parsons, fino alla coppia “individualismo/olismo” proposta da Luis Dumont.

Negli Stati Uniti, invece, il termine “comunità” evoca tanto la comunità politica intesa in senso globale, quanto le “subcomunità” etniche, culturali, religiose o semplicemente di quartiere che la prima può inglobare. Nella sua accezione più semplice la comunità è quindi un insieme di persone interdipendenti, legate da costumi, usanze e situazioni esistenziali comuni che, conseguentemente, sono spinti a discutere e prendere decisioni comuni. Il termine richiama quindi in primo luogo l’atto, ormai caduto in disuso su entrambe le sponde dell’Oceano, di partecipare attivamente a un qualcosa di cui ci si sente parte integrante. La comunità appare quindi come il contesto naturale di una democrazia di prossimità, fondata su una partecipazione più attiva e sulla costruzione di spazi pubblici locali.

Non vi è dunque, nel recupero del termine prodotto dai neo-comunitaristi alcun riflusso antimoderno e passatista. Anche se la conflittualità con il pensiero liberale classico è apparsa fin dall’inizio. Una conflittualità filosofica, ma certamente non politica. La prima preoccupazione che Etzioni e soci si sono posti è stata infatti quella di non venire risucchiati dalla polarizzazione che avvelena il dibattito delle idee negli Usa come altrove, e che porta necessariamente a essere collocati in uno degli schieramenti politici in cui il Paese è diviso. Una visione del tipo “o con noi, o contro di noi”, come quella che avvelena l’attuale dibattito politico, afferma Etzioni, crea inutili divisioni ed è in radicale contrasto con qualsiasi prospettiva comunitaria. Forse è proprio per questo che le teorie comunitarie hanno fatto breccia in entrambe le ali del Congresso, sebbene solo Clinton e il suo entourage ne abbiano talvolta adottato espressamente il linguaggio.

 

Proprio in quella riunione del 1990 verranno poste le basi del futuro Communitarian Network, che saranno  sistematicamente esposte da Etzioni  in The Spirit of Community e nel manifesto del movimento (The Responsive Communitarian Platform) ad esso allegato (4). I Communitarians sostengono con forza che una rinascita morale è possibile senza cadere negli eccessi del puritanesimo, che la sicurezza personale si può raggiungere senza trasformare il Paese in uno stato di polizia, che la famiglia, senza la quale nessuna società è possibile, può essere salvata dal disfacimento senza violare i diritti delle donne, che la scuola può fornire un’educazione civica e morale senza indottrinare i giovani, che è possibile vivere in comunità senza trasformare nessuno in vigilante ed essere ostili verso alcunché. Allo stesso modo affermano che il richiamo alle responsabilità di ognuno nei confronti della comunità non vuole essere un invito a retrocedere sul terreno dei diritti, ma che, anzi, grandi diritti presuppongono grandi responsabilità. Analogamente il bilanciamento degli interessi personali con le responsabilità sociali non richiede l’annichilimento di sé o il sacrificio di ogni realizzazione personale, un “Io sociale” è un “Io” più completo e realizzato di uno rinchiuso nel proprio orticello e il partecipare alla vita di una comunità politica non elimina ma, anzi, presuppone un’attenzione critica nei confronti di chi governa. Su queste basi i communitarians si fanno promotori di una “democrazia forte” e partecipata, in cui il principio socio-politico più alto dovrebbe essere quello della sussidiarietà. “Per non indebolire i legami sociali di quelle comunità che al livello familiare, di vicinato o municipale possono assolvere certi compiti sociali e politici al pari o addirittura meglio di quanto si possa fare a livello regionale o statale, l’assistenza ai malati e agli anziani, agli emarginati e ai senzatetto e agli emigranti dovrebbe avvenire ad esempio sotto la regia dello Stato soltanto qualora avessero fallito i suddetti sottosistemi” (5).

Seguendo questa linea di pensiero, David Hollembach definisce il ruolo del governo in una società democratica: “Il governo non regola ma, piuttosto, serve il ‘corpo’ sociale animato dall’attività di queste comunità intermedie” (6).

 

Queste preoccupazioni sembrano condivise, pur con accenti spesso molto differenti tra loro, da una serie di altri autori che possono essere riconducibili al movimento comunitarista, anche se non tutti direttamente legati al Communitarian Network e, talvolta, anche apertamente critici nei confronti di esso.

Oltre al citato Etzioni, gli autori più noti sono certamente Alasdair MacIntyre, Charles Taylor, Michael Sandel. Tre autori che condividono la critica alla teoria liberale, provenendo da posizioni teoriche assai eterogenee: MacIntyre è un conservatore di impianto aristotelo-tomista, Taylor ha un passato di sinistra radicale, Sandel ed Etzioni si posizionano risolutamente sul versante democratico dello schieramento politico. In una seconda cerchia possiamo porre Roberto Mangabeira Unger, Mary Ann Glandon, Michael Walzer e Robert Putnam, le cui opere si richiamano a diverso titolo alla problematica comunitaria. Mentre in una terza ideale cerchia potrebbero prendere posto autori come Robert Bellah o lo scomparso Cristopher Lasch, che pur non richiamandosi direttamente alle tesi ispiratrici del neo comunitarismo, mostrano identiche preoccupazioni di ordine morale e sociale. Un discorso a parte merita invece il recente tentativo di Philip Selznick di coniugare i principi liberali con le preoccupazioni comunitariste, dando vita a un inedito “comunitarismo liberale” (7).

Pur nelle diverse sfumature che abbiamo potuto solo sommariamente accennare, questi autori sono pressoché concordi nell’individuare i tratti più evidenti del “disagio della modernità” [Taylor], che possono essere riassunti nella transitorietà, impersonalità e frammentazione dei rapporti sociali, nella perdita dei sentimenti di appartenenza, nell’assenza di significato e unità nelle vite dei singoli, nella separazione tra vita pubblica e privata, nell’isolamento e alienazione degli individui, nell’incapacità di giungere a una qualsiasi formulazione della nozione di bene comune.

 

Sul piano strettamente filosofico, è soprattutto contro una visione neutralista e procedurale della società e dell’etica fondata su presupposti ritenuti astratti - impersonata soprattutto dalle tesi di John Rawls, autore del celebre Una teoria della giustizia (8), la cui edizione americana, che ha visto la luce negli anni Settanta, ha ridato vita al dibattito sulla questione dell’etica, del suo ruolo nella vita delle società e all’interno della filosofia politica -, che i Communitarians indirizzano la loro critica.

Con la sua riflessione Rawls si prefigge di portare a un più alto livello di astrazione la nota teoria del contratto sociale che ci è giunta attraverso autori come Locke, Rousseau e Kant. Il suo primo passo è quello di sottolineare, in polemica con l’utilitarismo classico, il primato del giusto sull’utile. Come la verità è la prima virtù dei sistemi di pensiero, così la giustizia per Rawls lo è delle istituzioni sociali.

Nella società, sostiene, convivono sia spinte cooperative - perché la cooperazione sociale rende possibile una vita migliore per tutti -, sia conflitti che riguardano la distribuzione delle risorse e dei benefici, perché ognuno nel perseguire i propri obbiettivi ne preferisce una quota maggiore. Come individuare allora i criteri di giustizia comuni a tutti che rendano possibile una società ordinata?

Rawls sostiene che i principi di giustizia sono quelli che tutti gli individui liberi razionali e uguali sceglierebbero indipendentemente dai loro interessi e dalle conseguenze delle loro scelte. Per arrivare a questo ricorre a una situazione astratta, una nuova edizione dello stato di natura, che chiama “posizione originaria” in cui gli individui, sono costretti ad accordarsi sui principi di giustizia sotto “un velo di ignoranza”, ignorando, cioè, quale sarà la loro posizione biografica sia naturale (sesso, razza, ecc.), sia sociale (classe, ceto, ecc.), nella società a venire. In questa situazione, Rawls ipotizza che gli individui si accorderebbero su due principi: l’eguale diritto alla più estesa libertà fondamentale, compatibilmente con una simile libertà per gli altri (primo principio di giustizia), e sulla eguale distribuzione delle risorse sociali ed economiche (secondo principio di giustizia).

Le strutture fondamentali delle società reali e i loro principi devono essere confrontate con i principi che scaturiscono dall’ “accordo originario” e, se divergenti, abbandonate o riformate come avviene nella scienza per quelle teorie che non rispondono ai requisiti di verità.

In sintesi la teoria della giustizia rawlsiana, che lui stesso definisce deontologica, mette a fuoco il primato del giusto sul bene, una visione del soggetto come antecedente ai suoi fini e una concezione della comunità non determinante nella formazione dell’identità degli individui coinvolti.

La centralità di quest’opera all’interno del dibattito contemporaneo delle idee, la rende la più discussa, e criticata, dai filosofi neocomunitaristi che non concordano sul primato del giusto sul bene, sulla visione neutra e procedurale dell’etica, sull’astrattezza di un “soggetto agente” anonimo e dato per scontato indipendentemente dal suo contesto socio-culturale, sulla visione sentimentale e non costitutiva della comunità. L’aspetto più paradossale e più sottolineato da un punto di vista “comunitarista” è che siano proprio le teorie a base individualista a perdere per strada il soggetto nella sua interezza e a fornircene una versione per così dire “in scala ridotta”.

 

I communitarians rivendicano a pieno titolo, come costitutiva dell’uomo, la sua condizione di “animale sociale”, naturalmente legato ai suoi simili, immerso in una cultura e in una tradizione, e capace, pur nella pluralità delle posizioni, di riconoscersi in una nozione di ”bene comune”, come bene creato e fruito comunitariamente, capace di orientare e dare senso all’agire umano.

MacIntyre, per esempio, denunzia il fallimento del progetto illuministico della modernità e parla dell’uomo moderno come “cittadino di nessun-luogo”,  auspicando un ritorno a forme locali di comunità e alle virtù aristoteliche. Bellah stigmatizza la visione liberale di società come costituita da individui essenzialmente separati (9). Sandel parla di “unencumbered selves” e distingue tra una “moralità del giusto” (liberale) che parla a “ciò che ci divide” e un’altra “del bene” (comunitaria) che si rivolge a “ciò che ci collega agli altri”. Taylor infine indirizza la propria critica contro il “sé atomista”, la perdita di senso, il relativismo e i pericoli di dispotismo morbido legati al disimpegno sociale dei singoli.

Al contrario dei teorici del liberalismo, i pensatori comunitaristi sostengono che la costruzione e la comprensione di sé e dell’identità di ognuno avvengano all’interno di una relazione, ritenendo che l’uomo sia possibile esclusivamente come essere-con-gli-altri. Non si tratta semplicemente di individuare criteri di convivenza, norme e valori cui attenersi, ma di riscoprire un “Noi” (la Philia politica aristotelica) che dia un senso a queste norme.

Nell’introduzione al saggio Liberalism and its critics (10), Sandel si addentra in profondità nella questione: “Dal punto di vista di un’etica basata sui diritti, è precisamente in quanto noi siamo soggetti separati e indipendenti che abbiamo bisogno di una struttura neutrale di diritti che non pregiudichi la scelta tra scopi e fini confliggenti. Se il sé è prioritario rispetto ai suoi fini, allora il giusto deve essere prioritario rispetto al bene. I critici comunitaristi del liberalismo basato sui diritti sostengono che non possiamo concepire noi stessi come esseri indipendenti in questo modo, ovvero come soggetti totalmente separati dai nostri scopi o legami. Essi affermano che certi nostri ruoli sono parzialmente costitutivi del nostro essere quelle persone che siamo - cittadini di un paese, o membri di un movimento, o sostenitori di una causa. Ma se noi siamo parzialmente definiti dalle comunità nelle quali viviamo, allora dobbiamo anche essere coinvolti negli scopi e fini di quelle comunità [...]. La mia biografia, per quanto essa sia aperta, è sempre inserita nella storia di quelle comunità dalle quali derivo la mia identità - siano esse la famiglia o la città, la tribù o la nazione, un partito o una causa [...]. I critici comunitaristi del liberalismo moderno, ispirandosi agli argomenti di Hegel contro Kant, mettono in dubbio l’asserita priorità del giusto sul bene e la concezione dell’individuo che sceglie liberamente ad essa sottesa. Rifacendosi ad Aristotele, essi sostengono che non possiamo giustificare gli assetti politici senza far riferimento a scopi e fini comuni e non possiamo concepire la nostra identità senza far riferimento al nostro ruolo di cittadini e di partecipanti a una vita comune”.

 

La domanda  che sta a monte della riflessione di autori come Sandel e MacIntyre non è quindi “quale condotta devo o posso scegliere?”. La vera domanda è “chi sono io?”. Occorre però procedere con cautela, perché sbaglieremmo a relegare questo quesito all’ambito metafisico o psicologico. Si tratta invece di una domanda dalle profonde implicazioni politiche che focalizza l’attenzione sulla questione dell’identità collettiva come elemento determinante ai fini della vita sociale.

Nella sua introduzione al New Communitarian Thinking, Etzioni afferma: “I liberal si preoccupano spesso di proteggere le libertà individuali dalla minaccia dello stato. Spesso ignorano o danno poca importanza alla relazione comunitaria: le precondizioni sociali che permettono agli individui di mantenere la loro integrità psicologica, civiltà e capacità di giudizio. Quando la comunità (reti sociali che veicolano valori condivisi) si sfalda, l’integrità psicologica degli individui viene messa in pericolo, e si genera un vuoto che invita lo stato ad espandere il proprio ruolo e potere. Gli individui e le comunità sono costitutivi gli uni delle altre, e la loro relazione è, al tempo stesso, di sostegno e tensione reciproci. Sociologi e psicologi  indicano che gli individui privi di legami sociali (gli isolati, prototipi di attori nel mondo liberale dei diritti) si rivelano incapaci di agire liberamente, trovano invece che gli individui che sono legati da una ampia e stabile relazione, in gruppi coesi e in comunità, si dimostrano maggiormente capaci di compiere scelte ragionate, di dare giudizi morali, e di essere liberi” (11).

Il richiamo a un rafforzamento di quelle che Etzioni definisce “voci morali” rimanda a un’eticità relazionale non riducibili né a un’eticità totalmente individuale (come accade nel liberalismo), né a una forma etica collettivizzata e interamente sociale (come accade viceversa nel pensiero socialista). Siamo di fronte invece a un “fatto sociale che esprime la relazionalità delle persone umane e va coltivata in quella e attraverso quella” (12).

 

Contro la visione “strumentale” della comunità, figlia del pensiero utilitarista e “libertarian”, in cui la cooperazione tra individui è considerata una necessità imposta per il perseguimento di scopi privati, e quella  “sentimentale”, di derivazione neokantiana di cui il citato Rawls è l’esponente di punta, in cui gli individui condividono certi scopi e considerano la cooperazione come un bene in sé, ma la loro identità è data antecedentemente a ogni legame, i communitarians  propongono pertanto una visione della comunità come “costitutiva” dell’identità degli individui che la compongono, determinante nella definizione dei loro fini e della loro concezione del bene individuale e comune.

In quest’ottica, la comunità fornisce a tutti un vocabolario comune di pratiche e discorsi, ma non solo. Michael Walzer sostiene infatti che nell’ordine dei beni, l’appartenenza alla comunità è il più importante, dal momento che permette di determinare il significato sociale dei beni da distribuire e le connesse diverse concezioni di giustizia (13). La giustizia distributiva dipende infatti dal significato che i beni hanno per i membri di una comunità, e questo è legato a sua volta alle credenze e alle pratiche sociali condivise dai membri della comunità stessa.

È una società formata da tante “responsive communities”, tanto da diventare una “comunità reattiva” essa stessa, quella che i communitarians  inseguono.

“La società civile è la realtà più avvolgente, composta di numerose comunità di piccolo e medio formato, come le famiglie, le comunità di vicinato, le chiese, le unioni di lavoro, le corporazioni, le associazioni professionali, le unioni di credito, le cooperative, le università e molte altre associazioni [...]. La base della democrazia non è un’atomistica autonomia individuale. La partecipazione alla vita democratica e l’adempimento della libertà reale nella società dipendono dalla forza delle relazioni comunitarie che offrono alle persone una misura di potere reale per dar forma ai loro ambienti, compreso quello politico” (14).

 

Come ha ampiamente argomentato, già nel secolo scorso, Alexis de Tocqueville,  una società coesa e pluralista la cui ossatura è costituita da associazioni volontarie e comunità è certamente una migliore difesa contro il totalitarismo di una società individualista e altamente frammentata. La ricostruzione del senso civico e di quel “capitale sociale” che recenti ricerche mostrano in crisi sistemica nell’ambito degli Stati Uniti (15), diventa nella piattaforma programmatica neo-comunitarista il baricentro della riflessione, sviluppandosi soprattutto in una rinnovata attenzione verso le istituzioni di socializzazione primaria, come le famiglie e la scuola. L’ideale del rinnovamento della cittadinanza attiva costituisce dunque il nucleo centrale, accanto a una ridefinizione della vita democratica imperniata sull’idea di riconoscimento e di partecipazione. Si tratta realmente di una prospettiva radicalmente alternativa al liberalismo? O siamo forse di fronte, come è stato sostenuto, a una variante, o meglio a un “correttivo” eternamente ritornante del liberalismo stesso? Con ogni probabilità sono vere l’una e l’altra affermazione. Il comunitarismo non rimette in discussione il paradigma della modernità, ovvero la centralità del soggetto individuale all’interno del discorso morale. Semplicemente ne fornisce una versione contestualizzata ed embedded, ridando dignità alle appartenenze capaci di formare identità e di generare reticoli di protezione sociale. Le prospettive teoriche di Selznyck e di Walzer, dimostrano la conciliabilità delle posizioni, operazione riuscita con un certo successo in Italia anche a Sergio Belardinelli (16). Piuttosto che insistere sulla contrapposizione tra liberalismo e comunitarismo, che si vorrebbe anche erroneamente sovrapporre al classico cleavage destra/sinistra, sembrerebbe più adeguato riformulare lo schema analitico attorno alla matrice autonomia/dipendenza della società civile tanto dagli apparati burocratici statali, quanto dalle ferree leggi impersonali del mercato. Il comunitarismo, in estrema sintesi, sembra voler proporre una nuova società civile, la “comunità di comunità” di cui parla Etzioni, certamente autonoma e originaria rispetto allo Stato, ma contestualmente non assoggettata alle logiche di mercato e al primato dell’ordine etico utilitarista. In questo senso sembra esserci una traccia assai prolifica di approfondimento tematico, verso la comprensione delle nuove linee di conflitto della società post-moderna.

 

 

 

NOTE

 

(1) S. Weil, La prima radice, SE, Milano, 1990: p. 49.

(2) Si veda A. Bagnasco, Comunità, in Enciclopedia delle scienze sociali, p.206-14.

(3) Ferdinand Tönnies, Comunità e società, Comunità, Milano, 1963.

(4) Si veda la traduzione italiana in “Ideazione”, VII (2000), n.4:  p. 127-38.

(5) L. Waas e A. MacIntyre, Il comunitarismo e l'odierna crisi morale, in “Studi Perugini”, VII (1997), n. 3: p. 104.

(6) D. Hollembach, Virtù, bene comune e democrazia, in A. Etzioni (a cura di), Nuovi Comunitari, Arianna, Bologna, 2000: p. 111.

(7) Si veda P. Selznick, La comunità democratica, Lavoro, Roma, 1999.

(8) J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano, 1982.

(9) Si veda, R. Bellah, Habits of the heart, University of California Press, Berkeley, 1985; Ead., The good society, Alfred Knopf, New York, 1991.

(10) M. Sandel, Liberalismo e limiti della giustizia, Feltrinelli, Milano, 1994.

(11) A. Etzioni, op. cit., p. 9.

(12) P. Donati, Può essere la vera alternativa al tramonto del Welfare state, in "Liberal", n.10, 1996: p.105-6.

(13) M. Walzer, Sfere di giustizia, Feltrinelli, Milano, 1987.

(14) D. Hollembach, Virtù, bene comune e democrazia, in A. Etzioni, op. cit., p.114.

(15) Si veda R. Putnam, Bowling Alone, Simon & Schuster, New York, 2000.

(16) S. Belardinelli, La comunità liberale, Studium, Roma, 1999.