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Gli effetti morali dell'industrializzazione sono all'origine della crisi della famiglia moderna

di Francesco Lamendola - 20/02/2008

 

 

 

La famiglia si sta sfasciando sotto i nostri occhi.

Da tempo covava i sintomi di un profondo malessere; ma, in questi ultimi anni, la crisi è letteralmente esplosa, mandando in frantumi quella che da sempre era stata la cellula fondamentale della società: la famiglia.

Oggi, essa sopravvive quasi soltanto negli spot della pubblicità televisiva, quando le industrie vogliono reclamizzare un nuovo tipo di biscotti, di marmellata o di brioches preconfezionate (tutti prodotti che fanno malissimo alla salute, stracarichi di coloranti e conservanti delle peggiori specie) e ci presentano il quadretto felice e rassicurante della "tipica" famigliola mononucleare moderna - papà, mamma e due bambini belli, bravi e, possibilmente, biondi -, seduta intorno al tavolo della cucina, per consumare la prima colazione. Ossia, ci mostrano un qualche cosa che non esiste più, ma che esisteva - anche se i genitori non erano due fotomodelli e se i bambini non erano così biondi e così spensierati - sino a qualche anno fa.

Là dove ancora la famiglia resiste, sembra un fortino assediato dagli Apaches; e, quel che è peggio, minacciato all'interno da ogni sorta di pericolo. Oggi le bambinaie sono i prodotti della tecnologia - televisione, computer, videogiochi -, le mamme hanno ben altro a cui pensare e i papà, non parliamone nemmeno: è già tanto se qualcuno li vede al pranzo della domenica.

Le tensioni che covano all'interno del nucleo familiare sono sempre più forti; le spinte centrifughe, sempre più incontrollabili; il dialogo ridotto quasi a zero; la collaborazione, la fiducia reciproca, degradati a mero utilitarismo. Bastano le prime difficoltà per mandare in pezzi il grazioso quadretto e per spingere papà e mamma dagli avvocati; e poi, via, pronti a ricominciare e a rifarsi una nuova vita, con un altro uomo e un'altra donna.

I bambini? Nessun problema: con la mamma; e, ogni quindici giorni, un fine settimana in compagnia del padre. E poi, tra un allenamento di calcio e un corso d'informatica, chi lo sa se i piccoli se ne accorgono, che la loro famiglia non c'è più. Così almeno pensano gli adulti, per mettersi a posto la coscienza.

Invece se ne accorgono, eccome. Crescono fragili, nervosi, demotivati; s'imbrancano nella prima compagnia che capita loro a tiro, bella o brutta che sia, non appena raggiungono la pre-adolescenza; s'ingaglioffiscono nel consumismo più becero per annegare, tra un vestito firmato e uno sballo in discoteca, l'angoscia di non avere più un focolare accogliente che li protegga e li avvolga nel suo amore. E poi, a diciott'anni e un minuto, via a tutto gas con l'automobile (possibilmente, di grossa cilindrata) per provare l'ebbrezza della velocità, del rischio, della trasgressione: come recitava una canzone particolarmente idiota di Battisti e Mogol:

 

"E correre a fari spenti nella notte per vedere

se poi è così difficile morire…"

 

Oh sì, ce ne sono tanti di diciottenni che si dedicano, specialmente fra il sabato sera e l'alba della domenica, a questa specie di roulette russa sulle strade, annebbiati dall'alcol, dalla stanchezza e da qualche sostanza eccitante; e che coinvolgono, nel loro stupido gioco con la morte, anche coloro che passano di lì per caso, e che non c'entrano per niente.

Non che sia facile, oggi, essere genitori: anzi, non è mai stato così difficile.

I nonni non sono più un punto di riferimento; la scuola, meno che meno; spazi verdi, luoghi sicuri dove i figli possano giocare e divertirsi in modo sano, non si vedono più nemmeno al telescopio. E poi la fretta, la corsa, il cartellino da timbrare; e, terminato il lavoro, tante altre cose da fare: la seduta dall'estetista o sotto le lampade abbronzanti; la palestra per rassodare glutei e addominali; il sabato pomeriggio al più vicino centro commerciale, per comperare l'ultimo gingillo elettronico o l'ultima linea di scarpe e di stivali.

Tutte cose necessarie, per carità, anzi, indispensabili. Ve la immaginate, voi, la signora Rossi che si lascia surclassare in eleganza dalla collega dello sportello accanto; oppure il signor Rossi che, in dicembre, non è in grado di esibire un'abbronzatura degna del sole dei Caraibi? Impossibile; ma che cosa stiamo dicendo?, semplicemente impensabile. Sarebbe più facile ammettere che Berlusconi rinuncerà alle sue tre reti televisive nazionali, le metterà in vendita e poi devolverà l'intero ricavato  alla costruzione di orfanotrofi in Cambogia o in Mozambico. Sì: tanto vale mettersi ad aspettare il giorno in cui che la cometa di Halley, al suo prossimo passaggio, transiterà in ritardo sull'orbita calcolata dagli astronomi; oppure che la corrente dei fiumi invertirà il suo corso e rifluirà dalla foce verso la sorgente, come fanno i salmoni quando vanno a deporre le uova.

 

Ma quando, esattamente, è incominciata l'agonia della famiglia; e quale ne è stata la causa originaria?

A nostro avviso, non vi sono dubbi: il colpevole esiste e ha un nome, un cognome e una data: la rivoluzione industriale che ha investito la civiltà occidentale, tra la fine del XVIII e quella del XX secolo, in tutta l'Europa e il Nord America; e che poi, negli ultimi decenni, ha dilagato nell'intero orbe trerracqueo.

E non è stato solo il fatto che l'industrializzazione ha destrutturato la vecchia famiglia patriarcale, estesa, del mondo rurale, per sostituire ad essa la fragile e sradicata famiglia mononucleare inurbata, scaraventandola come una barchetta fra i marosi o, se si preferisce il paragone, abbandonandola come un bimbo inesperto in una foresta popolata di belve feroci. No; ma è stato soprattutto perché l'industrializzazione ha eretto a norma di vita la produzione e il consumo indefiniti; l'etica capovolta del successo ad ogni costo; la schiacciante prevalenza dell'agire sul contemplare, del prendere sul dare, dell'avere sull'essere.

Dall'avvento della società industriale e, in seguito, post-industriale, l'intera umanità è stata divisa drasticamente in due categorie, culturali ancor prima che sociologiche: i vincenti e i perdenti. Non è un caso che i grandi scrittori della fine dell'Ottocento e dell'inizio del Novecento - Svevo, Pirandello, Musil, Kafka, Proust, Joyce e Thomas Mann - abbiano messo al centro della loro riflessione questa mutazione antropologica. Compare la figura dell'inetto, del perdente, dell'«uomo senza qualità». Queste figure esistevano, forse, già prima; ma è in quegli anni che cominciano a crescere e  a moltiplicarsi in progressione geometrica: fedele specchio di una società che ha smarrito ogni valore di solidarietà, di armonia, di bellezza, di intimo benessere, per inseguire affannosamente, nevroticamente, i fasti di un "successo" e di un "benessere" che non portano la pace, l'appagamento, il riposo; ma che producono sempre più competizione, sempre più lotta, sempre più violenza.

Si obietterà che "perdente" e "vincente" sono categorie antropologiche vecchie quanto il mondo. Ed è vero: ma, prima della rivoluzione industriale,  appartenervi o meno non era frutto esclusivamente del brutale dato economico; e, se anche lo era, non incideva necessariamente sul livello di autostima dei singoli individui. Appunto perché gli individui esistevano ancora.

Oggi, nella società di massa (frutto, essa pure, dell'industrialismo e del suo effetto più immediato: l'inurbamento), si vale non solo per quello che si possiede invece che per quello che effettivamente si è, ma anche e soprattutto per quanto si appare. Se vai in televisione esisti, altrimenti sei nessuno. Se ti riconoscono per la strada e ti fermano per chiederti l'autografo, allora ciò significa che hai avuto successo nella vita; altrimenti, vuol dire che la tua vita è stata un fallimento. Tu stesso, per primo, ti senti un fallito. E giudicarsi dei falliti vuol già dire anche esserlo; mentre non è detto che lo si sia veramente, per il fatto di non potersi concedere i vestiti firmati e di non essere invitati alla televisione.

Come diceva Pasolini, il proletario e il sottoproletario sono morti quando hanno cominciato a desiderare di essere come i borghesi. Non a esserlo: ma a desiderare di esserlo. Perché noi finiamo per diventare quello che pensiamo di essere.

Più di vent'anni fa, in un contributo intitolato Il compito educativo del padre e della madre, che faceva parte di un volume a più mani dal titolo Vogliamo educare i nostri figli (a cura di Norberto Galli; Milano, Vita e pensiero, 1985, pp. 48-50), il pedagogista Giuseppe Flores D'Arcais svolgeva in proposito alcune sensate, nitide riflessioni.

 

"Parlare di 'compito' educativo, e non soltanto di obiettivi e di fini da realizzare, impone la considerazione simultanea di ciò che deve essere attuato e dei modi o procedimenti con cui l'azione educativa trova, o può trovare, il suo compimento. Non si tratta semplicemente di delineare, o individuare, i doveri cui  genitori sono chiamati e per i quali si parla di una loro responsabilità: occorre fare anche una considerazione circa le concrete possibilità della 'situazione' in cui essi operano. Se questa duplice indagine sui doveri e sull'essere, sugli ideali e sulla realtà, sul futuro da attuare e sul presente, è inerente a qualsiasi situazione educativa, tanto più è posta in luce quando si sottolinea il temine 'compito': si tratta infatti di portare a compimento un progetto, un programma, un impegno educativo.

"Non possono essere prospettati un dovere, un fine, un obiettivo, se non sono veduti in situazione. Nel passato, la pedagogia troppe volte si è presentata in forma esortativa, autoritaria, obbligante, dimenticando che, senza nulla togliere la fondatezza di un 'tu devi', è pur sempre la effettiva disponibilità che permette l'attuazione delle mete proposte: le possibilità sono molteplici, di varia natura, complesse e interagenti.

"Quale è, dunque, la situazione di fatto in cui operano, oggi, il padre e la madre? Quali le effettive possibilità loro offerte, quali i mezzi di cui dispongono? La risposta non certo esaustiva, ma almeno sufficientemente chiarificatrice, a queste domande è assai difficile, molto più di quanto non siano gli enunciati circa il dover essere educativo cui i genitori sono impegnati.

"Si parla, oggi, ripetutamente, di una crisi della famiglia. Quale significato e incidenza essa ha nell'azione educativa? La crisi,  se per alcuni studiosi è immanente, interna a qualsiasi processo di trasformazione storico-sociale, per altri si esplica chiaramente nel momento in cui una realtà umana perde il contatto con i valori e vive secondo movimenti casuali, privi noj solo di ragioni ma anche di motivazioni.

Oltre alle teorizzazioni sulla crisi generale, formulate in questi ultimi tempi è necessario ricordare che, se la società di 'tipo agrario' si è evoluta con ritmi lenti per secoli, sino alla fine del Settecento, quella industriale ha vissuto in meno di due secoli le sue trasformazioni. Oggi siamo entrati nella fase del post-industriale e s'intravedono le radicali modificazioni di una società diversa per gli anni duemila. Di là da tutte le interpretazioni o teorizzazioni, alcuni 'fati' assumono quindi un'importanza tutt'altro che irrilevante.

"Pare provato che la società industriale debba essere interpretata alla luce di alcuni parametri quali produzione, consumo, guadagno, successo, competenza tecnica o tecnologica, specializzazione o divisione del lavoro. È pure un dato altrettanto accolto che la categoria dell'avere abbia nettamente prevalso su quella dell'essere (per riprendere una felice formulazione di G. Marcel).

"Di conseguenza, l'aspirazione al 'risultato' è diventata una guida per la condotta dei figli e un progetto di vita (e quindi di educazione) dei genitori. Basterebbe considerare l'estrema preoccupazione per l'esito della vita scolastica per averne conferma. Invero, per quanto lo staus e il ruolo, che ciascuno assume nella società, non possano essere trascurati, la società industriale ha indubbiamente relegato al  secondo posto quell'umano, che una corretta visione della vita dovrebbe invece privilegiare, in quanto fonda lo stesso valore della persona.

"Ne risulta la prevalenza del sociale esteriore sulla interiorità e identità singolare, del comportamento sulla intenzionalità, del pubblico sul privato. La sociologia ha potuto così parlare di una disorganizzazione della famiglia, a causa della dissoluzione dell'armonia coniugale. Non sono mancate teorie sociologiche e filosofiche, che hanno convalidato 'fatti' di questo tipo in nome del primato del 'sociale' o del 'collettivo'.

"La famiglia ridotta al 'privato' non comunica più con gli altri: il tempo libero viene occupato dai mezzi di comunicazione di massa o dai divertimenti di gruppo, impedendo od attenuando l'incontro tra le persone all'interno del medesimo nucleo familiare. Il 'privilegiare' il successo, il proporre come obiettivo il risultato, ha disperso quel tanto di concentrazione, in virtù del quale la famiglia è una comunità di persone, che vivono assieme i loro reciproci rapporti per attuare quelle funzioni (sessuale, economica, riproduttiva, educativa) da cui conseguono anche i compiti affidati al padre o alla madre.

"Quanto è stato qui richiamato implica non accettare quelle tesi sociologiche ed economico-politiche in forza delle quali la famiglia, essendo una piccola società, risente la situazione della grande società. Non accettare siffatte interpretazioni deterministiche significa ignorare le difficoltà in cui si trova la società familiare di fronte agli interessi della società industriale. Del resto, la famiglia nucleare e l'attenzione alla categoria dell'avere, con i connessi problemi del matrimonio )aborto e divorzio) sono,, oltre che un segno dei tempi, una realtà che impone una serie d'interrogativi a cui la famiglia di oggi deve dare una risposta critica, rivedendo quegli stessi enunciati 'naturali' secondo cui la famiglia risulta strutturata.

"Ritornano alcuni problemi essenziali. Come sarà possibile attuare i compiti affidati alla madre e al padre? Attenderemo il rinnovamento della società per ottenere la riorganizzazione della famiglia? Si dovrà avviare prima la ricostruzione della singola persona, secondo l'itinerario del Rousseau (prima l'uomo e poi il suo essere sociale) e la regola rosminiana (prima si faccia l'uomo e poi lo si adoperi)?"

 

Domande difficili, cui non si saprebbe dare una risposta teorica; perché, di fatto, ogni famiglia è chiamata a elaborare le proprie strategie per attraversare questo drammatico momento storico, senza poter contare sull'aiuto di nessuno e senza poter contare su 'valori' tradizionali che siano auto-evidenti alla sensibilità dei propri figli, e che facciano direttamente appello al loro senso di responsabilità.

Il problema è che, appunto, moltissimi genitori hanno del tutto abdicato a svolgere il proprio ruolo  educante (e la stessa cosa vale per moltissimi insegnanti; ma questo è un altro discorso, e lo faremo un'altra volta). Infatti, per svolgere una consapevole funzione educante, bisogna, come minimo, possedere un progetto di vita; e, prima ancora, bisogna possedere la consapevolezza della vita come fine in vista di valori e non come pragmatismo casuale o edonistico. Se non si è coscienti di vivere per qualche cosa di grande, che trascende la propria stessa vita, e di tendere verso la realizzazione di una missione che ci è stata affidata; se non ci sente parte di una catena virtuosa che risale ai nostri lontani progenitori e che si prolunga idealmente verso i nostri lontani discendenti, una catena il cui scopo è perpetuare, proteggere e accudire la vita, non si potrà svolgere alcuna efficace azione educativa.

E questo, oggi, manca soprattutto ai genitori; al di là del fatto che il costo della vita è aumentato;  che il lavoro si è fatto precario; che mancano strutture cui affidare i figli piccoli, in sostituzione della vecchia famiglia estesa. Se poi si aggiungono, alla mancanza di un chiaro progetto di vita e di una consapevolezza della propria funzione educante, lo scarso esercizio allo spirito di sacrificio (naturalmente, parlando in generale e non per tutte le situazioni), nonché la disinvoltura con cui i genitori  pensano di supplire, mediante oggetti materiali, alla propria lontananza fisica e affettiva nei confronti dei figli, si avrà un quadro abbastanza completo, e assai allarmante, della situazione odierna.

Che fare, dunque?

Stare a guardare passivamente ed essere i testimoni impotenti e rassegnati della cronaca di un disastro familiare largamente annunciato?

I giovani della generazione del 1968 avevano un loro progetto, nel momento in cui contestavano e rifiutavano la famiglia borghese. Essi aspiravano a rifondare la famiglia allargata, non mediante un (impossibile) ritorno alla società patriarcale, bensì mediante delle "comuni" basate sulla libera associazione di soggetti, che costituissero per i bambini una pluralità di punti di riferimento parentali, in luogo delle figure univoche e monocratiche del padre e della madre, e che ricreassero il clima e l'affettività dell'antica famiglia estesa.

Tale progetto è completamente fallito; e non è questa la sede per stabilire se il suo fallimento fosse inevitabile o meno; se fosse, cioè, insito nella natura stessa del tentativo. Riflettere su ciò richiederebbe un discorso a parte; e ci riserviamo di farlo in un'altra occasione. Qui ci limitiamo ad osservare che, nella generazione 'ribelle' degli anni Sessanta e Settanta (preannunciata, negli anni Cinquanta - ma solo negli Stati Uniti e non in Europa - dalla generazione della "gioventù bruciata" alla James Dean e alla Marlon Brando), la nostalgia della famiglia estesa pre-industriale, che fosse  accogliente come un grembo materno, era così forte e sentita, che se ne riconosce il motivo ispiratore perfino in quei gruppi che sono degenerati fino alla criminalità e al satanismo, come quello, tristemente famoso, di Charles Manson, autore dell'eccidio di Bel Air.

Il fatto che quel progetto sia fallito non significa, tuttavia, che il declino della famiglia sia inarrestabile e inevitabile e che noi non possiamo fare assolutamente nulla per contrastarlo. Al contrario, è evidente che, se noi riconosciamo nell'avvento della mentalità sfrenatamente produttivistica e agonistica, tipica della borghesia industriale, le radici del male che ha minato i valori su cui la famiglia si regge, qualsiasi tentativo di invertire l'attuale tendenza alla disgregazione dovrà passare attraverso la contestazione radicale di quella mentalità e di quella prassi, ripristinando la preminenza dell'essere sull'avere.

Perciò vanno promosse, incoraggiate e sostenute tutte quelle politiche, tutte quelle azioni, tutte quelle filosofie che contestano radicalmente il mito distruttivo della crescita illimitata e quello, altrettanto distruttivo, della competizione senza quartiere, per sostituirvi un modello di società fondato sulla persona umana; sui suoi bisogni reali e non su quelli fasulli, indotti dalla pubblicità;  nonché sulla compatibilità ambientale e sul rispetto della casa accogliente ove siamo stati chiamati alla vita.

È una strada aspra e difficile, e tutta in salita.

Tuttavia, non possiamo continuare a piangerci addosso e a scusare la nostra inerzia con la solita, vecchia storia che è impossibile lottare contro forze economiche e sociali così potenti, a partire dalle multinazionali, in confronto alle quali il singolo individuo sarebbe una entità assolutamente impotente e insignificante.

Non è vero.

Abbiamo affermato, poco più sopra, che l'essere umano finisce per diventare quello che ritiene di essere. Perciò, se si considera una nullità di fronte alle forze della storia, una nullità certamente finirà per diventare. Ma se raddrizza bene la spina dorsale e si ricorda di essere una persona, e cioè molto più di un corpo o di una mera potenzialità economica, non sarà un boccone così facile da masticare nemmeno per i meccanismi politici ed economici più poderosi.

Ricordiamoci, per fare un esempio, che il mahatma Gandhi, facendo appello alle coscienze individuali, ha messo alle corde - e senza macchiarsi la coscienza con i metodi dell'oppressore - l'impero coloniale più potente della storia.

Dunque, il singolo individuo non è poi così inerme né così insignificante, se solo decide di rimanere se stesso e di non annullarsi nella folla, facendosi servo volontario.

Infine, ricordiamoci che il mare è pur sempre fatto di singole gocce; e che, come recita una canzone  brasiliana,

"quando uno sogna da solo, è solo un sogno,

ma quando si sogna tutti insieme,

è la realtà che incomincia."