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Italia, basta! Il ritratto del Bel Paese dipinto da Marco Della Luna

di Marco Della Luna - 13/02/2008

 

 

Italia, basta?
Un paese paralizzato, stantio, morto, incapace di evolvere
Intervista a Marco Della Luna

Eduardo Zarelli

Mentre la classe politica italiana ci spreme con le tasse e spende il denaro per l’acquisizione del consenso, gli altri Paesi si avventano sull’Italia, che svende le sue ultime risorse al miglior offerente. Marco della Luna, sollecitato dalla domande di Eduardo Zarelli, affronta i temi della crisi del paese-Italia, dell’illegitimità dell’U.E., e della possibile via della decrescita

Le Sue ultime riflessioni la portano a considerazione pessimistiche e radicali sulla stessa consistenza e legittimità del nostro Paese, alle quali dedica il suo saggio Basta Italia. La crisi dello Stato italiano è parte di una crisi epocale di tutte le sovranità politiche di fronte alla globalizzazione, o ha aspetti specifici che la caratterizano?
Lo Stato italiano è un assemblaggio, fatto con le guerre, di realtà culturali, economiche, antropologiche le quali, dopo 140 anni, non hanno legato, non hanno prodotto un organismo capace di vitalità, coordinazione, legalità, evoluzione. Di fatto, è un fallimento. Le differenze rinchiuse in esso non sono, non operano, come una ricchezza, ma come una malattia paralizzante. E questo è un aspetto specifico e distintivo rispetto a molti altri paesi, dalla Gran Bretagna alla Germania alla Francia alla Spagna al Giappone agli Stati Uniti, pure coinvolti nella crisi della trasformazione di vecchie strutture istituzionali. Quei paesi sono stati capaci di evolversi per adattarsi alle mutate condizioni. L’Italia no. Le sue istituzioni si difendono non evolvendo, ma incamerando più denaro con le tasse con cui comperano consenso, ma peggiorano la situazione del paese. Ovvio che altri paesi ne approfittino per prendersi pezzi d’Italia, di mercati italiani, di industrie strategiche italiane, di banche italiane…
Vi è un altro aspetto specifico da menzionare: parallelamente alla tendenza di diversi comuni veneti e lombardi a passare al Trentino Alto Adige e al Friuli Venezia Giulia per sottrarsi al saccheggio fiscale, molte realtà pubbliche e private del Nord-Est stanno lavorando per un distacco da Roma e per una aggregazione a un’area mitteleuropea.

Lei ricostruisce la fragilità del legame sociale italiano a partire dalla storia moderna e quindi della unificazione nazionale. Pensa forse a una fragilità antropologica della consapevolezza civica degli italiani, prima che politica e sociale?
Non parlerei di “consapevolezza civica”, ma di aspettative civiche, sociali. I vari popoli d’Italia hanno aspettative di un’amministrazione pubblica inefficace e gestita in modo ladresco; di cittadini che si arrangiano e cercano di fregare prima di essere fregati; di una classe politica criminale e predatoria, etc. Queste aspettative sono corrispondenti alla realtà, anche perché rendono la realtà conforme a sé stesse. Ossia, se tutti si aspettano che tutti facciano i furbi, tutti cercheranno di difendersi agendo furbescamente, in una guerra di tutti contro tutti. E a nessuno conviene smettere per primo. Ovviamente, questa mentalità, questo andazzo è più forte al Sud che al Nord. Ma sta peggiorando anche al Nord.
Nel complesso, abbiamo una società che non riesce a coordinarsi in organismi complessi e funzionali, altamente specializzati, capaci di pianificazioni di medio e lungo termine, come è necessario per la sopravvivenza di un sistema-paese nell’ambiente esterno della competizione globale. Non riesce, proprio a causa della diffusa sfiducia reciproca, della mentalità particolaristica, truffaldina, del mordi e fuggi: il necessario per la sopravvivenza dei singoli e dei gruppi nell’ambiente interno, nazionale, regolato dalla “legge del Menga”.

La “consapevolezza civica” degli italiani?
Tutti si aspettano che tutti facciano i furbi, tutti cercheranno di difendersi agendo furbescamente,
in una guerra di tutti contro tutti.
E a nessuno conviene smettere per primo

Lei è uno dei maggiori conoscitori del signoraggio delle implicazioni finanziarie della sovranità statuale. Quali sono gli estremi economici del fallimento del sistema paese Italia?
Le risponderò con una citazione da Basta Italia: «L’Italia è un fallimento come capacità di innovarsi e ammodernarsi, nonostante ne abbia un bisogno estremo – è il più rigido tra i paesi occidentali.
È un fallimento come produttività: è ultimo tra i paesi occidentali.
È un fallimento come natalità: è ultimo tra i paesi occidentali.
È un fallimento come pubblica amministrazione: è ultimo fra i paesi occidentali come efficacia e primo per costi.
È un fallimento come capacità di attrarre investimenti: è ultimo fra i paesi occidentali.
È un fallimento come capacità di attirare e trattenere il risparmio: nel primo anno del Governo Prodi bis, 120 euromiliardi si sono rifugiati in Svizzera.
È un fallimento in fatto di sviluppo economico: il suo prodotto interno lordo, e ancora più il suo prodotto interno netto, marciano a tassi frazionali rispetto alle economie forti.
È un fallimento in fatto di finanza pubblica: infatti, l’indebitamento dello stato è enorme, continua a crescere, e nessun governo lo riduce, mentre esso inghiotte sempre più risorse per il pagamento degli interessi passivi.
È un fallimento in fatto di indipendenza – nel senso che ha sempre più padroni stranieri, non tanto a Washington, quanto a Francoforte, Londra, Parigi.
È un fallimento in quanto a capacità di ricerca scientifica e tecnologica – ultimo d’Europa, dopo la Grecia.
È un fallimento in fatto di pubblica istruzione: le scuole italiane sono le meno efficaci nel preparare al lavoro.
È un fallimento in quanto a debito pubblico e pressione fiscale – ovviamente – che salgono in parallelo, alimentandosi a vicenda, come qualcuno inizia a capire.
È un fallimento in fatto di integrazione economica, in quanto aumenta il divario tra regioni sviluppate e regioni non sviluppate, regioni che mantengono e regioni che sono mantenute.
È un fallimento in quanto a welfare, perché il trend consolidato assicura pensioni ridicole ai lavoratori che adesso stanno pagando pensioni sufficienti ai pensionati di oggi; e non assicura nulla ai giovani, se non di dover pagare per i vecchi.
È un fallimento in quanto alla giurisdizione, perché il sistema giudiziario italiano è inefficiente e corrotto, alimenta la criminalità e allontana gli investimenti stranieri, e viene costantemente condannato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
È un fallimento in quanto a infrastrutture, che sono state neglette, anche come manutenzione, per decenni.
È un fallimento in quanto a ordine pubblico, dato che un terzo circa del territorio resta in mano alla criminalità organizzata, e gli stessi partiti politici riproducono i modelli di potere e consenso della mafia.
È un fallimento in quanto a difesa idrogeologica, dato che non è in grado di eseguire una prevenzione che costerebbe una frazione di quanto costa rimediare ai disastri idrogeologici dopo che sono avvenuti.
È un fallimento in quanto a capacità decisionale, in quanto nessun governo riesce ad eseguire riforme strategiche e tutto si blocca.
È un fallimento complessivo e definitivo, in quanto tutte queste cose si sanno, ma a nessuna di esse si è rimediato o iniziato a rimediare, nemmeno con la “Seconda Repubblica”, nemmeno con l’”alternanza”».
Il quadro oggettivo è tale, che l’unica operazione razionale sarebbe quella di porre fine a questo mostro assemblato e agonizzante che è lo Stato italiano. È fallito, sta marcendo, non ha futuro. Prendiamo atto della realtà, e agiamo di conseguenza. Sciogliamolo e ridiamo vita autonoma alle sue parti, fintantoché sono ancora vitali.

Venendo all'attualità, la crisi sistemica sembra di dominio pubblico. Non è la prima volta, ma di originale vi è l'acquiescenza e la rassegnazione dell'opinione pubblica. Sembra quasi che le oligarchie e la cosiddetta "casta" politica siano lo specchio dell'opportunismo che si è diffuso tra la popolazione. È per questo che è così pessimista sulla credibilità o la possibilità di invertire la rotta? Oramai il timone è in mano a capitali privati stranieri. La rotta la cambiano questi. Nel loro interesse. Ed è un cambiamento imposto, attraverso coazione finanziaria, fiscale, bancaria. L’establishment italiano, quando ancora poteva prendere iniziative strategiche, si è venduto e ha peggiorato le cose in modo pilotato, per poter preparare l’opinione pubblica alla privatizzazione di tutte le funzioni pubbliche, a vantaggio di monopolisti privati che le rilevano in società con politici, sindacalisti e pubblici amministratori, e le gestiscono in regime monopolistico con sovrapprezzi monopolistici, quindi nessun incentivo all’efficienza e massima possibilità di sfruttare il cittadino.
Ricercatori, scienziati, managers, imprenditori se ne sono già andati e se ne stanno andando. Restano i peggiori e i meno capaci e quelli che sguazzano in questo sistema, come pesci in una pozzanghera economica che si sta prosciugando al sole della globalizzazione.
Un organismo che non riesce a reagire a processi degenerativi interni, è un organismo morente. L’Italia non ha capacità di reazione organiche, d’insieme. Alcuni gruppi, alcune cordate di potere, riescono ad assicurarsi fette di potere e sacchi di soldi attraverso la conquista di posizioni di rendita monopolistica e attraverso il saccheggio fiscale dei risparmiatori e dei produttori di ricchezza che ancora non se ne sono andati. In ciò, sostanzialmente, consiste l’attività dei partiti politici italiani.
Questi sono gli elementi, in base ai quali dobbiamo valutare le prospettive dell’Italia, e decidere se sia meglio restare o emigrare.

Se lo Stato nazionale ha esaurito il suo ruolo storico, è credibile, dal suo punto di vista, una prospettiva che confederi delle identità regionali in un contesto europeo?
Le faccio notare che ha formulato la domanda senza esprimere chi sia il soggetto del verbo “confederi”. Formalmente, sintatticamente, il soggetto è “una prospettiva”. Ma, ovviamente, nessuna prospettiva ha mai realizzato una confederazione. La Confederazione Elvetica e la Confederazione, poi Federazione, delle colonie nordamericane (poi U.S.A.) sono state volute e realizzate dalle classi economiche forti di quei tempi, che erano legate al territorio e operavano in un mondo in cui non vi erano strutture di potere globali – o, se vi erano (l’Impero Germanico per la Confederazione Elvetica, l’Impero Britannico per quella nordamericana), potevano essere fisicamente respinte con le armi e tenute “fuori”. Quelle due confederazioni nacquero proprio con quello spirito di rappresentanza della base e di indipendenza da un potere autocratico centralistico. Ma oggi le classi forti sono oligarchie finanziarie globali slegate dal territorio. Nessuno le può tener fuori o sconfiggere militarmente. In effetti, in Europa si è affermato l’opposto di una federazione democratica: un governo sopranazionale autocratico e non rappresentativo, ossia la U.E., che è retta da una Commissione intergovernativa non eletta dal popolo e le cui riunioni sono addirittura segrete (il Parlamento ha poteri poco più che di immagine); e da una banca, la Banca Centrale Europea, istituita col Trattato di Maastricht, di proprietà e guida sostanzialmente private, libera da ogni controllo politico delle istituzioni europee o nazionali, immune da ogni controllo giudiziario, che fa bilanci pure esenti da verifiche, e le cui riunioni direttive sono pure segrete. Praticamente uno Stato al di sopra degli altri Stati, che detta i tassi di sconto e varie misure economiche. Figuriamoci che democrazia e che federalismo possiamo aspettarci…

La nostra rivista si caratterizza per la critica al modello sociale consumista occidentale. Che cosa pensa della riduzione di scala del modo di produrre e accumulare, l'autonomia e forme partecipate e locali di autogoverno, la reciprocità di scambi tra aree territoriali?
Il modello che proponete è, in sé, desiderabile e io lo condivido. Sarebbe molto efficace, credo, nel ridurre le storture più dolorose e più nocive per l’uomo, l’ambiente, l’economia.
Ma è utopico, ingenuo pensare che possa essere realizzato su larga scala. Infatti, se chiamiamo i due modelli, quello consumista e il vostro, rispettivamente, Modello C e Modello D, il fatto che si sia realizzato e permanga il Modello C e non il Modello D, sebbene D sia preferibile, non è casuale, non è accidentale, ma è dovuto a fattori socioeconomici precisi e molto forti, che ho descritto nel capitolo Il Denaro Come Motivatore Universale nel mio saggio Euroschiavi. Per uscire dal Modello C e realizzare il nostro Modello D, non basta persuadere un buon numero di singoli della sua desiderabilità, ma bisognerebbe mettere in moto fattori che cambino l’azione del genere umano in quanto sistema – azione che non va nella medesima direzione delle preferenze dei singoli, ma in direzione diversa e sovente opposta. I meccanismi dell’azione della società non sono quelli dell’azione dei piccoli gruppi. Il comportamento collettivo non è la media di quelli individuali. E non dimenticate che il consumismo fu progettato a tavolino e introdotto nella cultura americana (poi in altri paesi) per meglio governare gli americani e distrarli da temi sociali sollevati dalla rivoluzione sovietica e da quelle fascista e nazionalsocialista, nonché per assorbire il surplus della produzione.
Oggi si potrebbe forse costruire comunità non consumiste, nello spirito che indicate – anzi, risulta che simili comunità già esistano. Ma l’ambiente circostante, tutto il mondo fuori di loro, continuerebbe secondo l’altra via, e prima o poi le schiaccerebbe dall’esterno o le snaturerebbe e boicotterebbe con le sue leggi, le sue tasse, le sue manipolazioni genetiche e l’inquinamento. Quindi credo che per superare il sistema presente si debba essere capaci e disposti ad attraversare ben altre trasformazioni, distacchi e crisi di quelle del modello della decrescita.
Simili comunità, infine, credo siano esposte anche a un problema esistenziale: ogni pensabile Eden, ogni modello di vita, è ultimamente inappagante, perché l’uomo non è mai stabilmente appagato in ciò che trova, tende sempre oltre ogni confine. Buddha, Schopenhauer e Leopardi hanno molto da dire in proposito. E meditate su Odisseo, che lottò dieci anni per ritornare a Itaca, ma poi ci resistette poco, e ripartì alla ventura per sfidare i confini del mondo.

Tratto da CONSAPEVOLE 13

PER APPROFONDIRE
Chi sono i proprietari della Banca d’Italia?
A seguito delle recenti fusioni, a fine del maggio 2007 abbiamo il seguente
assetto proprietario:
Intesa-San Paolo (Crédit Agricole) 30,33%
Unicredit-Capitalia 22,10%
Generali 6,30%
Carisbo 6,20%
Inps 5%
Banca Carige 4,80%
Bnl (Paris Bas) 2,80%
Mps 2,50%
Si evidenzia che ora capitale francese detiene oltre 1/3 della Banca d’Italia: infatti, il Crédit Agricole controlla il gruppo Intesa-San Paolo che oggi ha il 30,33 % della Banca d’Italia, e Paris Bas controlla la BNL che oggi ne ha il 2,80%. Il risultato è che l’Italia è stata fatta colonia monetaria di banchieri privati francesi.
(Fonte: Euroschiavi, Terza edizione aggiornata e riveduta, Arianna 2007)


Segnalazioni librarie:

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