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Controriforma liberista e fine di Bankitalia

di Raffaele Ragni - 13/02/2008

 

Controriforma liberista e fine di Bankitalia



Il sistema bancario fascista, definito dalle leggi del 1926 e del 1936, è sopravvissuto fino agli anni ottanta. In seguito, per la diffusione di nuove forme di intermediazione finanziaria e per la necessità di adeguare l’ordinamento italiano alla realtà europea, sono stati attuati una serie di interventi normativi - fino all’emanazione nel 1993 del Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (TULB) - che hanno profondamente trasformato il concetto di attività bancaria e la struttura del sistema. Per quanto riguarda la natura dell’attività bancaria, l’ordinamento fascista la definiva funzione di interesse pubblico, mentre l’attuale normativa le attribuisce carattere d’impresa. Si è così riaffermata una visione privatista ed affaristica dell’attività bancaria, tipica del sistema creditizio dell’Italia liberale. In sostanza, il fascismo attuò la riforma del sistema bancario italiano. Quella liberista è stata una controriforma, che ha restaurato la confusione delle funzioni e la sudditanza dell’economia italiana verso la finanza cosmopolita, segnando la fine della Banca d’Italia come ente esercente funzioni sovrane nell’interesse del popolo italiano.
La dottrina ispirata alla legge bancaria del 1936 limitava l’attività bancaria a due fondamentali operazioni - la raccolta del risparmio e l’esercizio del credito - che erano considerate strettamente collegate. Pertanto poteva considerarsi bancaria solo ed esclusivamente quella particolare funzione di intermediazione tra la provvista di fondi e l’impiego in operazioni di prestito nei riguardi del pubblico. Ulteriori servizi offerti dalle banche erano raggruppati tra le attività accessorie.
Le varie forme di intermediazione finanziaria e l’emissione di titoli atipici, confluivano in un’area residuale, il cosiddetto parabancario. Nel definire l’attività bancaria, il Testo Unico del 1993 accoglie questa distinzione come contenuto specifico dell’attività bancaria, e al tempo stesso attribuisce alle banche la possibilità di svolgere anche attività non propriamente bancarie, ma finanziarie in genere.
Non è una contraddizione, ma un sottile artifizio per dare alle banche la possibilità di fare ciò che vogliono senza contraddire la precedente disciplina e la dottrina dominante. Infatti, l’attuale normativa qualifica la raccolta del risparmio come acquisizione di fondi con obbligo di restituzione, sia in forma di depositi sia in altra forma, ma non offre una definizione precisa di esercizio del credito. Così il concetto può avere estensione illimitata, in virtù della norma (TULB, articolo 10, comma 3) che consente alle banche di esercitare, oltre all’attività bancaria, ogni altra attività finanziaria secondo la disciplina propria di ciascuna, nonché le attività connesse o strumentali.
L’ordinamento fascista evidenziando la natura pubblica della funzione di intermediazione svolta dalle banche sul mercato della moneta, imponeva una forte specializzazione delle imprese bancarie in base alla durata del credito ed alla tipologia delle operazioni, dettando discipline nettamente differenziate in funzione di tale specializzazione e dando al sistema carattere pluralista. Secondo l’attuale normativa, la natura e la durata dei crediti non sono più criteri di differenziazione con rilevanza sistemica. Gli istituti di credito di diritto pubblico, le banche di interesse nazionale, le casse di risparmio, i monti di credito su pegno, sono scomparsi dall’ordinamento. Restano comunque figure contrattuali differenziate per tipologia di operazioni. Requisiti e modalità di erogazione trovano la loro disciplina nel codice civile, in leggi speciali, in atti delle autorità creditizie e della Pubbliche Amministra-zione, negli statuti delle banche.
Attenuandosi il pluralismo e la specializzazione degli enti creditizi, ogni impresa bancaria è libera di scegliere la propria organizzazione interna e la tipologia di servizi che intende erogare alla clientela. La banca che sceglie di operare come banca universale può esercitare direttamente tutte le operazioni previste dalla normativa in vigore. Se invece preferisce strutturarsi come gruppo bancario polifunzionale, alcuni servizi sono erogati da società finanziarie o strumentali, controllate dall’impresa bancaria. Le uniche forme societarie consentite sono la società per azioni e la società cooperativa per azioni a responsabilità limitata. L’esercizio dell’attività bancaria da parte di società cooperative è riservato alle banche popolari e alle banche di credito cooperativo.
Il regime fascista esercitava poteri di indirizzo e controllo attraverso due organi amministrativi: un comitato di vertice presieduto dal capo del governo, ed un ispettorato ausiliario presieduto dal Governatore della Banca d’Italia. Tale struttura fu alterata già nel dopoguerra. Il trasferimento delle loro funzioni alla Banca d’Italia e al Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio (CICR), istituito nel 1947, attenuò il profilo gerarchico del modello fascista, cominciando a svincolare gli operatori economici dal potere politico. Il Testo Unico (1993) ha dapprima eroso alcune attribuzioni degli organi di natura politica (CICR e Ministro del Tesoro) a vantaggio della Banca d’Italia e poi avviato la restrizione delle sue competenze a favore della Banca Centrale Europea (BCE), in conformità al Trattato di Maastricht (1993). L’integrazione europea non ha annullato le competenze della Banca d’Italia in materia di vigilanza, che continua ad esercitare in rapporto di sovraordinazione rispetto al CICR, ma ha progressivamente ridotto l’ampiezza delle sue attribuzioni in materia di autorizzazione all’apertura di nuovi sportelli e di regolamentazione della politica economica, sia monetaria che valutaria.
Secondo la legge bancaria del 1936, l’autorizzazione all’esercizio dell’attività creditizia era riservata alla Banca d’Italia e rimessa alla sua discrezionalità. Essa valutava non solo l’idoneità dei mezzi finanziari della banca richiedente, determinando l’ammontare minimo del capitale e del fondo di dotazione, ma anche se il suo insediamento, secondo il luogo e la forma societaria prescelti, rispondessero al pubblico interesse. A limitare la discrezionalità della Banca d’Italia è intervenuta dapprima una direttiva CEE del 1977, recepita nell’ordinamento italiano nel 1985, che fissava criteri oggettivi di riferimento e sanciva il diritto di libera iniziativa sia per l’accesso che per l’organizzazione dell’attività bancaria. In tal modo, ancor prima che la controriforma liberista fosse compiuta, l’esercizio del credito cominciava a perdere i caratteri del pubblico servizio e tornava ad essere assimilata a qualsiasi attività d’impresa.
Ad annullare l’esclusività del suo potere in materia, è poi arrivato il Testo Unico del 1993, secondo cui le banche autorizzate ad operare in uno Stato membro dell’Unione Europea possono aprire succursali in Italia senza dover ottenere il preventivo consenso della Banca d’Italia (principio dell’autorizzazione unica) e sono sottoposte alle legislazioni ed ai sistemi di vigilanza del Paese d’origine (principio dell’home country control). Invece, per quanto riguarda lo stabilimento della prima succursale di una banca extracomunitaria, l’autorizzazione è rilasciata con decreto del Ministro del Tesoro, d’intesa col Ministro degli Esteri. La Banca d’Italia viene semplicemente sentita e può negarla solo se ritiene che non risulti garantita la sana e prudente gestione del nascente succursale, ma non per motivi di pubblico interesse.
Passiamo ora ad esaminare le residue attribuzioni in materia di politica economica. Fino al Trattato di Maastricht, la Banca d’Italia fungeva da banca di Stato, istituto di emissione, banca centrale, banca delle banche. Come banca di Stato agiva in difesa della parità della lira intervenendo sul mercato dei cambi con cessioni o acquisti di divise estere e gestendo le riserve di valuta estera. Come istituto di emissione aveva facoltà di emettere biglietti bancari a corso legale. Come banca centrale poteva influire sull’ammontare complessivo dei mezzi di pagamento attraverso l’aliquota della riserva obbligatoria e le operazioni di mercato aperto. Come banca delle banche concedeva finanziamenti agli enti creditizi attraverso il risconto e le anticipazioni Nel fissare i tassi ufficiali di sconto e di interesse sulle anticipazioni, la Banca d’Italia agiva in piena autonomia.
Il Trattato di Maastricht ha eroso queste competenze a vantaggio della Banca Centrale Europea (BCE). I principali obiettivi dell’accordo - l’Unione Economica e Monetaria (UEM) e la transizione dalle monete nazionali all’euro - sono stati realizzati dal 1998 al 2002 seguendo un programma articolato in tre fasi. Dalla partecipazione dell’Italia alla terza fase, la Banca d’Italia è divenuta parte integrante del Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC). Il processo di convergenza ha interessato i requisiti di indipendenza della Banca d’Italia, l’emissione di banconote e monete, la gestione delle riserve ufficiali, gli strumenti di politica monetaria.
In materia di autonomia, è diminuita l’influenza del potere politico ed è aumentata la subordinazione ai centri decisionali sovranazionali.
Per i membri del Consiglio Superiore - che è competente per l’ordinaria amministrazione e nomina i vertici dell’istituto, cioè Comitato del Consiglio, Direttore Generale, Vicedirettori Generali, Governatore - il mandato è stato elevato da tre a cinque anni, e sono state previste nuove ipotesi di incompatibilità, che riguardano dirigenti ed impiegati della Pubblica Amministrazione. Sono state abrogate le disposizioni riguardanti i poteri di sospensione ed annullamento da parte del Ministro del Tesoro nelle materie di competenza del SEBC. In tema di emissione, dal 1° gennaio 1999 la Banca d’Italia ha perso il potere di coniare moneta. Le relative attribuzioni del Consiglio Superiore, fino alla definitiva transizione all’euro, potevano essere esercitate previa autorizzazione della BCE. Attualmente alla BCE è affidata l’approvazione del volume del conio. Ciò significa che l’Italia può coniare moneta in euro, ma deve rispettare le disposizioni del Consiglio dell’Unione Europea e l’ammontare complessivo stabilito dalla BCE.
Per quanto concerne la gestione delle riserve ufficiali, le diverse banche centrali nazionali sono tenute a conferire alla BCE le attività di riserva in valuta in proporzione alla quota di capitale sottoscritta. Le attività che, dopo questo trasferimento, residuano alla Banca d’Italia, sono da questa gestite osservando gli indirizzi definiti dalla BCE. In materia di politica monetaria, fino al 31 dicembre 1998, il Governatore determinava il tasso d’interesse sui depositi in conto corrente presso la Banca d’Italia, il tasso ufficiale di sconto e quello delle anticipazioni in conto corrente e a scadenza fissa. Dal 1° gennaio 1999, la manovra dei tassi d’interesse, e quindi il controllo della liquidità, è di competenza del SEBC.
Concludendo, la controriforma liberista del 1993 ha epurato il sistema creditizio italiano da ogni residuo di legislazione fascista ed ha depotenziato la Banca d’Italia. Il Testo Unico ha introdotto nel nostro ordinamento un modello di banca all’americana, intesa come department store of finance. Col Trattato di Maastricht, la Banca d’Italia ha perso tutte le funzioni tipiche di banca di Stato e di banca di emissione. Come banca centrale continua ad influire sulla circolazione monetaria solo con il coefficiente di riserva obbligatoria e le operazioni di mercato aperto. Come banca delle banche esegue ancora risconti ed anticipazioni, ma non ne determina più i tassi.
Questo cambiamento è stato definito ed imposto come irreversibile. Tuttavia, poiché siamo in democrazia, qualcuno dovrebbe spiegarci se è legittimo mutilare la sovranità popolare dei suoi contenuti economici e monetari, trasferendoli ad un ente sovranazionale totalmente svincolato dal controllo dei parlamenti degli Stati europei.