Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il Sacro. Ieri e oggi. Intervista a Julien Ries

Il Sacro. Ieri e oggi. Intervista a Julien Ries

di Marco Politi - 16/02/2008

Marco Politi intervista lo storico e teologo Julien Ries riguardo i suoi numerosi studi sulla preistoria della religione e sull’evoluzione dei simboli e del sacro nella civiltà umana.
È opinione di Ries che l’
Homo erectus, grazie al suo sapere tecnico e alla consapevolezza di possedere capacità creativa, possedeva una coscienza simbolica. Tale coscienza rappresenta il primo stadio del sacro, dell’idea religiosa. Ma l’idea che vi sia una realtà ultraterrena sembrerebbe più tarda: essa risale a circa 90 mila anni addietro, quando compaiono le prime sepolture con oggetti e alimenti destinati alla vita dopo la morte. Secondo Ries negli ultimi anni i simboli e i miti millenari dell’uomo sono stati soppiantati da altri: dapprima le grandi mitologie politiche quali il mito della razza o quello della lotta di classe, oggi dai simboli del consumismo veicolati dalla pubblicità.

All’origine sta un ciottolo tagliato solo da un lato. Tanti pezzi di pietra lavorati così, scoperti accanto a crani umani di due milioni di anni fa nella regione di Olduvai in Tanzania e a est del lago Turkana in Kenia. Sono le tracce più antiche dell’Homo habilis. Le tracce primordiali del pensiero. «La scelta del materiale per solidità, qualità e colore dimostra che quest’uomo sa progettare, sa come fabbricare un utensile, ha un’idea di simmetria e quindi ha una nozione del simbolico», spiega Julien Ries.
Antropologo di fama mondiale, studioso del sacro, sacerdote e docente per tre decenni all’Università cattolica di Nuova-Lovanio, l’ottantottenne Ries è venuto a prendermi alla stazione con un vecchio cappotto nero e un colbacco accartocciato. [...] «Quattrocentomila anni dopo - racconta Ries - il taglio sempre più elaborato delle selci ci rivela una coscienza che si sviluppa. L’Homo erectus ha il linguaggio per trasmettere le tecniche e ha la consapevolezza di essere creatore». Ma dove c’è coscienza simbolica, c’è anche la prima esperienza del sacro: l’Homo symbolicus è Homo religiosus.
Il 19 febbraio lo studioso prenderà la parola all’Università cattolica di Milano in occasione della presentazione dell’Opera Omnia per i tipi di Jaca Book.

Professor Ries, cos’è il simbolo?
«Symbolon in greco è una tessera spezzata in due parti. Rimettendole insieme, due persone si riconoscevano. Quindi significa un oggetto visibile che al tempo stesso rimanda ad una realtà che non si vede. Il simbolo è essenziale per l’identità dell’uomo. Partendo da una cosa che si vede, rimanda ad una realtà che sorpassa l’essere umano, il Trascendente».

Qual è il simbolo più antico?
«La volta celeste. Gettando lo sguardo verso il cielo, l’uomo fa l’esperienza del cosmo, del movimento degli astri, del sole, della luna. E da lì in poi si cristallizzeranno attraverso i millenni altri simboli importanti: la montagna, che congiunge terra e cielo, l’acqua, l’albero, il fuoco».

In quale momento si presenta alla coscienza dell’uomo l’idea che vi sia qualcosa di ultra-terreno?
«Circa novantamila anni fa, con le prime sepolture. Il cadavere messo in posizione accovacciata, gli oggetti e gli alimenti posti accanto rivelano di una sopravvivenza dopo la morte».

L’Aldilà precede dunque il Divino?
«La coscienza della Divinità apparirà più tardi, nel Neolitico, quando l’uomo fabbrica le prime statue, che sono la Dea madre e il Toro».

Sul Sacro e i Simboli lei ha scritto tantissimi libri, ma non ha l’impressione di essere giunto alla fine di una lunghissima era storica? Dopo millenni tutti quei simboli, elencati come primari e che hanno nutrito l’immaginario di tante civiltà dall’Europa alla Cina, dall’Africa all’India, alla Meso-America, non stanno tramontando? Per le nuove generazioni il cielo è diventato un’autostrada di aerei e di satelliti, l’acqua è un rubinetto, non c’è più un giovane urbanizzato che abbia visto una sorgente, le montagne sono meta di escursioni, il fuoco viene dal beccuccio del gas e gli alberi fanno da decorazione nelle strade. Niente è più motore dell’immaginario.
«Evidentemente siamo in presenza di una grande mutazione. L’uomo antico era impressionato dalla vegetazione, dalla tempesta, dal fulmine, da tutte le manifestazioni del cosmo. Viviamo in un’epoca desacralizzata, eppure non è andato perduto il linguaggio simbolico».

Simboli, miti e riti come si reincarnano nell’epoca contemporanea?
«Nel linguaggio pubblicitario ad esempio. O nelle grandi mitologie politiche del Novecento e della stagione attuale. Il nazismo con il mito della razza, il comunismo con il mito della lotta di classe, il mito della mondializzazione, il mito del neoliberismo, che fa scoppiare le società con il gap tra i poveri e i ricchi. O il mito della missione dell’America». [...]

Lei ha scritto che l’uomo occidentale desacralizzato rischia un impoverimento drammatico, perché perde il valore del simbolo come richiamo alla realtà profonda dell’esistenza. Forse per questo tanti guardano all’Islam o alle religioni orientali?
«Direi che l’Islam attrae perché è una religione che dona all’uomo la coscienza del mistero in cui è collocato e gli offre simboli interiorizzati. La preghiera, ad esempio, comporta la purificazione con l’acqua e si esprime attraverso vari gesti fino alla genuflessione totale».

E l’Asia?
«L’Oriente affascina precisamente per la straordinaria ricchezza del suo simbolismo. Mi torna in mente, in uno dei miei viaggi in India, l’immagine di un camion di operai che passa dinanzi ad un tempio e tutti si alzano in piedi giungendo le mani e chinando il capo. Poi la sera la stessa gente andava nel tempio, carica di fiori, per offrirli alle divinità». [...]

La sete di sacro si esprime anche nel cristianesimo attuale in quei gruppi che sottolineano particolarmente la promessa di salvezza. Possono essere movimenti all’interno delle Chiese storiche - i neopentecostali o le varie associazioni carismatiche - oppure le sette neoevangeliche. In che consiste il loro successo?
«Nell’offrire una comunità all’individuo moderno, abbandonato solo nella società. E nel dare una promessa di felicità, che poi certe sette non riescono a garantire sopprimendo magari la libertà degli aderenti».

Vuol dire che al fondo, nella nostra epoca, permane un enorme bisogno di salvezza?
«Essere salvati significa partire verso un’altra vita, quando la nostra esistenza è piena di difficoltà e di affanni. Salvatori erano già chiamati i sovrani ellenistici tre secoli prima della nostra era, salvatrici erano considerate certe divinità orientali durante l’impero romano, nel nome Cristo Salvatore si sono riunite le prime comunità cristiane celebrando l’eucaristia e la resurrezione».

Dalla piccola canonica, dove Julien Ries vive accudito da una suora gentile, si vede un prato verdissimo. Ogni tanto, confida, vi passano dei leprotti. Il vecchio professore prende dalla cantina una bottiglia di Borgogna vecchia di quarant’anni. Anche offrire il vino e un po’ di formaggio all’ospite è un rito. «Non credo - mormora sorridendo - che i nostri contemporanei finiranno in un deserto privo di simboli. L’uomo non può farne a meno per la sua identità. Pensiamo alle masse di giovani, che riscoprono lo spazio sacro mettendosi in pellegrinaggio. A Lourdes, a Compostela, a Loreto. Persino la preoccupazione per l’ecologia esprime un bisogno di salvezza. Salvezza dell’ambiente e della vita dell’uomo. E così torniamo ai grandi simboli primordiali. L’attenzione per la terra, per l’acqua, per l’aria è il segno di una nuova sensibilità dei giovani per il simbolico».