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L’impero perfetto. La tolleranza la chiave del potere mondiale?

di Federico Rampini - 18/02/2008



I dirigenti cinesi studiano in seminari a porte chiuse i segreti che nei secoli hanno favorito l´ascesa delle potenze. E gli errori che ne hanno causato la decadenza e la fine. Ora un libro di una studiosa sino-americana di Yale sembra aver trovato una risposta a questi quesiti
"Cos´altro provocò la rovina di Atene, se non il fatto che disprezzava i popoli conquistati?"
"Nessuna società fondata sulla purezza razziale o la pulizia etnica è mai riuscita a dominare"

Pechino. Alla vigilia dell´ultimo congresso del partito comunista cinese uno storico dell´Accademia delle scienze sociali è stato invitato a Zhongnanhai, l´inaccessibile residenza dei massimi leader del regime, a pochi metri dalla Città Proibita. Il tema del seminario a porte chiuse per i vertici della nomenklatura: come sono cresciuti i più importanti imperi della storia, e le cause della loro decadenza. A convocare quella sessione di studio è stato Hu Jintao, segretario generale del partito e presidente della Repubblica popolare. Da quando Hu è diventatoil numero uno del regime nel 2002, ha invitato degli storici a tenere conferenze nel palazzo del potere quarantatré volte, sempre sullo stesso tema. Un´ossessione imperiale.
L´organizzazione di questi seminari rivela un volto inedito della classe dirigente di Pechino. Mentre nel linguaggio ufficiale Hu Jintao pratica la modestia confuciana - ama definire ancora la Cina una «nazione emergente», persegue una «convivenza armoniosa» nei rapporti fra gli Stati - in realtà Pechino si allena per un ruolo di leadership. Il capo della nazione più popolosa del pianeta vuole capire i punti di forza degli imperi passati, ed evitare di ripeterne gli errori. Le cause dell´ascesa e della caduta delle superpotenze, ovvero la ricerca dell´Impero Perfetto, sono anche il tema di un sorprendente documentario storico trasmesso dalla tv di Stato cinese, la Cctv. La maxiproduzione in dodici puntate ha approfondito la parabola di nove superpotenze degli ultimi cinquecento anni, dalle conquiste spagnole al Reich tedesco, dall´impero britannico alla Pax americana. In quel documentario è sparita l´interpretazione marxista della storia, non c´è traccia della propaganda anti-imperialista in auge ai tempi di Mao Zedong. L´autore della sceneggiatura, Mai Tianshu, spiega che lo scopo è «apprendere le lezioni del passato per illustrare all´opinione pubblica gli scenari del nostro futuro, ciò che dobbiamo imparare dal successo di certe società occidentali».
Agli interrogativi che assillano Hu Jintao dà una risposta un´autorevole studiosa cinese con passaporto americano. È Amy Chua, docente alla Yale Law School e già autrice di importanti studi sui conflitti internazionali e la globalizzazione. Di Amy Chua è appena uscito negli Stati Uniti un saggio che coincide curiosamente con i dibattiti a porte chiuse fra i massimi dirigenti di Pechino. S´intitola Day of Empire, il Giorno dell´Impero. Ha un sottotitolo esplicito: «Come le iper-potenze conquistano un´egemonia globale e perché la perdono». Alle sue qualità di studiosa Amy Chua aggiunge una biografia emblematica. I suoi genitori vengono dalla diaspora cinese nelle Filippine, da bambini accolsero con gioia le truppe di liberazione americane agli ordini del generale MacArthur che cacciarono i giapponesi. L´America era il mito dei Chua, e il sogno si realizzò nel 1961 quando il padre vinse una borsa di studio per il Massachusetts Institute of Technology. La famiglia Chua è un esempio di integrazione riuscita delle minoranze etniche nel melting pot americano. Il padre è diventato un matematico celebre, uno dei più noti studiosi mondiali della "teoria del caos". Due sorelle hanno avuto una brillante carriera accademica a Harvard.
La venerazione per l´America non ha intaccato la forte identità culturale delle origini. «Da bambine - racconta Amy Chua - eravamo obbligate a parlare solo cinese in casa. Per ogni parola inglese che ci sfuggiva la punizione era una violenta bacchettata sulle dita. Dopo la scuola i pomeriggi erano dedicati alla matematica e al pianoforte, mai potevamo accettare un invito dai nostri compagni americani. Quando riuscii a conquistare la medaglia d´argento in un concorso di storia fra tutti gli studenti del mio liceo, alla premiazione mio padre mi disse furibondo: non osare mai più umiliarmi in questo modo (non ero arrivata prima). Mia madre ci parlava spesso della magnifica storia di cinquemila anni di civiltà cinese e della superiorità della nostra cultura. Difendeva la purezza del sangue cinese e ci spiegava che sarebbe stato un orrore diluirlo con dei matrimoni misti». Questo retroterra spiega l´interesse particolare della Chua a scavare nella storia per anticipare gli scenari del Ventunesimo secolo. Le domande che si pone sono le stesse di Hu Jintao. È iniziato il declino dell´egemonia americana? E la Cina può affermarsi come l´iper-potenza alternativa?
Amy Chua non ha la presunzione di trovare la risposta da sola; né si illude che esista un ingrediente passe-partout per spiegare l´ascesa e il declino degli imperi. La sua analisi è raffinata, e attinge agli studi di tanti altri specialisti. Individua una costante, un minimo comune denominatore. Dall´impero romano a quello di Gengis Khan, dalla dinastia Tang all´Inghilterra vittoriana, per finire con gli Stati Uniti del Ventesimo secolo, ogni iper-potenza all´apice della sua ascesa ha un alto grado di tolleranza, ha la capacità di attirare le élites dei popoli dominati e di assorbirne i valori utili. A lungo termine però la stessa tolleranza contiene il germe della sua autodistruzione. Oltre un certo livello di espansione egemonica e di cooptazione delle altre etnie, l´iperpotenza si dilata fino a temere la perdita di identità e coesione. Il declino coincide regolarmente con la chiusura verso l´Altro, l´esclusione e l´intolleranza.
Dopo aver esaminato e digerito una mole impressionante di studi, Amy Chua presenta la sua tesi con efficacia. L´impero romano sa guadagnarsi la fedeltà delle élites nelle terre conquistate offrendo straordinarie opportunità di mobilità sociale fino ai vertici del potere. Traiano, Adriano e Marco Aurelio sono originari delle "provincie", come Seneca e Tacito. L´imperatore Claudio in un discorso al Senato romano nel 48 dopo Cristo trae questa lezione dalla decadenza della Grecia: «Cos´altro provocò la rovina di Sparta e Atene, se non il fatto che disprezzavano i popoli conquistati in quanto barbari?». Il grande storico inglese Edward Gibbon considera fondamentale per la forza di Roma il fatto che «i nipoti dei Galli che hanno combattuto Giulio Cesare ad Alesia finiscono col comandare legioni, governare provincie, vengono ammessi nel Senato romano. La loro ambizione, lungi dall´indebolire lo Stato, contribuisce alla sua sicurezza e alla sua grandezza». Dalla Britannia al Nordafrica l´aspirazione dei soggetti conquistati è quella di diventare cittadini dell´impero. E i romani sono flessibili nell´adottare conoscenze e tradizioni dei popoli sconfitti se li considerano utili. La medesima tolleranza però «semina i germi della disintegrazione». La caduta dell´impero romano è il risultato di un concorso di cause - dilatazione geografica eccessiva, collasso militare, crisi fiscale, invasioni barbariche, corruzione morale, avvento di nuove religioni. Vi si aggiunge l´«eccesso di diversità». I popoli delle periferie più lontane mantengono un´identità irriducibile e secessionista. Roma si sente minacciata e imbocca la strada della persecuzione. È l´esempio di Costantino, che dopo la conversione al cristianesimo impone la religione di Stato e rompe con la tradizione del pluralismo delle fedi.
Una parabola analoga è quella della dinastia Tang che governa la Cina dal 618 al 907 dopo Cristo. Nel suo massimo fulgore, sotto l´imperatore Taizong, «è la dinastia più tollerante delle culture, delle religioni e delle influenze straniere che la Cina abbia mai avuto». Seguaci di Zoroastro o del manicheismo, ebrei e musulmani, cristiani nestoriani, hanno pari dignità dei buddisti. La sua forza militare è esaltata dalla cooptazione di generali stranieri e delle loro armate. La Via della Seta diventa una fantastica autostrada dell´apertura sul mondo esterno. La capitale imperiale Changan (l´odierna Xian) è una metropoli cosmopolita senza eguali: un terzo della popolazione è straniera. Quando nell´impero dilatato appaiono le prime crepe perché tibetani e uiguri rifiutano l´assimilazione, la xenofobia s´impadronisce dei Tang. Le grandi vie di comunicazione dell´Asia centrale vengono chiuse. Prevale un taoismo fanatico che perseguita le altre credenze. La Cina precipita nell´isolazionismo. Ne uscirà cinque secoli dopo grazie a un altro fautore della tolleranza, l´imperatore mongolo Khublai discendente di Gengis Khan. La vicenda di Marco Polo ingaggiato come alto funzionario nella città di Yangzhou è esemplare: in una selezione meritocratica il Khublai Khan attinge ai migliori talenti stranieri per reclutare i dirigenti della sua amministrazione pubblica. La Pax mongolica fa della Cina il centro di una economia globale, fioriscono i commerci internazionali e il progresso tecnico. Nel Quattordicesimo secolo il declino dei mongoli coincide con l´abbandono dei principi di tolleranza religiosa che erano stati seguiti fin dai tempi di Gengis Khan.
Anche nell´ascesa dell´impero britannico conta la capacità di tutelare le minoranze e di accogliere i "diversi". Alla fine del Diciassettesimo secolo Londra si afferma come la piazza finanziaria più potente del mondo grazie all´afflusso di ebrei sefarditi cacciati dalla Spagna e di ugonotti perseguitati dalla Francia. Dal 1689 fino alle guerre napoleoniche, la Francia in teoria ha più risorse dell´Inghilterra: ha un´agricoltura più ricca, una popolazione quattro volte superiore. Gli inglesi trionfano per la potenza finanziaria mobilitata da famiglie ebree come i Medina, Goldsmid, Montagu, Stern, Rothschild. Cinquantamila ugonotti emigrati dalla Francia portano a Londra preziose competenze imprenditoriali. Decisiva è la capacità di integrare gli scozzesi: sono i padri della rivoluzione industriale (l´inventore del motore a vapore James Watts, il fondatore del pensiero economico Adam Smith), e sono il nerbo dell´esercito imperiale. La svolta negativa nelle fortune britanniche si verifica in India. Alla prima fase della colonizzazione - rapace ma tollerante dei costumi locali - subentra nell´Ottocento l´affermarsi di un movimento evangelico dedito al proselitismo cristiano, bigotto, puritano e razzista. Le élite indiane si sentono discriminate rispetto a quelle delle colonie bianche (Canada, Australia, Nuova Zelanda) a cui vengono concesse le libertà politiche. Nel Novecento sia la Germania che il Giappone tentano di spodestare la Gran Bretagna ma falliscono. «Nessuna società fondata sulla purezza razziale, sulla pulizia etnica o sul dogmatismo religioso è mai riuscita a dominare il mondo», osserva Amy Chua.
Sono invece gli Stati Uniti a sostituire la Gran Bretagna, anche nel ruolo di calamita dei talenti cosmopoliti. Nel 1816 l´America ha 8,5 milioni di abitanti, la Russia 51 milioni. Nel 1950 gli americani sono diventati 150 milioni, i russi solo 109 milioni. È grazie agli scienziati ebrei in fuga dalla Germania nazista e dall´Italia fascista che l´America conquista per prima l´arma nucleare. Fino ai nostri giorni il dinamismo economico e la capacità di innovazione degli Stati Uniti devono molto al drenaggio dei cervelli dal Vecchio continente e dall´Asia. Il 52 per cento delle nuove aziende che nascono nella Silicon Valley californiana hanno un fondatore straniero: l´ungherese Andy Grove alla Intel, l´indiano Vinod Khosla alla Sun Microsystems, il cinese Jerry Yang a Yahoo, il russo Sergey Brin a Google. Dopo l´11 settembre 2001 i segnali di eccessiva "dilatazione" dell´iperpotenza americana si moltiplicano. In parallelo affiora la tentazione dell´intolleranza, del ripiegamento: un segnale premonitore della decadenza.
La Cina si appresta a superare gli Stati Uniti in molti indicatori di potenza economica. «Ma può sorpassarli anche nella tolleranza strategica?» si chiede Amy Chua. La sua risposta è sfumata: non ancora, e non questa Cina. Per quanto stia attirando frotte di manager stranieri, e un prezioso flusso di ritorno della propria diaspora qualificata, la Repubblica popolare non è pronta a diventare una terra di immigrazione di talenti. Non ha definito una identità cinese così aperta e inclusiva da potervi accogliere altre etnie. E finché rimane «un regime autoritario noto per schiacciare il dissenso» non potrà resuscitare l´appeal cosmopolita che ebbero la dinastia Tang e il Khublai Khan. Nella sua ricerca degli ingredienti per l´Impero Perfetto del Ventunesimo secolo, Hu Jintao dovrebbe aggiungere la democrazia e i diritti umani fra i temi dei prossimi seminari. A porte aperte.