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La fede in Gesù esclude che si possa parlare della fede di Gesù?

di Francesco Lamendola - 19/02/2008

 

 

Gesù aveva fede?

Detta così, può sembrare una domanda gratuitamente provocatoria. Certo che Gesù aveva fede nel Padre divino: altrimenti come avrebbe potuto insegnare ai suoi discepoli che se avessero avuto tanta fede quanto un granello di senape, avrebbero potuto dire a quel monte: «Spostati di qui a lì» (Matteo, 17, 20), e quello si sarebbe spostato?

Ma quel tipo di insegnamento non riguarda la fede di Gesù: dimostra soltanto che, per Gesù, nulla era impossibile per chi ha una grande fede in Dio.

Ma lui, Gesù, aveva fede?

Secondo san Tommaso d'Aquino e il pensiero scolastico, la risposta è no.

Il motivo di questa posizione non è difficile da comprendere: la fede è una possibilità dell'animo umano nei confronti del trascendente; una disponibilità a credere in quella realtà invisibile che non si può esperire con i sensi ordinari, ma che viene postulata come certa dall'insegnamento delle religioni e che a cui l'anima, con l'aiuto soprannaturale della grazia, può avvicinarsi fino al punto di farne l'esperienza interiore.

Ma Gesù, dal punto di vista della teologia cristiana, non era un semplice uomo: egli era il Dio-uomo, il quale, pur condividendo con gli umani la dimensione materiale dell'esistenza, proveniva dal Padre ed esisteva, in lui, ab aeterno.

Né la creazione sarebbe stata possibile senza di lui, né lo sarebbe stata la Redenzione dell'umanità. Come dice il Vangelo di Giovanni (1, "; 1, 10): «Egli era al principio con Dio. Per mezzo di lui Dio ha creato ogni cosa. Senza di lui non ha creato nulla.(...) Egli era nel mondo, il mondo è stato fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l'ha riconosciuto».

Pertanto, secondo San Tommaso, Gesù non poteva avere la fede, perché egli era compartecipe della natura divina: un po' come il Sole, che illumina i pianeti ma che non riceve da altri la propria luce, perché è luce in se stesso.

È facile vedere, a questo punto, come la domanda che ci eravamo posta all'inizio investa problemi terribilmente difficili e, inevitabilmente, l'idea che ci siamo fatta di Gesù. Se egli era soltanto un uomo, è più che legittimo parlare della fede di Gesù e interrogarsi sulla sua natura. Lasciamo da parte, in questa sede - per non allargare a dismisura la nostra riflessione - se Gesù, in una tale  prospettiva storicistica e naturalistica, avesse fede unicamente nel Padre, o anche in se stesso, ossia nella propria natura e missione divina; perché ci allontanerebbe troppo dal nostro assunto e investirebbe l'idea che, secondo noi, Gesù aveva di se stesso, sollevando problemi teologici di enorme portata.

Restiamo perciò su un terreno più circoscritto e vediamo la seconda alternativa, ala quale vogliamo dedicare la nostra attenzione: che Gesù, cioè, non fosse solamente un uomo; e che tuttavia partecipasse della natura umana non in senso puramente esteriore e quasi apparente (come lo era per l'eresia ariana), ma con tutta la sua persona, ossia fisicamente e spiritualmente; lasciando impregiudicata la realtà di una sfera superiore, divina, alla quale egli partecipava.

La nostra, infatti, vuole essere una riflessione puramente teologica.

Se Gesù era un uomo come gli altri, infatti, la domanda sulla natura della sua fede non può riguardare che la storia o, tutt'al più, la psicologia: ammesso che si possa ricostruire la psicologia di un personaggio vissuto due millenni fa e del quale conosciamo, in realtà, così poco, al punto che di lui è possibile dire tutto e il contrario di tutto: che si riteneva il Messia oppure no, che intendeva fondare una nuova religione oppure no.

Inoltre, quasi tutto quello che sappiamo di lui, lo sappiamo dal racconto dei suoi seguaci o dal racconto dei seguaci dei suoi seguaci: cioè da persone che interpretavano ogni suo gesto e ogni suo detto alla luce di avvenimenti posteriori alla sua morte (resurrezione, apparizione agli apostoli, ultimi insegnamenti, ascensione, discesa dello Spirito santo). E quindi, sulla base di tali notizie, appare estremamente arduo, se non impossibile, tentare di stabilire esattamente a chi o a che cosa si rivolgesse la fede di Gesù.

Il punto di vista teologico, in questo senso, presenta un certo vantaggio rispetto a quello storico. Se ammettiamo, anche come semplice ipotesi di lavoro - "semplice", per modo di dire! -, che Gesù non fosse un uomo come gli altri, ma qualche cosa di profondamente diverso, pur vivendo pienamente la condizione umana con tutte le sue limitazioni e la sua problematicità (ad esempio, siamo informati che, alla notizia della morte del suo amico Lazzaro, Gesù «fu scosso dalla tristezza e dall'emozione» e che, alla fine, «pianse»: Giovanni, 11, 33-35), allora le cose cambiano. Dal punto di vista teologico, la questione della fede di Gesù appare perfettamente pertinente e, forse, non impossibile da risolvere. Ad una condizione, però: che rinunciamo alla posizione aprioristica di San Tommaso e riconosciamo che Gesù, profondamente immerso (pur trascendendola) nella condizione umana, conosce la possibilità del dubbio e, pertanto, si trovasse anch'egli nella condizione di dover lottare per conservare la propria fede.

Non alludiamo, qui, alle famose parole da lui pronunciate sulla croce: «Elì, Elì, lemà sabactàni» («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»: Matteo, 27, 46); perché, con buona pace di quanti la pensano come il sensazionalistico Cristo non voleva morire dell'ebreo americano Hugh J. Sconfield (traduzione italiana Roma, Edizioni Tindalo, 1965), oggi gli studiosi seri ammettono pressoché unanimemente che quello non fu un grido di disperazione, ma una estrema, coraggiosa citazione delle Sacre Scritture. Gesù aveva citato, nella sua lingua materna - l'aramaico - il Salmo 21, che inizia con quelle parole, ma poi prosegue in un inno di lode al Signore e una dichiarazione di amore e fiducia incondizionati in lui. Solo leggendo l'intero Salmo se ne può comprendere il senso complessivo: che non è affatto di disperazione, ma di gioia e di esultanza. Pertanto si può affermare che Gesù, quasi certamente, non morì con l'angoscia e la paura di chi avrebbe voluto essere salvato in extremis da Dio, ma con la ferma convinzione di affrontare un sacrificio necessario all'attuazione del piano divino.

Gli esegeti di ispirazione cristiana si spingono oltre e sostengono che il salmo, in cui si descrivono le sofferenze del giusto che soffre per i peccati di tutti, è un salmo messianico che prefigura chiaramente la passione e la morte di Cristo.

Ora, è certamente vero che il Salmo 21 riecheggia la grande profezia di Isaia, 52, 13, e più ancora quella di Isaia, 52, 11-12:

 

      "Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce

      e si sazierà della sua conoscenza,

      il giusto mio servo giustificherà molti,

      egli si addosserà la loro iniquità.

      Perciò io gli darò in premio le moltitudini,

      dei potenti egli farà bottino,

      perché ha consegnato se stesso alla morte

      ed è stato annoverato fra gli empi,

      mentre egli portava il peccato di molti

      e intercedeva per i peccatori."

 

Anche Giuseppe Ricciotti, nella sua famosa Vita di Gesù Cristo (Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1952; 1989, pp. 691-692), si mostra di questa opinione, quando afferma:

 

"Più che un'esclamazione in proprio, queste parole erano una citazione (…). Essendo una citazione, il loro senso pieno è dato dall'intera composizione di cui sono l'inizio. Quel salmo infatti si riferisce al futuro Messia, di cui preannunzia  i supremi dolori, e Gesù recitandone l'inizio sulla sua croce intendeva applicarlo a se stesso. (…) Gesù dunque, affermando nuovamente con la sua esclamazione di essere il Messia, ne offriva una nuova prova nel confronto fra la profezia citata e l'avveramento di essa ch'egli mostrava in se stesso."

 

Tuttavia, questo modo di ragionare non ci convince del tutto.

Infatti, se fosse vero che per "inverare" una profezia basta richiamarsi ad essa quando ci si trovi in una situazione che la richiama, si potrebbe obiettare che chiunque può essere tentato di predisporre il proprio futuro in modo da farlo coincidere con una determinata profezia: senza che ciò avvalori la profezia stessa, né che legittimi colui che vi si sia identificato.

Di fatto, tutto quel che si può dire con certezza è che Gesù intendeva identificarsi con la figura del  misterioso Servo di Dio sofferente, di cui parla Isaia e che ritorna nei versi del Salmo 21; di più non è possibile affermare, se non con un atto di fede.

 

Quando ipotizziamo che Gesù visse anch'egli, come tutti gli esseri umani, la propria fede in modo problematico, non ci riferiamo a quell'episodio, ma al fatto che egli era soggetto alle passioni umane (come dimostra, fra i tanti, l'episodio di Lazzaro), anche se possedeva una straordinaria forza interiore che gli permetteva di dominarle; e che, pertanto, anche per lui la vita era una ricerca, una tensione, uno sforzo - anche se vittorioso - verso la fede.

La cosa è particolarmente evidente nell'episodio del Gethsemani, quando Gesù, dopo l'ultima cena con i suoi apostoli, si ritira in preghiera e supplica Dio di allontanare da lui il calice dell'estrema sofferenza, che sente minacciosamente avvicinarsi. In base alle descrizioni dei tre Vangeli sinottici (Matteo, Marco e Luca), siamo in grado di affermare che Gesù, quella notte, fu quasi travolto da un'ondata di tristezza e angoscia. Non paura; ma bensì tristezza e angoscia: che sono, evidentemente, passioni umane, umanissime.

È ancora il Ricciotti a sottolineare, e a ragione, quel momento-chiave della condizione umana della vita di Gesù (Op. cit., pp. 633-634):

 

"Facendo uno sforzo immenso, con il volto illividito, le ginocchia vacillanti, le braccia tese in cerca di sostegno, egli si staccò da essi [cioè da Pietro, Giacomo e Giovanni] quanto un lancio di sasso, e alfine stremato cadde sul suo volto pregando. Non era il modo di pregare solito ai Giudei, che stavano ritti; era l'accasciarsi a terra di chi non ha più forza di reggersi in piedi e vuole pregare prostrato giù nella polvere. Intanto i tre testimoni, certamente turbati anch'essi, osservavano quello stramazzato gemente: nella serenità plenilunare, alla distanza forse di una quarantina di passi (un lancio di sasso), essi potevano vedere e udire distintamente tutto. Lo stramazzato gemeva: Abba (Padre)! Tutto è possibile a te! Allontana questo calice da me! Tuttavia (sia fato) non ciò che io voglio, ma ciò che (vuoi) tu! Il calice era un'espressione metaforica, frequente negli scritti rabbinici, per designare la sorte assegnata a qualcuno; la sorte qui prevista da Gesù è la suprema prova attraverso la quale il Messia deve pervenire al trionfo, è l'ora decisiva in cui il chicco di grano caduto in terra si disfà e muore ma per sprigionare nuova vita.

"Quale differenza, pertanto, fra le disposizioni di spirito della domenica precedente e quelle di questa notte! Allora, nel Tempio, Gesù aveva prontamente e risolutamente respinto ogni titubanza davanti alla prova suprema; in questa notte, a pochi momenti dall'inizio della prova, egli non solo è titubante ma prega esplicitamente il Padre celeste affinché la prova sia risparmiata: tuttavia la preghiera è condizionata al beneplacito supremo del Padre e la volontà dell'uomo è subordinata alla volontà di Dio.

"Non mai, in tutto il resto della sua vita, Gesù appare così veracemente uomo…"

 

Ebbene, se Gesù era soggetto alle passioni come lo è ogni altro essere umano, anche la fede in Dio era per lui non una sorta di “scienza infusa” o di dono soprannaturale, ma una realtà problematica e conquistata giorno per giorno, anzi, letteralmente strappata alle evidenze contrarie: come appunto, si verificò nel senso di supremo abbandono la notte del Gethsemani.

 

Il teologo Carlo Molari ha messo bene a fuoco i termini della questione, in un intervento sul quindicinale Rocca della Pro Civitate Christiana del 1 maggio 2006, intitolato La fede di Gesù e la nostra fede in Gesù, del quale riportiamo alcuni passaggi significativi.

 

“San Paolo utilizza tre formule quando parla della fede in rapporto a Gesù: parla della nostra fde in Cristo, della fede di Cristo in Dio e della nostra fede in Dio vissuta in  Cristo. La seconda formula (in greco pistis Xristou, fede di Cristo), riferita soprattutto all’esperienza di Gesù in croce, è presente 8 volte nelle sue lettere: Fil. 3, 9;Rom. 3, 22, 26; Gal. 2, 16 (2 volte); Gal. 2, 20; Gal 3, 22; Ef. 3, 12. La prima formula (la fede in Cristo) è più frequente e si riferisce alla fede del discepolo in Gesù come Messia e Signore (cfr. ad es. Gal 2, 16; Rom 10, 14; Fil 1, 29; Col. 1, 15). La terza formula (la fede vissuta in Cristo) si riferisce alla fede in Dio esercitata dal discepolo per la testimonianza di Gesù e in simbiosi con la sua fede (es. Gal 2, 19-20; 3, 26).

“La maggioranza però degli esegeti, anche fra i più autorevoli, e quasi tutte le traduzioni (anche quella italiana della Cei), non distingue le diverse formule e le interpreta tutte nel senso della fede esercitata dal discepolo in Gesù come Messia e salvatore e come «icona di Dio» (Col 1, 15). Si pensa quindi che le formule si riferiscano sempre e solo alla nostra fede in Gesù (chiamata oggettiva perché Cristo glorificato ne è l’oggetto) e  mai alla sua fede in Dio(fede soggettiva). (…)

“Già H. Urs von Balthasar in un articolo che avviò la riflessione tra i cattolici sulla fede di Gesù (Fides Christi, in Sponsa Verbi, Morcelliana, Brescia, 1969, pp. 41-72) osservava che la fede è realmente cristiana, non solo quando Cristo ne è l’oggetto, bensì anche quando egli ne è il principio, il soggetto trascendente che con la sua grazia fa partecipare l’uomo alla sua fede. «La cosa più importante è il riconoscimento che la fede cristiana non può intendersi che come un inserimento nell’atteggiamento più intimo di Gesù» (Id. ib., p. 58). Gesù, infatti, «rende possibile la nostra fede, la fede cioè, che non deve abolire, ma perfezionare dal di dentro tutto l’atteggiamento veterotestamentario di fronte a Dio (cfr. Mt 5, 7). Il che può avvenire soltanto se Gesù non solo provoca in qualità di causa questo perfezionamento, ma lo vive per il primo come prototipo, e quindi riceve da Dio il potere salvifico di esprimere e di imprimere in noi questa sua esemplarità vissuta» (Id. ib., p. 48). È facile capire, osserva P. D. Dognin, come non valorizzando la fede di Gesù vengono trascurati due fatti fondamentali: l’unione profonda del discepolo con il crocifisso e la presenza in lui della vita di Cristo. Senza il riferimento alla fede di Gesù sulla croce, inoltre, la fede del discepolo verrebbe a poggiarsi esclusivamente sulla risurrezione di Gesù e non sulla fede esercitata da Gesù nella croce. La spiritualità cristiana acquista un carattere diverso. La fede che salva sarebbe la nostra fede in Gesù risorto e non la fede esercitata come abbandono fiducioso in Dio da Gesù sulla croce. Per cui di fatto il credente è giustificato «dalla fede di Gesù Cristo (che si espande) in tutti i credenti» (Rom, 3, 22). La fede che salva non è la nostra fede in Cristo bensì la sua fede in Dio che ha avuto nella croce la sua espressione suprema. È la fede di Gesù in Dio che salva, quella fede che il discepolo di Gesù esercita per la sua testimonianza, in virtù del suo Spirito e quindi in comunione con Lui. Il discepolo di Gesù vive la fede in Dio in simbiosi con la sua fede.”

 

Perciò, avviandoci a concludere, si può dire che la teologia, che ignorava addirittura il problema fin verso la metà del XX secolo (quando non lo negava addirittura, come fece esplicitamente San Tommaso nella Summa Theologiae (3a parte, quest. 7, a. 3), recentemente ha riscoperto tutta l’importanza di recuperare la consapevolezza della fede di Gesù in Dio e di vedere in essa il tramite privilegiato fra l’uomo e Dio.

Solo in questo modo, ossia riscoprendo l’umanità di Gesù anche nel campo della fede, si può arrivare a comprendere tutta la portata del mistero dell’Incarnazione. Anche in ciò, difatti, Gesù va visto dal credente innanzitutto come il Maestro, che indica agli uomini la strada da percorrere solo dopo averla tracciata, interamente e faticosamente, egli stesso per primo.