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George Bush e la 'società dei proprietari'

di Naomi Klein - 15/02/2008

Aveva promesso una 'società di proprietari' e convinto la gente a comprare casa. A causa della crisi in due milioni rischiano di perderla
 
George BushRicordate la 'società dei proprietari', leitmotiv dei discorsi di George W. Bush nei primi quattro anni della sua presidenza? "Stiamo creando una società dei proprietari in questo Paese, dove un numero senza precedenti di americani potrà aprire le porte dei luoghi in cui vive e dire: benvenuti in casa mia, nella mia proprietà", disse nell'ottobre del 2004. Grover Norquist, una delle teste d'uovo di Washington, previde che quella sarebbe stata una delle principali eredità della sua amministrazione, ricordata anche "fra molto tempo, quando la gente non saprà più nemmeno come si pronuncia Fallujah". Ma nell'ultimo discorso del presidente sullo Stato dell'Unione, quell'espressione tanto usata era vistosamente assente. Il che non sorprende: più che il padre orgoglioso di quella creatura, ne è diventato infatti il becchino.

Molto prima di assumere un nome preciso, fu un concetto di centrale importanza per il successo della rivoluzione economica di destra. L'idea era semplice: se i lavoratori possedevano uno spicchio del mercato - un mutuo immobiliare, un portafoglio titoli, una pensione privata - avrebbero smesso di considerarsi tali e cominciato a ritenersi proprietari, con gli stessi interessi dei loro padroni. Questo significava che avrebbero potuto votare per quei politici che promettevano di migliorare l'andamento della Borsa piuttosto che le condizioni di lavoro.

C'era sempre la tentazione di liquidare la società dei proprietari come un vuoto slogan: una 'ciarlataneria', come disse l'ex ministro del Lavoro Robert Reich. Ma era invece una realtà, la risposta a una difficoltà a lungo incontrata dai politici che intendevano favorire i ricchi. Il problema era essenzialmente questo: le persone tendono a votare in funzione dei loro interessi economici. E persino in un paese ricco come gli Stati Uniti, la maggior parte di esse guadagna meno della metà del reddito medio . Ciò significa che è nell'interesse della maggioranza votare per i politici che promettono di ridistribuire la ricchezza dall'alto in basso.

Che fare, allora? La soluzione venne escogitata per prima da Margaret Thatcher quando, con un'audace iniziativa, decise di offrire ai residenti delle case popolari o comunali, occupate in prevalenza da sostenitori incalliti del Labour Party, incentivi all'acquisto dei loro appartamenti a prezzi ridotti (così come Bush fece molti anni dopo, promuovendo i mutui subprime). Quelli che se lo potevano permettere divennero così proprietari di casa, mentre gli altri dovettero pagare affitti quasi raddoppiati, che crearono un'ondata di senzatetto.

Come strategia politica funzionò: gli affittuari continuarono a votare contro la Thatcher, ma i sondaggi dimostrarono che più della metà dei neoproprietari cambiarono orientamento politico a favore dei conservatori. Un mutamento di natura essenzialmente psicologica, nel senso che si sentivano ormai padroni di casa e in quanto tali tendevano a votare Tory. Così nacque il progetto politico della società dei proprietari.

Al di là dell'Atlantico, anche Reagan lanciò una serie di politiche che convinsero allo stesso modo molti cittadini che le divisioni di classe non esistevano più. Nel 1988, solo il 26 per cento degli americani, come risultava dai sondaggi, era convinto di vivere in una società divisa fra ricchi e poveri, mentre il 71 per cento rifiutava persino l'idea di classe sociale. Ma la vera svolta avvenne negli anni '90, con la democratizzazione della proprietà azionaria, in seguito alla quale circa la metà delle famiglie americane divenne proprietaria di titoli. Controllare l'andamento della Borsa divenne un passatempo nazionale e le quotazioni trasmesse sui teleschermi incontravano più interesse delle previsioni del tempo. I comuni cittadini avevano preso d'assalto le enclavi esclusive di Wall Street.

Ancora una volta, si trattò di un mutamento psicologico. I proventi azionari rappresentavano una parte relativamente piccola dei redditi medi americani, ma nell'epoca delle frenetiche ristrutturazioni delle imprese e dei trasferimenti di capitali all'estero, questa nuova classe di investitori dilettanti vedeva ormai le cose con occhi diversi. Ogniqualvolta si annunciava una nuova ondata di licenziamenti, che faceva salire vertiginosamente le quotazioni, molti non reagivano, identificandosi con chi aveva perso il lavoro, né protestando contro le politiche che aveva prodotto quel risultato, bensì telefonando ai loro agenti di cambio dando istruzioni di comprare.