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La natura dell’anima e la sua immortalità nel pensiero di Magno Aurelio Cassiodoro

di Francesco Lamendola - 16/02/2008

 

 

Flavio Magno Aurelio Cassiodoro, nato verso il 490 d. C. e morto, vecchissimo, nel 583, si può considerare, insieme a Severino Boezio, "l'ultimo dei Romani"; ma, a differenza del suo illustre contemporaneo, si può anche considerare il primo degli scrittori medioevali, per una sua caratteristica apertura verso il nuovo, compresa la realtà dei regni romano-germanici. Mentre Boezio appare come circonfuso da una luce purissima, e tuttavia malinconica, perché tutto assorbito nel compito di sintetizzare e armonizzare la grande tradizione filosofica di Platone con quella di Aristotele e come dominato da una struggente nostalgia per il mondo antico che stava finendo, Cassiodoro si rivela impegnato in uno sforzo gigantesco per gettare le basi di una cultura enciclopedica che, trasmettendo ai posteri l'eredità del mondo greco-latino e fondendola con la cultura cristiana, potesse sostenere l'urto dei tempi tremendi che si andavano annunciando - egli visse in piena guerra greco-gotica (535-553), nella scomoda posizione di ministro dei re goti - e salvare dal naufragio l'eredità spirituale e culturale di Roma.

Allievo, per molti aspetti, del pensiero filosofico di sant'Agostino, Cassiodoro tende a un sapere enciclopedico che compendi le arti del Trivio (Grammatica, Dialettica e Retorica) e del Quadrivio (Aritmetica, Geometria, Musica e Astronomia). Un altro aspetto caratteristico della sua cultura è la prevalenza della formazione religiosa rispetto a quella laica, per cui lo studio dei classici è visto come una sorta di propedeutica a quello delle Scritture. Entrambi questi indirizzi di pensiero sarebbero rimasti in eredità al Medio Evo, sicché si può affermare che la sua influenza sui secoli successivi è stata enorme.

Scrive Piero Gallardo nella sua Storia della letteratura italiana (Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1967, p. 28):

 

"In convento compilò i Variarum libri XII, raccolta in 12 libri delle epistole ufficiali, che egli stesso aveva scritto durante le sue funzioni pubbliche, importanti anche per le notizie storiche che ci forniscono. In esse Cassiodoro riprende la teoria ciceroniana dei tre stili, e la precisa. Gli stili sono il sublime, il medio, l'umile, e ad essi si fa ricorso secondo l'importanza degli scritti, in particolare per le lettere."

 

Dopo essere stato ministro di Teoderico e, poi, di Teodato, svolgendo peraltro un ruolo ambiguo nell'assassinio di Amalasunta che scatenò la guerra con Giustiniano (vedi il nostro saggio Amalasunta e la crisi del regno ostrogoto, 526-535, sempre sul sito di Arianna Editrice), nel 535-36 tentò di organizzare a Roma, d'accordo con papa Agapito,  una scuola di teologia sul modello del didaskaleion di Alessandria, ossia una specie di università cristiana. Il progetto fallì, anche per l'inzio della guerra fra Goti e Bizantini, così come era fallito il progetto di una fusone tra Romani e barbari, cui aveva generosamente collaborato, scrivendo - fra l'altro - una storia degli Ostrogoti o Getica, poi andata perduta e conosciuta, oggi, solo tramite un compendio di Jordanes, che è una sorta di epos nazionale di quel popolo.

A quel punto, mentre la parola passava alle armi, con il loro inevitabile seguito di carestie e pestilenze, e l'Italia intera piombava nel più spaventoso cataclisma della sua storia plurimillenaria, l'indomito Cassiodoro decise di ritirarsi in un chiostro da lui fondato nella natia Calabria, a Vivarium: non per fuggire dal mondo, ma per gettare fra i suoi monaci le fondamenta di un mondo nuovo, salvando la parte migliore dell'eredità del vecchio. Egli, infatti, organizzò una vasta mole di attività culturali, tra le quali la copiatura delle opere classiche sia pagane che cristiane, e fornì un modello di organizzazione monastica che avrebbe esercitato una notevole influenza sul movimento benedettino.

Abbiamo detto della sua propensione per una cultura che fosse la più ampia possibile, addirittura di tipo enciclopedico. Oltre alle Variae, scrisse una Chronica universale, una Historia ecclesiastica tripartita e tutta una serie di opere esegetiche sulle sacre Scritture. Tuttavia l'opera che gli diede la fama furono le celebri Institutiones, suddivise in De institutione divinarum litterarum, in 33 capitoli, e in De artibus ac disciplinis liberalium litterarum. Inoltre, resosi conto, negli ultimi anni della sua vita, del basso livello di istruzione dei suoi monaci, allo scopo di porvi rimedio compose   il trattato De ortographia, il quale, in realtà,  abbraccia retrospettivamente la sua intera produzione letteraria.

Osserva Michael Von Albrecht nella sua Storia della letteratura latina (Torino, Einaudi, vol. III, pp. 1.516-1517):

 

"Casiodoro considera il sapere mondano come necessaria integrazione a quello religioso. Per costruire una biblioteca raccoglie manoscritti ed introduce la trascrizione dei codici come incombenza dei monaci: spiritosamente la definisce «contra diaboli subreptiones illicitas calamo atramentoque pugnare (combattere con la penna e con l'inchiostro contro le disoneste insidie del demonio»: inst., 1, 30). Allo stesso modo incoraggia la tradizione di opere greche. Le sue Institutiones ricordano qua e là una buona guida per una biblioteca. Dapprima dà istruzioni per lo studio della Bibbia e traccia un profilo degli scrittori cristiani Ilario, Cipriano, Ambrogio, Gerolamo ed Agostino. Poi, però, nella seconda sezione principale delle sue Institutiones, tratta in sette capitoli le Artes liberales. I suoi interessi sono realmente enciclopedici e comprendono anche la letteratura relativa all'assistenza ai malati e quella naturalistica. Raccomanda il giardinaggio ai confratelli incapaci di penetrare nelle profondità del sapere.

"Applica sistematicamente l'ermeneutica. Nelle Expositiones in Psalmos è seguito lo schema seguente: illustrazione del titolo, suddivisione, breve indicazione del contenuto. L'esegesi vera e propria che segue prende lo spunto dalla persona del parlante come punto focale storico e del Cristo come cardine spirituale. Vengono distinti i significati 'pneumatico' (spirituale), storico e mistico, quello morale è solo occasionalmente sfiorato. Alla fine segue ogni volta u breve riepilogo. Non solo il modello di fondo della meditazione reca l'impronta della retorica; anche nel dettaglio vengono messi in rilievo gli elementi retorici nei Salmi; questi sono eloquenza nel senso pieno del termine. Così il commento ai Salmi  è allo stesso tempo un'iniziazione alla dottrina della fede e alla scienza: quest'ultima rende esplicito ciò che si trova nei testi biblici."

 

L'unica opera propriamente filosofica di Cassiodoro è il trattato De Anima, posto in appendice alle Variae. In esso vengono trattati i problemi della natura dell'anima; della sua radicale incorporeità (ovvero mancanza di forma); della sorte dell'anima dopo la vita terrena; delle caratteristiche della vita eterna; e, infine, di Dio.

Come già abbiamo accennato, vi si risente l'influenza del pensiero di Agostino e, attraverso Agostino, quella di Platone e dei neoplatonici (cfr. la nostra traduzione dei Frammenti di Ammonio Sacca, sempre sul sito di Arianna Editrice). Non si può dire che Cassiodoro vi dispieghi un pensiero veramente originale, anche se bisogna riconoscergli, come sempre (a lui, innamorato della didattica) una notevole chiarezza espositiva. A differenza di Boezio, egli non scriveva per un pubblico esperto di filosofia, ma per un pubblico di monaci desiderosi di farsi una cultura generale e per le persone colte che, come lui, avevano molteplici interessi culturali.

Nel capitolo dedicato alla forma dell'anima, la sua definizione di forma è tratta dalla geometria e non si applica, evidentemente, alle sostanze spirituali. Non è chiaro se Cassiodoro non si avveda della contraddizione, oppure se la adoperi con voluta disinvoltura, allo scopo di rendere più semplice e chiaro il concetto della incorporeità dell'anima.

In quello dedicato al destino dell'anima dopo la morte, egli sembra unire l'insegnamento di Platone, Plotino e degli altri neoplatonici con quello tradizionale della Chiesa cattolica, disegnando un inferno e un paradiso estremamente realistici (anche se, a volte, un po' ingenui), che non mancherà di suggestionare i posteri, fino a Dante ed oltre, passando per gli scultori delle grandi cattedrali romaniche e gotiche.

Giova, comunque, ricordare che il dibattito sulla natura dell'anima era vivamente sentito nella cultura della tarda antichità, sia in ambito greco che latino, e fra i cristiani non meno che fra i pagani. Non solo la dottrina di Democrito e, poi, quella di Epicuro (magnificamente esposta nel De rerum natura di Lucrezio), ma anche quella stoica, sostenevano la natura materiale dell'anima; e tale punto di vista era passato nello stesso cristianesimo attraverso Tertulliano, nonostante avesse incontrato molti e agguerriti oppositori.

Una voce potente a sostegno dell'incorporeità dell'anima era stata, nel V secolo, quella di Claudiano Mamerto (morto verso il 474 d. C.), un retore della Gallia e amico di Sidonio Apollinare, autore del trattato De statu animae, che è stato definito il maggiore scritto filosofico tra sant'Agostino e Boezio. Mamerto aveva sostenuto, attaccando le tesi "materialistiche" di Fausto di Riez, l'essenza non spaziale e quantitativamente inafferrabile dell'anima. Le sue argomentazioni rivelano una forte ascendenza neoplatonica e sembra che abbiano costituito la base, o una delle basi, per la composizione del trattatello cassiodoriano, sicché si può dire che l'influenza del neoplatonismo su quest'ultimo sia duplice: diretta e indiretta; e proveniente, nel secondo caso, sia da Mamerto che da Agostino.

 

Riportiamo, a questo punto, i passi salienti del De Anima di Cassiodoro, tradotti e presentati da Manlio Simonetti, con la collaborazione di Emanuela Prinzivalli, nella sua gigantesca e benemerita opera in tre volumi Letteratura cristiana antica (con gli scritti originali a fronte), Casale Monferrato, Edizioni Piemme, III, pp. 580-597.

 

“V. Alcuni autori  dissero chela natura di  questa sostanza è ignea, perché essa vive sempre come una viva fiamma e perché vivifica con il suo calore le membra congiunte al corpo; e ancora perché tutte le creature celesti – essi sostengono – sono costituite da sostanza ignea, che non deriva da codesto nostro fuoco che ci consuma e poco dura, ma da un fuoco tranquillo, che non si consuma né aumenta, ma sempre persevera nella originaria dignità ricevuta. Esso pertanto non può estinguersi, perché non è formato al pari di tutti i corpi a alcuna mescolanza di elementi. Uno e semplice, esso non conosce contrarietà e perciò rimane per sempre, perché nella sua essenza  non vi è contrasto. Tutte le creature, alle quali è stata data una sostanza spirituale – essi dicono -, sono come gli esseri immortali.

“Noi invece preferiamo dire piuttosto, per non incorrere in alcuna empietà, che l’anima è una luce, perché è immagine di Dio – immagine ricevuta – ricordiamolo – in maniera conveniente tra tutte le altre condizioni, secondo la propria capacità e necessità. Infatti ‘soltanto’ Dio onnipotente ha l’immortalità; egli abita in una luce inaccessibile, che la mente sana intuisce al di sopra di tutti gli splendori e le meraviglie. Ora, essendo immagine, l’anima ha con Dio una certa somiglianza; ma non può avere lo stesso lume che ha la verità. Ebbene quella luce, da noi tenuta come un ineffabile mistero, presente interamente ovunque senza essere vista, è il Padre, il Figlio e lo Spirito santo; una sola essenza e una sola sovrana potenza, splendore sopra tutti gli splendori, gloria impossibile a celebrarsi, che solo una mente purissima e abbandonata a Dio può sentire almeno in qualche aspetto, ma che tuttavia non riesce a spiegare in maniera appropriata. Infatti, come è possibile parlare in maniera sufficiente di colui che non può essere compreso mediante il senso della creatura?

“Andiamo pure oltre i confini della nostra anima e in silenzio nel profondo dei nostri pensieri eleviamoci sopra di noi stessi. Passiamo oltre anche alle potestà delle creature celesti e consideriamo profondamente chi sia colui che ha fatto in un attimo sì grandi cose con un solo atto della sua volontà. Ebbene, qualsiasi cosa ammiriamo, egli è più grande; qualsiasi cosa pensiamo, egli è più eccelso, poiché la mente umana non può spingersi in quella imperscrutabile grandezza. Dunque, è ragionevole soltanto adorare ciò che non è scandagliabile e non patene di definire esaurientemente di che natura egli sia, e quanto grande sia.

“Sapendo questo di Dio, a noi sembra di poter dire , senza alcuna empietà, che le anime hanno per sostanza una certa lue, poiché nel Vangelo si legge: «La luce che illumina ogni uomo viene in questo mondo». In secondo luogo riteniamo sia così perché quando pensiamo, sentiamo che c’è in noi un non so che di tenue, leggero, luminoso, che riesce a vedere senza la luce del sole e senza l’aiuto di altri lumi. Infatti, se questo qualcosa non possedesse in se stesso la luminosità, non avrebbe una capacità così grande di penetrare le cose. Questo potere non è dato a chi è avvolto dalle tenebre; tutte le cose prive di luce perdono la propria vitalità. La luce di questa sostanza è infatti così penetrante, che riesce a vedere anche le cose assenti. Le anime, tuttavia, diventano molto più luminose b e sempre meno soggette al mutamento soprattutto quando, con la loro vita, non si allontanano dalla grazia di Dio. È certissimo, e lo sappiamo per esperienza, che con la loro forza speculativa le anime scrutano e comprendono molte cose ardue che sono state nascoste nel mistero della natura

"Ora vediamo se si debba credere che le anime - di cui già abbiamo affermato l'incorporeità - abbiano una forma.

"VI. Anzitutto conviene conoscere che cosa è veramente la forma in se stessa, attraverso la definizione che ne hanno dato gli antichi. Chiamo forma un certo spazio racchiuso da una o più linee. Così è facile capire se sia possibile che le anime abbiano una forma, esse che certamente sono potenze spirituali. Infatti, poiché ogni forma è in una superficie o in un corpo - e una superficie si dà solo in un corpo solido e palpabile - e poiché è chiaro che l'anima è esente da queste cose, non si deve per nulla credere che le anime abbiano una forma, ma esse permangono nella propria qualità sostanziale senza avere figura e corpo. Non si obietti ciò che l'Apostolo dice a proposito di Cristo Signore: «Egli, avendo la forma di Dio, non ritenne un furto la sua uguaglianza con lui», eccetera; Paolo, infatti, in quel passo per forma intende la natura di Dio. Del resto Iddio che è incorporeo, che è onnipresente e incomprensibile, quale forma poteva avere? E questo si legge nel vangelo - che il povero Lazzaro fu ricevuto, dopo questa vita, nel seno di Abramo; che il ricco invece, mentre bruciava nelle fiamme avvampanti, chiedeva una goccia d'acqua per mitigare il suo bruciore - bisogna credere che sia stato detto perché si comprenda quali mali debba temere la nostra funesta avidità di ricchezze. Il ricco non ha parlato con la lingua, che, si sa, è fatta di carne, e Lazzaro non aveva dita dalle quali potessero cadere gocce d'acqua per mitigare l'arsura del ricco. Anche le altre immagini contenute in pagine simili della Scrittura sono da intendersi allo stesso modo. Non è poi così importante che si dicano tali cose parlando d'una creatura, seguendo l'uso della lingua umana. Ma persino del creatore, che è impassibile, immutabile, che rimane perennemente uguale a se stesso, spesso abbiamo letto che si adira e che sonnecchia, non è che tali azioni si addicano al Signore, ma di lui si scrive così per farci comprendere alcune verità, seguendo le nostre umane abitudini, in modo più facile e più sintetico. Così leggiamo di frequente che le anime - dateci prive di forma - assumono delle forme. Il fatto che l'anima non abbia una quantità suole anche preoccupare qualcuno., dato che si a che essa è racchiusa entro il corpo dell'uomo. Ma se richiamiamo la definizione verace di quantità - e la definizione sbroglia sempre in breve ogni questione - , la verità ci apparirà chiara. Così, infatti, i matematici descrivono la quantità in modo vero e sintetico: ogni quantità consiste o di cose continue, come ad esempio l'albero, l'uomo, il monte, o di un aggregato di elementi, come ad esempio un coro di cantori, un popolo, un coacervo e simili. Ma non facendo parte l'anima né delle cose continue, né di quelle per aggregato, perché non è un corpo, è chiaro che essa non ha affatto una quantità, ma si trova in tutto il corpo, né riceve una forma, né dobbiamo dire che essa possiede una certa quantità. È da credere, tuttavia, che al creatore possono essere manifeste la condizione e la quantità delle anime, poiché egli ha creato tutto con misura, numero e peso, e solo lui, creatore di tutto, conosce veramente tutto. Egli con meravigliosa potenza intuisce anche gli stessi nostri pensieri come fossero cose visibili; egli ascolta il sangue dell'innocente che grida vendetta; insomma, egli conosce tutto prima ancora che venga creato. È ora di passare alle virtù morali, chiamate dai greci aretás, che sono ricchezze da desiderarsi ardentemente e che in realtà costituiscono il prezioso tesoro dell'anima: mediante le virtù la buona coscienza si sforza di rivendicare la propria purezza contro l'impurità del corpo.

"XIV. Mi chiederete, forse, che cosa facciano le nostre anime dopo questa vita, e quale sia la loro condizione. La nostra risposta è desunta da diversi testi. La morte è separazione dell'anima dal copro, è l'assenza di questa vita, senza più i desideri e le necessità della carne. Infatti, quando saremo spogliati di questa luce per ordine del Creatore, subito perderemo gli appetiti e le debolezze corporali. Non saremo più rotti dalla fatica, non avremmo bisogno di cibo, non saremo fiaccati dalla lunghezza del digiuno, ma mantenendoci sempre in esistenza nella natura della nostra anima, saremo nell'impossibilità di compiere sia il bene sia il male, e, fino al giorno del giudizio, soffriremo per il male compiuto, oppure godremo delle nostre buone azioni. In quel giorno raccoglieremo tutto il frutto della nostra vita, quando la voce del Signore o ci ripudierà o ci ammetterà al regno della felicità eterna. Nella vita presente qualche somiglianza con la morte ha il fenomeno del sonno tranquillo, poiché con esso lasciamo i desideri e le ambizioni del tempo presente, e il nostro animo tranquillo, immerso nel profondo sopore della mente, non avverte nulla di quanto accade.

"XV. Ma quando, nel giorno della resurrezione, con quella celerità con cui tutto fu creato, i corpi umani avranno la loro identità di uomini e di donne, quale sarà la disgrazia per quei miseri destinati a essere tormentati in eterno, senza mai venire meno? La loro pena perpetua consiste in una vita perenne nella sventura: dolore senza fine, tribolazione senza requie, afflizione senza speranza, male che non può cambiare. Infatti, la turba dei viziosi viene punita in maniera tale che la loro dannazione è assolutamente immutabile. Miseri più di tutti, sia perché perdono l'oggetto del loro amore sia perché soffrono per sempre ciò che non vorrebbero: tempo senza dolce vita, morte senza fine che possa porvi rimedio, città senza letizia, patria detestata, abitazioni amare, consorzio d'infelici, turba di piangenti; e, quel che è più grave, al di sopra di ogni rovina, i dannati vedono nel loro stesso tormento coloro che, nella cecità, hanno idolatrato.

"Nell'ambito del medesimo supplizio, tuttavia, vi sono differenti pene, in ragione di ciò che ciascuno ha meritato; come i buoni godono di gradi doversi di beatitudine, così anche i malvagi sono sottoposti a pene diverse. Avranno tutti una stessa età matura. Infatti, come è possibile che ci siano bambini là dove non si cresce, e vecchi dove non si viene mai meno? Questi momenti mutevoli della vita tendono verso la morte, ma ciò che è eterno è sempre uguale a se stesso. Ed ora una piccola difficoltà, quasi rigagnolo che sorge da un vasto fiume: com'è possibile che ci sia una pena eterna, e che non si consumi la sostanza d'un essere, senza essere riparata in alcun momento? Ma è vano pensare così, quando si tratta di cause eterne. Infatti, ci può essere una pena che tormenta senza distruggere; e ci può essere una sostanza che, pur aumentando la sensazione di dolore, non viene meno. Del resto, la nostra stessa anima da quante tribolazioni non è qui in terra afflitta, eppure non viene meno. Ci sono anche delle montagne che bruciano divorate da gradi incendi, eppure nelle loro fiamme persistono stabilmente! La salamandra riprende vita nel fuoco e, con il calore di esso, si ristora. Alcuni vermiciattoli vivono in acque bollenti. Così agli uni è fato un nutrimento che per altri sarebbe, invece, portatore di morte. Che se tra le cose mortali abbiamo il sostegno di tali esempi, che coa si deve credere di quell'eternità, dove non si trova uomo mortale, che sia consumato dalla pena? Quei miseri non potranno, dunque, sottrarsi al fuoco eterno.

"Chi dubita, invece, che il premio dei beati non sia eterno? Essi sanno, infatti, d'entrare nella letizia, che non dovranno più temere tristezza alcuna, e che la felicità meritata è senza fine. Lì il nostro animo non avrà più timore per la propria prosperità, ma la sospirata felicità conserverà sempre in eterno la propria esultanza. I beati avvertono che la propria felicità è sommamente sicura, poiché comprendono che non possono più peccare. La nostra tranquillità ivi non è più scossa da alcuna incertezza; la mente, decisa, non è più titubante, non ondeggia, non si lascia commuovere, ed è fondata da tanta stabilità di pace, che è incapace di desiderare o di pensare altre cose all'infuori della sua contemplazione. Avremo sempre ciò che ci fa piacere, e non vi sarà nulla che possa dispiacerci. Ivi saremo liberi, per grazia di Dio, non illanguiditi dal torpore dell'ozio, ma applicati con zelo alla grazia della perfezione. I nostri sentimenti saranno soddisfatti, in una pura mitezza; la nostra volontà sarà avvolta dalla pace, saremo saggi senza affaticarci con la mente, comprenderemo senza possibilità di sbagliare. Non riceveremo più male a alcuno, e non vi saranno mali esterni alla volontà. (…)

"Ivi sarà sempre giorno e il tempo sempre sereno. Il sole non sarà offuscato da nessuna nube, ma tutto risplenderà di maggior luce per grazia del creatore.- Ivi, infatti, i beat godranno d'un tale splendore della mente e di una tale luce intellettuale, che meriteranno di contemplare, come è stato detto, lo stesso creatore, come egli è nella propria maestà. Per questa ragione, i libri degli antichi ci avvertono che vede veracemente il creatore quella parte di noi, che ha in sé la sua immagine, dopo essere stata purificata e resa migliore dalla grazia divina. Con quella stessa facoltà, con cui ora crediamo, avremo la visione, e con quella parte di noi, che è la migliore, contempleremo l'essere sommo, perfetto, singolare.

"O come questa sfera del sole, quando risplende sena nubi sulla terra, accarezza i sensi del nostro animo! Di quanta consolazione non ci riempie la vista della lue terrena! La visione dei fiori ci dà moltissima gioia; ed ora, con grande piacere, contempliamo la terra verdeggiante, il mare azzurro, l'aria tersa, il tremolio delle stelle. Se le cose create ci riempiono di così grande dolcezza, quando arrivano al nostro sguardo, che cosa dobbiamo pensare sarà allora la visione di quella maestà, di cui non troviamo nulla di simile?"

 

Nelle ultime immagini di Cassiodoro risuona una dolcezza straordinaria, che è poi quella dei mosaici bizantini delle chiese di Ravenna: Sant'Apollinare Nuovo, Sant'Apollinare in Classe, coi loro colori brillanti, gli sfondi d'oro e il verde lucente delle palme e dei prati, il bianco delle vesti dei santi e dei martiri; e, ancora, l'azzurro meraviglioso della volta trapunta delle fulgide stelle dorate, come nel Mausoleo di Galla Placidia. Oppure sembra di cogliere luci e colori ineffabili che percorrono gli ultimi canti del Paradiso di Dante, quando il verso si fonde con l'evocazione struggente di atmosfere rarefatte, grandiose e indefinibili, che non appartengono più a  questo mondo.

Abbiamo già detto della scarsa originalità speculativa del trattato di Cassiodoro, per cui non ci soffermeremo oltre su questo aspetto.

È importante, invece, collocare quest'opera minore del Nostro, da un lato nel contesto del dibattito sulla natura dell'anima, allora molto vivo anche in ambito cristiano (e che proseguirà, con lo studio di Aristotele e di Averroé, lungo i secoli della Scolastica), dall'altro nella prospettiva dello sforzo tenace e gigantesco che Cassiodoro andava compiendo per lasciare una salda base filosofica e  spirituale all'Occidente, in vista di una bufera che avrebbe, forse, provocato un ristagno culturale dalla durata imprevedibile.

Quest'ultimo aspetto dell'attività letteraria e di Cassiodoro è, del resto, quello che ce lo rende più vicino e che ci dà la misura della sua statura intellettuale; forse perché sentiamo, in qualche parte del nostro spirito, che i tempi verso i quali stiamo andando presentano delle forti somiglianze con quelli che battevano alle porte della più tarda antichità; e che noi pure, pertanto, ci troviamo a dover riflettere sulla necessità di riorganizzare le nostre basi culturali e spirituali, al fine di tramandarne l'eredità alle generazioni che verranno - dopo che sarà passata la bufera.