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L'ideologia del mutamento e il confronto fra tradizione e novità

di Carlo Galli - 16/02/2008


Se il moderno oscilla tra stasi e cambiamento


Nell´ambito politico, la dialettica tra Bene e Male si presenta nel fronteggiarsi di tradizione e rivoluzione, di conservazione e innovazione, di stabile identità e di metamorfosi infinita

La vertiginosa ebbrezza del nuovo e l´abissale profondità del sempre identico; la libertà da ogni legame e l´adesione a ciò che permane; il presente come eterno futuro e il passato come eterno presente; questi due volti dello Spirito si fronteggiano in ambito filosofico fino da Parmenide e Eraclito, dalle rispettive immaginazioni dell´immutabilità dell´Essere sempre identico a se stesso e dello svanire di ogni stabile identità nel perenne movimento e nei suoi milioni di attimi che incessantemente si cancellano e si superano. La percezione di questa ineliminabile duplicità si ripresenta nel corso della storia del pensiero; ad esempio, nel 1839 Feuerbach contrapponeva la sapienza biblica per cui non vi è nulla di nuovo sotto il sole, alla filosofia tedesca - Hegel in particolare - per la quale l´esperienza umana non è che un susseguirsi di novità, il corteo bacchico della ragione, un continuo cambiamento di condizioni e di interpretazioni.
È certo che in particolare l´età moderna ha avuto come propria legge di sviluppo la rottura d´orizzonti, l´apertura di spazi, il tracciare nuove rotte in mari continuamente scoperti. Non a caso nel Manifesto Marx scrive celebri pagine sulla potenza trasformatrice del capitalismo, sul ruolo rivoluzionario della borghesia e sullo sradicamento e il sovvertimento che essa introduce nella storia dell´umanità; e per questa via gli si fa presente uno dei modi di funzionamento della modernità: la rivoluzione economica e sociale come miccia che innesca il progresso, il quale è a sua volta la vera legge della storia. Il cambiamento e la novità - non l´immutabilità dell´Essere - sono di fatto il Bene.
Nell´ambito politico questa dialettica si presenta nel fronteggiarsi di tradizione e rivoluzione, di conservazione e innovazione, di stabile identità e di metamorfosi infinita. Fino da Bacone che si poneva come obiettivo la costruzione di una nuova logica, e da Cartesio che vedeva negli edifici del mondo antico solo cumuli di rovine, e particolarmente fino da Hobbes che negava che l´antichità dovesse essere oggetto di venerazione, si fa evidente la propensione alla novità, al cambiamento, che percorre l´età moderna e si fondano le basi teoriche che avrebbero consentito di concepire un atto come la rivoluzione francese, la sua lotta contro la tradizione e il peso dell´eterno passato. Una propensione che è ottimistica apertura alla possibilità, allo sviluppo: nulla è scritto per sempre, tutto può e deve cambiare; non c´è blocco della storia che non possa essere sbloccato, superato di slancio; non c´è contraddizione che non possa essere risolta. Il volto della storia è potenzialmente antropomorfo.
La moderna propensione al nuovo è, certo, anche apertura al conflitto: in tempo di rivoluzione ciò che antico è anche nemico, perché si oppone alla sola vera legittimità, il cambiamento. Del pensiero progressivo del quale sono portatori borghesi e proletari, avversari tra di loro ma uniti (almeno teoricamente) contro le forze della reazione, esistono necessariamente degli avversari, che fanno il controcanto al Ballo Excelsior del progresso. Quanto incantamento è contenuto nel disincanto dei moderni lo vide già Leopardi, non certo un reazionario ma un lucido interprete di una condizione umana nella sua essenza non modificabile; e lo avevano già visto anche i controrivoluzionari - fra gli altri, Maistre e Bonald - che coglievano quanto di violenza e di instabilità c´è nel fondare la politica sul movimento, quanto di nichilismo può essere implicito nel nuovismo; al quale contrapponevano - vanamente, peraltro - la lunga durata delle cose umane, la potenza di un passato che in ultima analisi si perde nella trascendenza, in una dimensione sottratta all´agire umano e alla sua forza trasformatrice.
Sulla dialettica fra stasi e cambiamento - e sull´inevitabile trionfo di questo - si è fondata la fase eroica del Moderno, la rivoluzione francese e il progressismo ottocentesco, tutto giocato sul binomio "ragione e nazione". E quella dialettica ha innervato anche tutta la politica del XX secolo, nel quale pure le contraddizioni del progresso si sono rese manifeste. Le ideologie novecentesche si orientavano nell´orizzonte della storia guardando al nuovo e al futuro - al sol dell´avvenire socialista i fascisti non contrapponevano il passato ma la giovinezza a cui era dedicato il loro inno (la parziale eccezione è stato il nazismo, che ha declinato il progresso come ritorno a una presunta natura e alle sue leggi spietate). Ma sul nuovo in lotta contro il vecchio si sono costruite anche le grandi svolte politiche democratiche; almeno là dove la democrazia è vitale, essa non è solo istituzioni, regole, forme, ma anche energia, ricorrente slancio per un nuovo inizio. Il New Deal di Roosevelt, la Nuova Frontiera di Kennedy, il New Labour di Blair, ma anche la svolta della socialdemocrazia tedesca a Bad Godesberg e, certo, anche il nuovo di destra, che dalla Thatcher a Reagan (per non parlare dell´Italia) non si presta a farsi passare per statico ma si presenta col piglio e il fascino del nuovo.
Il fatto è che il nuovo muove, mobilita - mentre le riflessioni, per quanto sagge, sui limiti dello sviluppo, e sulla decrescita, deprimono; del resto, anche l´Identità, tema politico oggi certamente fortissimo, non si manifesta come permanenza del sempre uguale ma come nuova interpretazione di antiche radici. Il nuovo piace perché ha cuore antico, perché ogni appello idealistico e volontaristico al movimento - al superamento di un blocco che è arduo, ma che "si può fare" - fa affiorare un bene che oggi sembra sempre più raro, un´energia che pare disperdersi: l´entusiasmo, la speranza, l´azione. Illusioni, forse; ma di esse vive, da sempre, l´umanità.